Schizofrenia, la malattia che fa paura

di Alessandra Iannucci

Accrescere la conoscenza per abbattere lo stigma

Fin dagli albori dell’umanità, si è presentato il problema di come spiegare le “diversità” e le “anomalie” nel modo di pensare e agire degli individui. Ogni civiltà ha interpretato la follia in modo differente, a partire dalla propria particolare concezione del mondo e della struttura sociale, economica e politica. Di conseguenza, si sono differenziati, nel corso della storia, i modelli di intervento e le strutture inizialmente deputate alla “custodia” e successivamente alla “cura” della persona affetta da disturbi psichici.

La schizofrenia, a causa della perdita di contatto con la realtà di chi ne soffre, è stato il disturbo che da sempre, nell’immaginario collettivo, si è avvicinato di più alla concezione di “follia” e che tuttora rappresenta la malattia mentale che “fa paura”. Mentre avanza la visione delle malattie mentali in un continuum, non in contrapposizione, con la normalità, la schizofrenia continua a rappresentare una grande etichetta di malattia.

Le caratteristiche proprie della schizofrenia, come ad esempio le allucinazioni, che portano la persona a udire voci non esistenti, possono indurre atteggiamenti stigmatizzanti nella società. La maggior parte delle persone presenta un’immagine stereotipata di chi è affetto da schizofrenia, complici anche i mezzi di comunicazione, e su questa materia sono diffusi molti preconcetti che si aggiungono alle caratteristiche intrinseche della malattia, ostacolandone ulteriormente la qualità di vita.

La World Psychiatric Association e altri esperti hanno stilato un elenco sintetico delle numerose false credenze relative alle persone con schizofrenia: sono violente e pericolose; sono pigre e inaffidabili; non sono in grado di spiegare come si sentono e la propria condizione né di prendere decisioni razionali; sono imprevedibili e peggiorano progressivamente per tutta la vita. Queste credenze sono sbagliate.

Molti non immaginano che la maggior parte delle persone che presenta questa malattia ha difficoltà a sfuggire allo stereotipo della propria condizione. La conseguenza è un aumento del rischio, per chi ne soffre, di sviluppare anche una depressione, sia in reazione ai propri sintomi, che lo spaventano, sia alla paura della “pazzia”, provocando un’angoscia profonda. Diversi studi dimostrano che le persone con schizofrenia manifestano verso loro stessi i medesimi giudizi negativi che vengono espressi dalla popolazione generale. Questo fenomeno ha conseguenze importanti come: vergogna, propensione all’isolamento sociale, difficoltà nel chiedere aiuto e aumento del rischio di recidiva, ossia di ricaduta; secondo alcuni esperti, anche del rischio di suicidio

Lo stigma che si associa a gravi malattie mentali come la schizofrenia colpisce non solo i pazienti, ma anche i loro familiari. Anche se molte famiglie tendono a negare lo stigma, in realtà il sentimento di vergogna può portare a un grande isolamento. Alcune credenze erronee sulle cause della schizofrenia possono inoltre aumentare gli atteggiamenti di colpevolizzazione da parte di genitori o altre figure di riferimento.

Uno dei fattori che può contribuire a ridurre lo stigma e a migliorare l’accettazione da parte della società è la conoscenza della malattia. Le persone più giovani e quelle più istruite sembrano essere maggiormente tolleranti. Anche avere avuto un contatto precedente con un paziente affetto dalla malattia consente un’aumentata consapevolezza della propria condizione o della condizione di una persona vicina.

Le persone affette da schizofrenia che possono contare sul supporto e su atteggiamenti positivi da parte di familiari, amici e colleghi di lavoro, hanno maggiori possibilità di continuare normalmente la propria vita lavorativa e familiare.
Abbandonare i pregiudizi e guardare la schizofrenia per quello che è, cioè una malattia come un’altra, ha il potere di migliorare notevolmente la prognosi. L’informazione resta l’unico mezzo per abbattere lo stigma.

Per approfondimenti

https://www.schizofrenia24x7.it

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Dipendenza affettiva e perdita di sé

di Alessandra Iannucci

Soffrire di un Disturbo Dipendente di Personalità e consentire all’altro di regolare e influenzare in maniera totale le proprie scelte

Almeno una volta nella vita, chi non ha sentito il bisogno di chiedere un consiglio o un parere su una scelta? La risposta appare scontata, ebbene questo può accadere per questioni più banali, come la scelta di un vestito, così come per questioni più importanti, come il parere sulla persona che si decide di avere accanto.

A volte il parere degli altri può essere molto rilevante, se non determinante. Il contesto interpersonale è il motore di scelta che utilizziamo maggiormente, per il semplice fatto di essere umani. Allinearsi, sintonizzarsi ed entrare in risonanza emotiva con l’altro, secondo lo psichiatra statunitense Siegel, sono dei processi imprescindibili, senza i quali probabilmente gli individui sarebbero degli antisociali, regolati da mete proprie, bizzarre e incoerenti con il contesto. Ovviamente più la persona alla quale si chiede consiglio è importante, più il suo giudizio avrà un peso nel determinare la scelta. Alcune volte il giudizio dell’altro può condizionare i nostri scopi, persino i nostri desideri.

Fortunatamente questa dinamica relazionale è solo una nel ventaglio di possibilità delle libere scelte, caratterizzate dalla nostra più totale indipendenza. Basti pensare a quelle volte, pur consapevoli di ciò che pensa il contesto sociale, si va controcorrente e si effettua una scelta “sentita”, a volte anche coraggiosa.

Tuttavia per alcune persone, in particolare per chi soffre di un Disturbo Dipendente di Personalità (DDP), non sembra esserci questo ventaglio di possibilità: “l’altro” diviene l’unico elemento in grado di regolare, influenzare o, peggio, annientare il processo di scelta dell’individuo. Questo avviene in modo preponderante: le intenzioni soccombono, l’accesso ai propri desideri non sembra più consentito, la persona sembra dimenticare chi è, cosa vuole o quali sono i propri interessi. In sostanza, avviene un adeguamento totale e significativo al progetto di vita dell’altro.

Tale dinamica, che caratterizza il DDP, per lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio Carcione e alcuni dei suoi collaboratori, prende il nome di “Disfunzione di Rappresentazione degli Scopi” e consiste nella difficoltà ad accedere a una rappresentazione dei propri desideri, dei propri scopi e dei piani per raggiungerli, in assenza della persona di riferimento. Di conseguenza, il contesto e gli altri diventano preponderanti, tanto da portare la persona a fare un uso costante e unilaterale del coordinamento interpersonale per scegliere e per perseguire degli scopi.

Il DDP si distingue per la necessità di approvazione sociale. È presente una propensione a vivere in accordo con i desideri degli altri, mettendo in atto comportamenti persistenti di sottomissione e di dipendenza. Solitamente chi ne soffre ha sviluppato, nel tempo, la credenza di essere debole, fragile e incapace di provvedere a sé stesso e affrontare da solo gli eventi che la vita gli pone. La persona dipendente rinuncia ai propri interessi, desideri, alla propria indipendenza per assicurarsi la vicinanza dell’altro, per non deluderlo, per mantenere l’immagine di sé capace e autonomo, senza notare che, in realtà, si sta adeguando al disegno dell’altro. Alle volte, infatti, l’accesso ai propri scopi e ai propri desideri non è più consentito: la “disfunzione della regolazione delle scelte” può fare oscillare la persona tra un terrifico “stato di vuoto disorganizzato”, caratterizzato dall’assenza totale di scopi, e uno “stato di overwhelming”, ossia di sovraccarico, a causa di numerose sollecitazioni delle molteplici figure di riferimento. Lo “stato di vuoto disorganizzato” lo si ritrova, in particolare, nei momenti in cui si è verificata la rottura di una relazione nella vita del soggetto ed è caratterizzato dall’assenza di scopi e dalla presenza di pensieri relativi alla perdita e all’abbandono (“Provo un senso di angoscia, non riesco a pensare a niente, ho la mente sgombra, il cervello vuoto, sono in black out, non so che fare, vago per casa come un fantasma e delle volte resto bloccato. Un mio familiare dice che sono in un mood pianta, perché le piante stanno ferme, fanno dei piccoli movimenti solo nel lungo tempo”). Questo stato funge da potente fattore di mantenimento della persona nella relazione, anche se nella maggior parte dei casi si tratta di relazioni malsane o “tossiche”.
Dunque la dipendenza finisce per diventare essa stessa la soluzione per evitare gli stati tanto temuti di sofferenza, in un circolo vizioso che appare senza fine.

Per approfondimenti

Carcione, A., De Marco, M.C., Dimaggio, G., Procacci, M., Semerari, A., Nicolò, G., (2004). La regolazione delle scelte nei disturbi di personalità. Cognitivismo clinico, 1 (1), 32-48

Dimaggio, G., Semerari, A. (a cura di) (2006). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazioni, cicli interpersonali. Edizioni Laterza.

Siegel D. J., (1999) The developing mind. Guilford. La mente relazionale. Raffaello Cortina.

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Una vita degna di essere vissuta

di Alessandra Iannucci

Semplice raccontare l’ascesa, ma una volta in alto è facile dimenticare da dove si è partiti.

Sembra impossibile pensare che la terapia comportamentale di maggiore efficacia per il trattamento dei pazienti borderline, trovi il suo fondamento all’interno di un Istituto psichiatrico. Nella promessa di una giovane adolescente disregolata: “trascinata come selvaggina da cattura, in una camicia di forza nei sotterranei maleodoranti” dell’Institute of Living. Quella giovane ragazza di 18 anni “una delle pazienti più gravi dell’ospedale” era Marsha M. Linehan.

Marsha è oggi ricercatrice, Psicologa e Psichiatra di fama internazionale che ha concretizzato la Dialectical Behavior Therapy (DBT), il trattamento comportamentale di elezione, basato sull’evidenza scientifica, per pazienti con tendenze suicidarie ed autolesive. Ancora una volta, questa donna, inclusa nel 2018, in un numero speciale della rivista Time: “I grandi scienziati. I geni che hanno trasformato il nostro mondo”, si mette a nudo, in tutta la sua autenticità e con tutte le sue fragilità. Espone con audacia il racconto di una conciliazione dell’inconciliabile.

Una discesa all’inferno ed un giuramento a dio che ha guidato tutta la sua vita: uscirne per aiutare le persone più infelici del mondo. Pazienti suicidari, in cui la morte appare l’unica vera opzione. Persone che, anche nel rapporto terapeutico si sentono profondamente sbagliate quando gli si chiede di cambiare e non aiutate o abbandonate quando gli si chiede di accettare.

La sintesi perfetta di questa vita di tensione, tra tesi ed antitesi, fede e scienza, malattia mentale e cura, è la DBT, nella dialettica dinamica e continua tra obiettivi terapeutici opposti: l’accettazione di sé stessi e della propria situazione e la spinta verso il cambiamento.

I clinici dell’epoca, non avevano ancora colto l’importanza di raccogliere prove di ricerca, per poi sviluppare trattamenti basati su evidenze scientifiche. Le terapie del freddo e l’isolamento prolungato, sembravano gli unici interventi di elezione per la cura di pazienti disregolati come Marsha, che spesso, finivano per rinforzare il comportamento patologico.

Con il suo modo di pensare, diverso e fuori dagli schemi, Marsha, da paziente a ricercatrice clinica, ribalta le prescrizioni terapeutiche in auge. Esce dai confini terapeutici spazio-temporali del setting. I terapeuti non potevano mostrare la propria personalità, non suggerivano mai ai pazienti cosa fare, lei sì. Mette a punto un trattamento in cui il terapeuta potesse essere sé stesso ed insegnare ai propri pazienti delle abilità, per trasformare una veramente infelice, in una “vita degna di essere vissuta”.

Combina psicoterapia individuale, training di gruppo e lavoro di Team. Integra la pratica orientale Zen e include la mindfulness.

Ma non è solo la storia di una malattia, di una cura e di una rinascita; è la storia di una donna che si fa strada in un ambiente di soli uomini, di una scienziata, di una persona spirituale e di una madre americana. La storia di una figlia, che si sente sola in una famiglia numerosa e di una famiglia che vuole trasformare un tulipano in una rosa. Una storia di fede e perseveranza.

È un insegnamento a lasciar perdere battaglie che non si potranno vincere ed anche alcune che si potranno vincere; a non curarsi di essere nel giusto anche quando si ha ragione; a fare qualcosa che non si vorrebbe fare, solo perché è necessario.

La promessa è stata mantenuta. Il cerchio si chiude dove tutto è iniziato, all’Institute of Living, dove Marsha per la prima volta, dopo decenni di segretezza, il 18 giugno 2011, decide di rendere pubblica la propria storia, per non morire da codarda.

Un grande messaggio di speranza, “Se sono riuscita a farlo io, potete farlo anche voi”.

http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/marsha-linehan/una-vita-degna-di-essere-vissuta-9788832852745-3425.html