Il ruolo dei bisogni sentiti

di Alessandra Santoro
a cura di Cristiano Castelfranchi

I bisogni sono scopi di grande forza motivante, hanno una natura molto particolare, non solo perché sono rappresentati come imprescindibili necessità la cui mancata soddisfazione è concettualizzata come un danno, ma anche perché si possono “sentire”.
Castelfranchi (2004) delinea l’importante differenza tra “avere un bisogno” e “sentire il bisogno” di qualcosa, e l’efficacia del ruolo cruciale svolto dal corpo e dalla propriocezione nei bisogni “sentiti”, ovvero soggettivamente percepiti e particolarmente “pressanti”.

Si può pensare al passaggio tra i diversi bisogni come un susseguirsi di livelli.

Nella cognizione umana, avere un bisogno, significa che si ha una mancanza di qualcosa (ad esempio: una risorsa, una condizione, un’azione) che si rappresenta come necessaria al raggiungimento di uno scopo, per cui diventa uno scopo-mezzo, che implica un’azione compiuta sotto la spinta di un impulso o istinto, in cui no n entra in gioco il ruolo del corpo.

Prima di affrontare il livello del sentire un bisogno, è opportuno considerare un livello intermedio: quello dei bisogni oggettivi assunti, che ancora non coincidono con i bisogni sentiti, in quanto l’essere umano, può venire a conoscenza di un suo bisogno e tuttavia continuare a non “sentirlo”.

E’ al livello dei bisogni sentiti che il corpo assume una funzione discriminante. Per poter essere attivati, questi bisogni, necessitano di condizioni particolari: una persona deve percepire una  sensazione proveniente dal proprio corpo, deve avere la credenza di avere bisogno di una determinata cosa per raggiungere il suo scopo, ed inoltre deve attribuire la sensazione provata a quella mancanza che non gli permette di soddisfare il bisogno, per cui si attiva la ricerca in termini cognitivi e comportamentali.

Un bisogno sentito, di natura psicologica, che definiamo secondo la classificazione di Castelfranchi come bisogni sentiti astratti, non coinvolgono un segnale somatico periferico, ma ciò che si “sente” è un segnale o una traccia percettiva che è nel cervello e si trova associata a una data configurazione di scopi e credenze.
Sentire bisogni psicologici comporta una forma di disagio, dolore o sofferenza “mentale”, che implica anch’essa un segnale proveniente dal corpo, in questo caso a livello cerebrale non periferico ed inoltre, sentire questi bisogni può comportare l’attivazione di un “marcatore somatico” (Damasio, 1994), cioè di una traccia centrale di esperienze emotive o percettive associate alle rappresentazioni mentali implicate da tali bisogni.

L’importanza del riconoscere i bisogni sentiti, permette di comprendere in che maniera coinvolgono le credenze, gli scopi e l’ emozioni.
Un bisogno sentito si basa sulla credenza che la causa di ciò che si sente è una mancanza, inoltre secondo il meccanismo feeling as information, il sentire un bisogno può essere la base per formare una credenza.

I bisogni, in quanto scopi, hanno la capacità di elicitare un altro scopo, che siano essi mentali o pratici, come quelli che inducono ad  un’azione per essere soddisfatti.

I bisogni sentiti, ovviamente, possono sia associarsi che evocare altre emozioni, ad esempio relative anche al bisogno stesso, in cui la persona che le sperimenta può giudicarsi, positivamente o negativamente, per provare quel bisogno e ciò determina un’altra emozione.

Bibliografia:

Castelfranchi C. & Miceli M.(2004). Gli scopi e la loro famiglia: Ruolo dei bisogni e dei bisogni “sentiti”. Cognitivismo Clinico, 1, 5-19.
Damasio, A.R. (1994). Descartes’ error. New York: Putnam’s Sons.

 

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Chi è dipendente sa scegliere?

di Sabina Marianelli

Dal marcatore somatico di Damasio alla Mindfulness come allenamento delle capacità decisionali

Un soggetto dipendente sceglie? Sa scegliere? Sembra essere questa la domanda a cui è importante rispondere sia da un punto di vista concettuale che pratico. La persona sceglie intenzionalmente, da un lato sulla base di presupposti e motivazioni, soddisfacendo i criteri minimi perché la sua azione possa definirsi intenzionale; dall’altro, però, sembra che gli strumenti che usa per decidere siano compromessi, e non può fare a meno di comportarsi assecondando la compulsione a usare una sostanza o, comunque, a seguire un certo schema. Questo accade, da un punto di vista psicologico, a partire dai “bias percettivi” e cognitivi, come il “bias attentivo” che rende maggiormente saliente alla mente del soggetto tutto ciò abbia a che vedere con l’abuso, oppure la tendenza a rispondere all’affettività negativa usando un pattern prestabilito, la ricerca e il consumo della sostanza.

Possiamo assumere che un processo di decision making deficitario possa essere alla base del passaggio tra un’assunzione casuale di sostanze e un comportamento compulsivo e incontrollabile. La capacità di operare la scelta più vantaggiosa tra quelle possibili è una dimensione neuro-comportamentale che, correlata al comportamento impulsivo, è un tratto tipico delle condizioni di dipendenza. Alterazione della capacità di decision making e impulsività aumentano la possibilità di operare scelte o intraprendere comportamenti rischiosi soprattutto nel caso in cui gli svantaggi delle scelte non siano immediati ed evidenti. Tale alterazione può quindi portare a una sorta di “miopia per il futuro”, caratteristica delle condizioni di dipendenza, in cui l’abuso della sostanza avviene nonostante conseguenze in ambito legale, sociale, occupazionale e familiare.
Il processo decisionale (ad esempio quello di compiere una scelta tra due o più alternative), secondo Antonio Rosa Damasio, è spesso ben lontano da quello di un’analisi che consideri minuziosamente i pro e i contro di ciascuna scelta. Il più delle volte, in special modo quando abbiamo a che fare con problemi complessi, dai molteplici risvolti personali e sociali, siamo portati a utilizzare una strategia diversa che fa riferimento agli esiti di passate esperienze, nelle quali riconosciamo una qualche analogia con la situazione presente. Dette esperienze hanno lasciato delle tracce, non necessariamente coscienti, che richiamano in noi emozioni e sentimenti, con connotazioni negative o positive. Damasio chiama queste tracce “marcatori somatici”: “somatici” perché riguardano i vissuti corporei, sia a livello viscerale a che quello non viscerale; il termine “marcatore” deriva invece dall’idea che il particolare stato corporeo richiamato costituisce una sorta di “contrassegno”, o etichetta.

 

Lo psicologo portoghese riporta il caso di pazienti con danni nella regione prefrontale (in particolare ventrale e mediale) che sembravano aver perduto le capacità di provare alcune delle più comuni emozioni connesse al vivere sociale, mantenendo integre le altre facoltà cognitive superiori (attenzione, memoria, intelligenza): ciò comportava per loro l’incapacità di decidere in situazioni che riguardano i propri interessi o quelli degli altri. Un problema nella decisione, processo che si pensa squisitamente razionale e cognitivo, emerge dunque da una compromissione a livello emotivo. Questo ha sicuramente costituito una rivoluzione paradigmatica dello studio della psicologia.

 

Secondo Otto Gross, le strategie di regolazione emotiva sono processi che influenzano, appunto, la decisione dell’individuo su quali emozioni avere, quando averle, come esperirle e come esprimerle e si situano a vari livelli del percorso, dalla selezione della situazione fino alla valutazione cognitiva e infine alla manifestazione comportamentale dell’emozione.

L’ipotesi del marcatore somatico sostiene che lo stato somatico influenza la presa di decisione e la memoria di lavoro: l’influenza nei contenuti mostrati in quest’ultima aiuta ad approvare o rifiutare oggetti e opzioni di risposta che arrivano alla mente durante il processo della scelta. Anche solo la rappresentazione mentale di un evento futuro può attivare uno stato somatico, e può essere processato consciamente o a livello inconscio.
Indipendentemente da come gli stati somatici sono attivati, se da induttori primari o secondari, essi si attivano nel corpo in una somma di stati positivi e negativi, fornendo segnali al cervello che poi fornisce il substrato del sentire e in un secondo momento il substrato per influenzare la decisione. L’influenza può avvenire a due livelli:

  • covert, a livello dello striato, la persona risponde in maniera inconsapevole, automatico, senza una vera e propria decisione;
  • overt, a livello della corteccia prefrontale orbitofrontale e del cingolato anteriore, quando la persona focalizza un pensiero e un piano d’azione ed ha il controllo conscio di essa.

La mindfulness agisce sulla dipendenza ri-allenando il processo decisionale a entrambi i livelli e funzionando come un meta-processo di regolazione emotiva centrata sulla consapevolezza e sull’accettazione: secondo Katie Witkiewitz, un training mindfulness può rompere il ciclo automatico stimolo-risposta, aumentando consapevolezza, accettazione del disagio fisico e affettivo, riducendo la reattività agli indicatori relativi al craving, favorendo risposte più adattive agli stressors e migliorando la regolazione emotiva, il controllo cognitivo e le funzioni esecutive. Questi cambiamenti aiutano la riduzione sia dell’interazione tra fattori di rischio che  all’immediata reazione ad essi.