Coscienza e Dissociazione

di Federica Iezzi

Simposio in memoria di Giovanni Liotti: “Coscienza e dissociazione”

Con uguale calore e con la stessa vicinanza che avevano distinto la platea circa un anno fa, in occasione del ricordo della sua ultima presenza pubblica alla celebrazione per i “40 anni della Psicoterapia Cognitiva”, il 18 Gennaio 2019, a Roma, la sala del Teatro Italia applaude Giovanni Liotti. Si raccoglie in sua memoria, ricordando il poderoso lascito di intellettuale, di clinico e teorico capace di sviluppare, in una raffinata analisi di matrice evoluzionista, un modello del mentale che solca traiettorie unificanti nelle conoscenze multidisciplinari che animano il fervido dibattito della psicopatologia dal XX secolo ad oggi.

Apre i lavori, in veste di Chairman, il Prof. Francesco Mancini, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta, Direttore delle scuole APC e SPC, al quale si unisce il Dott. Maurizio Brasini, didatta della SPC di Roma e Ancona, che ricorda Gianni come un “costruttore di ponti” epistemologici, come docente, collega e amico che con la sua poderosa opera lascia ciò che può essere meglio definita dal termine inglese “legacy”: non solo un’eredità ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare.

La prima relazione, a cura del Prof. Nino Dazzi, Professore Ordinario di Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma, riconduce i lavori liottiani sulla psicopatogenesi dei disturbi dissociativi all’opera pioneristica su trauma e dissociazione di Pierre Janet a partire da “L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale nelle forme inferiori della attività umana” (1913). Nel testo la spiegazione di alcune forme patologiche viene ricondotta ad un modello dell’attività psichica caratterizzato dalla presenza, al di sotto della vita cosciente, di una vita subcosciente costituita dalle emozioni elementari e dagli istinti. Per Janet i disturbi dissociativi derivano dal fallimento della “sintesi mentale” e dalla conseguente “disaggregazione” per cui gruppi di idee (le «idee fisse subconsce», o «frammenti scissi della personalità»), si pongono al di fuori del controllo della coscienza traducendosi in atti automatici o subcoscienti. Il trattamento propone un modello suddiviso in fasi allo scopo di curare la dissociazione ravvisabile nei pazienti e portarli all’integrazione della loro personalità.

Il secondo intervento, a cura del Prof. Antonio Semerari, Psichiatra e Psicoterapeuta, Didatta APC e SPC, ripercorre il sodalizio tra Guidano e Liotti nel collocare la Teoria dell’Attaccamento all’interno della nuova cornice cognitivista. Gli autori sostenevano che il principio di coerenza regola i processi mentali, garantendo continuità al senso di sé, e che l’Attaccamento ha il ruolo fondamentale di fornire strutture di significato attraverso le quali mantenere una coerenza nell’identità. Tuttavia, mentre per Guidano tali strutture di significato venivano continuamente perturbate da esperienze non immediatamente integrabili, per Liotti è l’Attaccamento stesso a poter dare origine all’incoerenza, sotto forma di disorganizzazione nelle rappresentazioni e nel comportamento. Tale disorganizzazione procede nel venir meno delle funzioni integratrici della coscienza, dove per coscienza Liotti intende una coscienza interpersonale la cui soggettività è imprescindibile dall’Altro. Tali postulati conducono alla definizione dell’assetto dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI; Liotti e Monticelli, 2008) i quali influenzano momento per momento la relazione. Attraverso l’analisi degli SMI è possibile formulare gli obbiettivi terapeutici, la costruzione e il mantenimento dell’alleanza terapeutica, nonché delle sue fratture e riparazioni.

Nell’intervento successivo, la Dott.ssa Lucia Tombolini, Psichiatra e Psicoterapeuta, mette in evidenza la relazione esistente tra l’utilizzo di metafore, i sintomi clinici riportati dal paziente e la conoscenza di sé, all’interno della cornice di pensiero di Giovanni Liotti e alla luce delle docenze da lui tenute nei primi anni ‘80 nel corso di formazione in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, raccontate con aneddoti non privi di malinconia. “La conoscenza di sé, che appare nell’esperienza soggettiva, come una sorta di dialogo interiore, è la più evidente opera della coscienza umana”, scriveva Liotti nel 1982. Questo postulato mette in luce il primo fondamentale aspetto della coscienza, ovvero “l’effetto su di sé”, una funzione riflessiva che comporta l’esistenza di una continuità tra la conoscenza di sé espressa nella memoria autobiografica e le memorie implicite, sensoriali, percettive o emotive della persona. In terapia, le metafore servirebbero dunque a rilevare lo sfondo implicito del ricordo della persona, attraverso un veicolo di somiglianza con i contenuti della memoria dichiarativa e autobiografica, talora dissolta, come accadeva per l’Uomo dei Chiodi. Il paziente, attraverso l’uso delle metafore, tenta di descrivere sé stesso su un piano semantico attraverso conoscenze implicite che non riesce a tradurre in un codice verbale completo.

Nella complessità del continuo fluire delle emozioni e dell’umore nelle situazioni interpersonali, le metafore divengono veicolo di significato: esse si comprendono insieme, in un’esplorazione congiunta che gradualmente rileva il senso intimo dell’esperienza soggettiva.

In conclusione, il Prof. Benedetto Farina, Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore Ordinario in Psicologia Clinica presso l’Università Europea di Roma, nel suo intervento “Il futuro delle idee di Giovanni Liotti: dalla dissociazione della coscienza alla dis-integrazione mentale, implicazioni teoriche e cliniche”, ripercorre gli sviluppi degli studi sul Trauma e Dissociazione (1992). Nel dettaglio, la Disorganizzazione nell’Attaccamento (AD) è il precursore della dissociazione nell’adulto, predispone sia alla dissociazione che a successivi traumi e agisce tramite il conflitto tra i sistemi motivazionali innati e l’esposizione a significati impliciti, frammentati e contraddittori. Nella prima opera liottiana la dissociazione è, per definizione, dissociazione della coscienza, della memoria e della identità, coincide con la compartimentazione ed è il risultato della dissonanza cognitiva prodotta dal conflitto motivazionale. La dissociazione opera dunque in maniera da tenere le informazioni segregate o dissociate dalla processualità della coscienza. Nella seconda fase della sua opera, la dissociazione rappresenta il venir meno delle capacità integrative superiori, non colpisce solo la coscienza, la memoria e l’identità ma tutte le funzioni integrative, tra cui le funzioni esecutive e la metacognizione.

Infine, il Prof. Farina illustra i contributi delle neuroscienze e degli studi sulle Adverse childhood experiences, in cui viene messa in luce l’influenza del contesto interpersonale traumatico nel generare credenze patogene e nel procedere verso la dis-integrazione dei livelli evoluzionisticamente e funzionalmente più elevati della mente. La riflessione conduce alla distinzione tra dis-integrazione mentale e dissociazione, ove per la prima s’intende il venir meno della normale integrazione delle funzioni mentali superiori, o delle funzioni esecutive, mentre per la seconda la riorganizzazione patologica conseguente al meccanismo disintegrativo con la presenza di più centri di coscienza, di “più di un sé”, segregati e non integrati, che condurrebbe allo sviluppo di personalità multiple (Liotti e Farina, 2011).

Il Simposio dedicato alla memoria di Giovanni Liotti si stringe, a chiusura, attorno all’immagine di “Gianni” come illuminista, riferimento chiaro tra le numerose diramazioni della psicopatologia fino ai giorni nostri, e nella riflessione, quasi un monito: “la coscienza non è ciò che rende chiara tutta la vita mentale ma qualora la fiaccola venga a mancare il rischio è di cadere nell’oblio della ragione”.

L'intervento sul trauma secondo Martin Bohus: accorgimenti e indicazioni di metodo

di Chiara Lignola e Niccolò Varrucciu

Venerdì 12 e sabato 13 giugno presso l’Auditorium Via Rieti si è tenuto il workshop “DBT-PTSD: trattamento degli esiti psicopatologici degli abusi sessuali infantili” organizzato dalla SITCC Lazio e dalla Società Italiana Dialectical Behavior Therapy. Il seminario (per una sintesi dell’evento, a cura di Barbara Basile, è possibile collegarsi a questa pagina) è stato condotto dal Prof. Martin Bohus, professore ordinario dell’Università di Heidelberg e Direttore della Clinic for Psychosomatic Medicine and Psychotherapy di Mannheim, Board Member della German Association of Psychiatry (DGPPN), vice-Presidente of the European Society for the Studies of Personality Disorders (ESSPD) e presidente of the German Association for DBT.

Lo stile puntuale e coinvolgente del prof. Bohus ha tenuto alta l’attenzione dell’uditorio, evitando di trasformare il workshop nella “solita” lezione teorica sui principi della DBT che, purtroppo come a volte accade, lascia poco spazio all’illustrazione del trattamento, così utile a noi clinici. Le preziose nozioni teoriche si sono infatti intervallate con esercizi pratici di compassion, mindfulness, defusione, esempi clinici e interventi che, facendo sorridere i presenti, hanno permesso una migliore comprensione delle dinamiche della psicopatologia ed evidenziato come spesso i terapeuti abbiano riluttanza a parlare degli episodi traumatici riguardanti abusi sessuali, spezzettando il racconto in più incontri e trattando i pazienti borderline come oggetti particolarmente fragili… un po’ come se un urologo, citando Bohus, ci proponesse vari incontri nei quali nel primo si tolgono i pantaloni, nel secondo l’intimo…

Il rischio è, dunque, anche quello di alimentare la paura del paziente che il terapeuta non sia in grado di tollerare i dettagli di quanto gli è successo “potete parlare della vostra vita con la vostra fidanzata o dal barbiere ma purtroppo non ci sono dati che dimostrano che raccontare la propria vita aiuti a gestire la propria regolazione emotiva”.

“Trauma first!” Ancora prima di insegnare al paziente social skills per gestire la propria regolazione emotiva, Bohus propone di lavorare sul trauma partendo dalla conoscenza dei meccanismi di fuga emotivi, cognitivi e comportamentali messi in atto dal paziente prima.

I pazienti vogliono cancellare il trauma e non accettarlo, la terapia è invece rivolta a valutare il trauma come parte della propria vita: ricordare il trauma senza perdere il contatto con la realtà e considerarlo come appartenente al passato. “Sei sopravvissuto a quel periodo e sopravvivrai ai pensieri e ai ricordi di quel periodo.” L’intervento dev’essere così preciso che il prof. Bohus parla, utilizzando una similitudine, di “chirurgia psicologica”.

Nell’analisi delle fasi del trauma, il Prof. Bohus effettua una comparazione con il lutto. In questo processo il terapeuta assume il ruolo di quegli amici e parenti che si prendono cura di chi è in lutto, cercando di fornire tutto il supporto necessario rispettando i confini della persona al fine di non risultare invadente e limitare così l’efficacia del proprio intervento “un po’ come quando in alcune culture il vicinato prepara i pasti per la famiglia colpita dal lutto lasciandoli poi fuori dalla porta, senza entrare in casa”.

Una delle parti fondamentali di questo trattamento consiste nel gestire adeguatamente gli stati dissociativi del paziente al fine di permettere una corretta e consapevole rielaborazione della memoria dell’evento traumatico. Per questo sono state indicate semplici strategie utili al riconoscimento e alla gestione degli stati dissociativi.

Per rendere ulteriormente comprensibile la fase di esposizione al trauma è stato proiettato un video che ben ha mostrato i ruoli di terapeuta e paziente e l’interazione che avviene durante la seduta: il paziente viene esposto alla rievocazione del trauma stando in equilibrio su una pedana circolare sulla quale deve cercare di rimanere sorretto dal sostegno del terapeuta, quando il paziente stesso lo desideri: essere nella condizione di dover mantenere l’equilibro impedisce la dissociazione. Il paziente allora inizia a raccontare l’evento traumatico e una volta che il paziente riesce a sperimentare l’emozione core il terapeuta effettua continui confronti fra la situazione passata, in cui effettivamente ha sperimentato il trauma, e quella attuale, nella quale c’è l’emozione ma in assenza di un trauma effettivo. Con il passare delle sessioni la realtà del paziente verrà ri-orientata correttamente, permettendogli di superare quel “terribile” evento. Questo lavoro continuerà per tutti i traumi riportati.

L’intervento del Prof. Bohus ha assunto una particolare rilevanza nell’assegnare alla psicoterapia un ruolo sempre più rilevante nella cura del paziente grave e incoraggiando giovani clinici e ricercatori nel proseguire in questo cammino tanto arduo quanto ricco di soddisfazioni.

Workshop sulla DBT per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e sintomi post-traumatici

di Barbara Basile

Il workshop organizzato dalla SITCC pochi giorni fa a Roma ha consentito al professore Martin Bohus di illustrarci il suo approccio dialettico-comportamentale (DBT) al trattamento dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD), vittime di abusi sessuali infantili. L’intervento del professore di Medicina Psicosomatica e Psicoterapia dell’università di Heidelberg (tra le altre, anche Dirigente della Clinic for Psychosomatic Medicine and Psychotherapy di Mannheim, vice-presidente della Società Europea per gli studi sui Disturbi di Personalità, Presidente dell’Associazione tedesca per la DBT e altre ancora!) ha illustrato in modo semplice ed efficace come intervenire con quei pazienti che hanno sviluppato un DBP, in seguito ad un trauma infantile a sfondo sessuale. Il modello integra diversi approcci di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) di terza generazione, tra i quali la DBT, l’Acceptance & Committment Therapy (ACT, Steve Hayes) e la Compassion Focused Therapy (Paul Gilbert), usati come facilitatori e motivatori, con una più classica esposizione al trauma, che avviene in una fase più tardiva del trattamento.

È noto che l’abuso sessuale infantile è fortemente correlato allo sviluppo di disturbi, tra i più frequenti sono quelli del sonno, il DBP, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i tentativi suicidari, aumentando di ben tre volte la probabilità di sviluppare una patologia psichiatrica in età adulta. Molto spesso, inoltre, i sintomi di queste patologie si associano l’uno con l’altro e contribuiscono ad una bassa autostima, allo sviluppo di disturbi di somatizzazione (i.e., obesità, disturbi metabolici o cardiaci) e predispone a gravi sintomi dissociativi.

In seguito ad esperienze abusanti, il senso di auto-protezione/sicurezza del bambino è fortemente minato, innescando emozioni di paura, dolore, disgusto e impotenza, che attivano comportamenti di evitamento o congelamento. Questi meccanismi hanno l’obiettivo di proteggere il bambino nel tentativo di difendersi dall’esperienza traumatica, essendo costretto a restare nel contesto familiare, spesso teatro dell’abuso. In seguito, il paziente sviluppa delle credenze come “nella mia famiglia questo è normale”, “devo aver fatto qualcosa di sbagliato” o “sono sbagliato, sporco e merito di soffrire” che attivano emozioni secondarie, come la colpa e la vergogna. Queste emozioni permettono al paziente di spiegarsi in qualche modo l’esperienza subita e a sopravvivere nell’ambiente sociale, in modo da evitare l’esclusione o il rifiuto da parte degli altri.

Il modello di Bohus, autore di oltre 200 pubblicazioni, alcune delle quali volte a dimostrare l’efficacia dell’intervento, individua nella necessità di sicurezza e nello scopo dell’affiliazione sociale, i bisogni e gli scopi fondamentali del paziente BPD. Nell’età adulta diversi eventi (i.e., un odore, un suono, un ricordo, una sensazione, etc.) possono attivare un’emozione primaria simile a quella esperita durante l’abuso che accende il network del trauma del paziente, attivando, a sua volta, comportamenti di evitamento o di fuga (Figura 1). Per evitare l’attivazione di questo network, e delle emozioni ad esso associate, il paziente impara a sviluppare delle strategie di coping maladattive (i.e., rituali di pulizia, gesti auto-lesivi, uso di sostante, negazione, rimuginio, etc.), che a lungo termine causano ulteriori sintomi disfunzionali.

Figura 1
Figura 1

Lo scopo del trattamento consiste nell’aiutare il paziente a bloccare l’evitamento e a connettersi, invece, con l’emozione primaria associata all’esperienza di abuso, ricollocandola nella realtà in cui il paziente opera, slegandola, quindi, dall’esperienza traumatica passata. È importante sottolineare che le emozioni primarie e le sensazioni esperite dal bambino possono essere anche piacevoli (i.e., sentirsi speciali, eccitamento sessuale, vicinanza) creando una associazione positiva con l’abuso e diventando, anch’esse, trigger dell’esperienza traumatica. L’obiettivo dell’intervento consiste nell’identificare le strategie di evitamento del paziente e nello scollegare le emozioni primarie (paura, disgusto, impotenza) da quelle secondarie (colpa e vergogna), in modo da aiutare il paziente ad elaborare ed accettare le emozioni associate al trauma.

Un aspetto fondamentale da trattare è quello della dissociazione. Lo scopo in terapia è impedire che il paziente si dissoci sia quando si attivano le emozioni primarie associate al trauma, che durante l’esposizione al ricordo traumatico, bilanciando in modo appropriato l’accettazione delle emozioni primarie associate al trauma e la consapevolezza e il contatto con la realtà attuale. La dissociazione può essere attenuata con diverse strategie, quali l’utilizzo di acqua gelida, la stimolazione del sistema vestibolare o il contatto orale con del peperoncino. Un altro aspetto importante è legato alla pratica di comportamenti pericolosi, auto-lesivi o suicidari. Questi vanno identificati (ad esempio usando la Severe Behavior Dyscontrol Interview) e limitati attraverso un contratto terapeutico scritto molto articolato e insegnando al paziente a regolare le emozioni particolarmente intense. Un altro aspetto che va regolarizzato riguarda le relazioni interpersonali in corso. È consigliato che i pazienti interrompano per un certo periodo le relazioni con persone che presentano tratti border (per evitare che queste possano innescare comportamenti disregolati), così come andrebbero sospesi i rapporti sessuali con i partner (anche questi potrebbero fungere da trigger dell’abuso).

Operativamente, la struttura del trattamento prevede le fasi di 1) motivazione e pianificazione (in cui vengono usate strategie dell’ACT, come l’identificazione di valori e la defusione), 2) la condivisione del razionale del trattamento e l’apprendimento di abilità relazionali e di regolazione emotiva, 3) l’esposizione al trauma ed, infine, 4) la ri-organizzazione di una vita più funzionale. All’interno del trattamento va anche considerata la psico-educazione e la gestione delle emozioni di colpa, vergogna e disgusto. In seguito all’intervento specifico su queste emozioni, il paziente viene esposto alle esperienze traumatiche (in seduta e tramite homework), favorendo una dissociazione delle emozioni primarie legate al trauma passato, dall’attivazione delle stesse nella vita presente.

Il modello DBT per pazienti con BPD associato a trauma sessuale infantile proposto da Bohus rappresenta una integrazione flessibile ed efficace che accomuna strategie della classica CBT e nuovi approcci psicoterapici. Gli studi di efficacia mostrano un drop-out molto basso e un netto miglioramento sintomatologico (i.e., riduzione dei gesti suicidari e auto-lesivi, gestione dei sintomi dissociativi, diminuzione dell’attivazione del network del trauma, etc.), anche in pazienti con un BPD molto grave.