Profilassi nella depressione ricorrente

di Francesca Palladini
a cura di Alberto Chiesa

MBCT valida alternativa agli antidepressivi di mantenimento

Il Disturbo depressivo maggiore, è un Disturbo dell’umore che coinvolge la persona in maniera multidimensionale, interferendo sul benessere complessivo della stessa: qualità della vita, funzionamento psicosociale e lavorativo. Dopo aver vissuto un episodio depressivo maggiore, la persona cerca di riprendere il controllo della propria vita, ma è spesso ostacolata dalla persistenza di ruminazioni negative, che facilitano la riattivazione dei pattern di pensiero negativo, causando la ricaduta nella spirale discendente.

Zindel V. Segal et al. hanno condotto uno studio, all’interno del trattamento per la profilassi delle recidive depressive, ponendosi l’obiettivo di confrontare l’efficacia della Monoterapia antidepressiva con la Farmacoterapia sequenziale e della Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza o placebo. Lo studio approfondito del Centro di tossicologia e di salute mentale di Toronto, ha visto coinvolti 478 pazienti di età compresa tra 18 e 65 anni, che soddisfacevano i criteri del DSM-IV, per il Disturbo depressivo maggiore. Ha previsto due fasi: durante la fase acuta tutti i pazienti hanno ricevuto la Farmacoterapia antidepressiva ed in seguito solo i pazienti, che hanno soddisfatto i criteri di remissione, sono entrati nella fase di mantenimento ed assegnati in modo casuale ad una delle tre condizioni di studio:
– Terapia antiepressiva di mantenimento;
– riduzione dei farmaci più Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza;
– riduzione dei farmaci più placebo.
Gli psichiatri hanno studiato le fasi del trattamento, con una frequenza di incontri identica per tutte e tre le condizioni, constatando che con la Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza, il tasso di recidiva nel Disturbo depressivo maggiore si riduceva di circa la metà, risultando quindi una valida alternativa alla Farmacoterapia antidepressiva di mantenimento. La MBCT, nello studio sopra citato, è stata attuata secondo il protocollo descritto da Segal et al. che ha previsto otto settimane di trattamento in gruppi di due ore, un giorno di ritiro tra le sessioni sei e sette e durante la fase di mantenimento è stata offerta una classe di meditazione facoltativa, di un’ora al mese. Gli incontri avevano l’obiettivo di aiutare i pazienti a coltivare la propria consapevolezza e ad evitare il ripristino di forme automatiche di pensiero e dolore, caratteristiche dello stato depressivo, come la ruminazione e l’evitamento.

In definitiva, la pratica della Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza, quale risorsa per imparare un nuovo modo di relazionarsi con le esperienze difficili, rappresenta, per la prevenzione contro le recidive depressive, un approccio promettente.

Il legame tra il disturbo depressivo maggiore e l’Alzheimer

di Brunetto De Sanctis

Un fattore di rischio e un segno anticipatorio dopo i 65 anni e fino a sei anni prima della chiara manifestazione sintomatica della demenza

Il disturbo depressivo maggiore è una delle condizioni psicopatologiche più frequenti nella terza età. In Italia, nelle persone ultra 65enni, la depressione maggiore e la distimia hanno una prevalenza in un anno pari al 4.5%, mentre si stima che la demenza di Alzheimer abbia una prevalenza del 5% in persone con più di 60 anni. Alcune ricerche suggeriscono che la depressione sia fortemente associata alla demenza. Tuttavia, i dati non sono ancora univoci nel dare un chiaro significato al disturbo depressivo maggiore: la sindrome oscilla tutt’ora tra l’essere considerata come un fattore di rischio, un antecedente o un disturbo in comorbilità alla demenza. Analizzando gli studi scientifici che trattano questo specifico argomento, emerge che  il legame tra sintomi depressivi e Alzheimer  è considerato un segno precoce della successiva manifestazione della malattia, mentre gli studi che analizzano la connessione tra depressione maggiore e Alzheimer mettono in risalto come la depressione maggiore sia un fattore di rischio. A sostegno di questa ipotesi di lettura, vi sono anche dei dati provenienti da studi neuroistopatologici in cui si evidenzia come in soggetti con la malattia di Alzheimer e una storia di depressione maggiore (almeno un episodio depressivo maggiore prima dell’esordio della malattia di Alzheimer) vi siano più segni di degenerazione neuronale nell’ippocampo (la struttura del cervello colpita essenzialmente dalla malattia neurodegenerativa) rispetto a persone con l’Alzheimer ma senza storia di depressione. Leggi tutto “Il legame tra il disturbo depressivo maggiore e l’Alzheimer”