Anna vede ma non viene vista

di Claudia Colafrancesco
a cura di Erica Pugliese
illustrazione di Elena Bilotta – Disegni per la salute mentale

Cosa è successo ai bambini che hanno assistito alla violenza durante il lockdown?

“Dottoressa, secondo lei si sta bene anche da sola? Mica devo avere un compagno per forza? Quando il mio ragazzo mi ha lasciato, papà ha fatto un casino, per lui la famiglia deve restare unita. Non sopporta neanche che mio cugino si sia separato e abbia un’altra compagna. A me sembra felice”.

[…] “Ma l’amore esiste davvero? Io non voglio un compagno. Ho visto soffrire troppo mamma e non voglio fare la sua stessa fine”.

[…] “Una volta ho visto papà picchiare mio fratello. Calci e pugni. Gli prendeva la testa e gliela sbatteva contro il muro. Ho avuto paura. Mica è normale?! Avrebbe potuto anche ucciderlo.

Una volta è successo anche con mamma, ma ero più grande e ho chiamato i Carabinieri. Papà ancora oggi ce lo rinfaccia. Mamma dice che è meglio non denunciare. Se pazientiamo ancora un po’, vendiamo la casa e andiamo a vivere da un’altra parte”.

[…] “Papà dice che andrà via ma a me pare che sta sempre lì. Secondo lei non se ne va perché è ancora innamorato di mamma? Mamma dice che deve essere lui a lasciare la casa, noi non ce ne dobbiamo andare”.

[…] “Non ce la faccio più dottoressa, non si può più uscire e anche lui sta sempre a casa. No, non è violento. Con me non è mai stato violento (fisicamente, ndr). L’altra mattina ho fatto rumore mentre mi facevo il caffè e l’ho disturbato. Mi ha detto: ‘Sta grassona! Ancora stai a casa a spese mie. Quando morirà tua madre, che pensi che ti manterrà tuo fratello?! Resterai sola!’. Ho provato a raccontarlo a mamma, ma lui mi ha sentito. Ha fatto uno scatto, come se volesse farmi del male. Aveva gli occhi indemoniati. Ho pensato: ‘Ora mi uccide!’. Si è fermato”.

Anna vede ma non viene vista. È stata una bambina “invisibile”, cresciuta nella paura del padre. Non considerata oggetto di violenza, soprattutto quando questa è stata meno palese come lo è il maltrattamento psicologico, viene percepita estranea alla situazione. Oggi è una giovane donna, ma respira ancora violenza. Quella violenza invisibile, a volte assistita, altre subita, che non lascia segni sulla pelle e sulle ossa. Le “cicatrici” sono visibili, però, nel suo presente dai contorni incerti, fatto di dubbi ossessivi, e nei suoi vissuti stravolti da una burrasca emotiva legata al terrore di restare sola.

Per Anna il periodo di reclusione ha esacerbato i costi della convivenza con un padre violento, così come tanti bambini e adolescenti che in questi mesi di chiusura forzata sono stati costretti a respirare l’aria di casa.

I media hanno promosso immagini positive di famiglie intente a preparare pizze e dolci e a studiare passatempi per rendere meno noiose le giornate. Ma dietro questi quadretti gioiosi si nascondono le tante, sicuramente troppe, “Anna” che hanno vissuto tre mesi da incubo, come denuncia Gloria Soavi, presidente del Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (Cismai) che, assieme ad altre decine di associazioni, ha chiesto al Governo un “decreto bambini” per realizzare una task force dedicata e la messa in campo di misure straordinarie. L’isolamento amplifica le situazioni di violenza:  “anche in condizioni normali – ha spiegato Soavi – non è facile chiedere aiuto, adesso è praticamente impossibile riuscire a rivolgersi a un adulto di cui si fidano”.

Una ricerca portata avanti dall’ospedale Giannina Gaslini ha evidenziato le ripercussioni che il lockdown ha portato con sé sullo stato psicologico dei bambini. Dall’analisi dei dati relativi alle famiglie con figli minori di 18 anni a carico, è emerso che sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. In particolare, si è registrato un aumento dell’irritabilità, instabilità emotiva, cambiamenti del tono dell’umore, disturbi del sonno e disturbi d’ansia, per effetto diretto del confinamento stesso e per il riflesso del malessere vissuto dai genitori.

Se questo è lo specchio di quel che è stato il lockdown per i bambini in “comuni” famiglie italiane, possiamo solo immaginare le conseguenze per quei bambini che abitualmente respirano violenza. Un intervento tempestivo nella fase acuta consente di ridurre i rischi di sintomatologie post-traumatiche perduranti nel tempo. La letteratura nazionale e internazionale considera la psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) il trattamento psicologico d’elezione nei casi di violenza assistita con una efficacia dimostrata a livello scientifico secondo una prospettiva di Evidence-based Medicine.

Anna è intrappolata in una casa che dovrebbe proteggerla, l’unico spazio che sente suo è quando si reca in terapia e può essere “vista”.

Per approfondimenti:

http://www.gaslini.org/wp-content/uploads/2020/06/Indagine-Irccs-Gaslini.pdf

https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/minori_maltrattati_cismai_il_lockdown_ha_innalzato_il_rischio_di_abusi_

Donne vittime del lockdown

di Rossella Cascone e Erica Pugliese

Durante l’isolamento sono aumentati gli episodi di violenza domestica. Ecco come chiedere aiuto

A partire dal 9 marzo scorso, per tutti gli italiani vi è stato l’obbligo di restare a casa e ridurre al minimo la circolazione e gli spostamenti se non per motivi di necessità. Inevitabilmente il periodo di lockdown ha prodotto effetti spiacevoli e negativi, in diversa misura, per tutti.

Come evidenziato da articoli di cronaca, per alcune donne la casa è diventata una trappola mortale. Le donne vittime di violenza domestica sono state costrette, infatti, a restare in casa a stretto contatto con i loro aguzzini, sole o con i propri figli. Questo ha comportato un rischio maggiore per la loro salute e per la loro incolumità, essendo più esposte a violenze sia fisiche sia verbali senza avere l’alternativa di fuggire per proteggere sé stesse e chi assiste inerme alla violenza.

I bambini e le bambine sono stati più frequentemente testimoni della violenza subita dalla loro madre, delle scene aggressive e delle minacce. A questo si aggiunge il vissuto emotivo che tale esposizione comporta e il senso di impotenza e di colpa per non essere in grado di contrastare tali violenze. Come dimostrato da diversi studi sulla violenza assistita, tutto questo comporta un’alterazione del loro benessere fisico e psicologico e una compromissione del loro sviluppo su vari livelli anche nel lungo termine.

L’isolamento da lockdown è stato sicuramente un’aggravante. Secondo un’organizzazione no profit cinese che lavora con le donne, il numero dei casi di violenza domestica nella provincia di Hubei è aumentato in maniera vertiginosa riportando, nel mese di febbraio, il doppio delle segnalazioni rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le autorità francesi hanno denunciato un incremento delle violenze del 30% in questo periodo. In Turchia, nello specifico a Istanbul, la polizia dichiara un aumento del 40% degli episodi di violenza domestica denunciati. Secondo un rapporto Istat pubblicato a maggio e in linea con i dati europei, anche in Italia durante il lockdown le richieste d’aiuto sono incrementate del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019.

Nonostante l’incremento dei casi di violenza e delle successive richieste d’aiuto, nella prima metà di marzo le chiamate al 1522, il numero nazionale antiviolenza e stalking, si sono ridotte del 55,1% rispetto all’anno scorso. Questo dato è legato al fatto che l’isolamento forzato ha incrementato la possibilità da parte dell’abusante di controllare e limitare la libertà della vittima. Inoltre, ha diminuito il supporto sociale, forte fattore protettivo contro la violenza domestica. La vittima, non potendo uscire, ha avuto delle difficoltà a trovare dei momenti disponibili per contattare i servizi di competenza e ricevere aiuto e un sostegno psicologico.

Un’altra ragione che può spiegare questo calo delle denunce risiede nel fatto che la coppia possa essersi trovata nella cosiddetta “fase della luna di miele” o comunque in un momento di “tregua”, ovvero in una fase del ciclo di violenza in cui si ricomincia a vivere più tranquillamente e alla donna possono essere fatte delle “concessioni”. Il motivo di questa calma apparente risiede nel fatto che il maltrattante esercita maggiore controllo sulla vittima e, di conseguenza, diminuiscono i pretesti più vari percepiti come “colpe” della partner.

La violenza è però sempre dietro l’angolo ed è quindi importante non sottovalutare i segnali di una relazione tossica.
D’altra parte, dall’osservazione clinica è risultato che le vittime hanno sfruttato ogni occasione a disposizione durante il lockdown per poter contattare i servizi antiviolenza: quando portavano a spasso il cane, quando andavano a fare la spesa o in farmacia e anche mentre buttavano la spazzatura.

Il 1522, il numero anti violenza e stalking, istituito dal Dipartimento delle Pari Opportunità è attivo 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno ed è gratuito. Nel caso in cui il clima di terrore renda difficile fare una telefonata, esiste anche un’applicazione che permette di chattare con un’operatrice del 1522. Su internet è disponibile, inoltre, un elenco dei Centri Antiviolenza presenti sul territorio nazionale che è possibile contattare in qualsiasi momento.

Anche la Polizia di Stato si è attivata per garantire la massima accessibilità al pronto intervento per le donne vittime di violenza. L’applicazione YouPol, ideata per contrastare bullismo e spaccio di sostanze stupefacenti nelle scuole, è stata aggiornata aggiungendo la possibilità di segnalare i reati di violenza domestica con le stesse modalità delle altre tipologie di segnalazione. Si può inoltre effettuare direttamente una chiamata al numero di emergenza unico (Nue) e le segnalazioni possono essere effettuate anche da chi è testimone diretto o indiretto della violenza, come ad esempio figli o vicini di casa.

Vi è infine la possibilità di contattare le varie associazioni che si occupano della violenza di genere e della violenza assistita che hanno attivato canali via chat per mettersi in contatto con un’operatrice e chiedere aiuto.

Se ti trovi in una situazione di violenza e non sai come uscirne o se conosci qualcuno in queste condizioni rompi il silenzio e chiedi aiuto.

Per approfondimenti:
/2019/10/23/i-5-segnali-di-un-amore-tossico/

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3384540/

https://www.sixthtone.com/news/1005253/domestic-violence-cases-surge-during-covid-19-epidemic

https://www.istat.it/it/files//2020/05/Stat-today_Chiamate-numero-antiviolenza.pdf

https://www.france24.com/en/20200410-french-domestic-violence-cases-soar-during-coronavirus-lockdown

https://www.ilmessaggero.it/mind_the_gap/coronavirus_violenza_donne_turchia_quarantena-5155946.html

https://www.lastampa.it/cronaca/2020/03/19/news/l-altra-faccia-del-coronavirus-e-emergenza-violenza-sulle-donne-ecco-i-numeri-da-chiamare-per-chiedere-aiuto-1.38612088

 

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Problemi psicologici: uomini e donne soffrono degli stessi disturbi?

di Alessio Congiu
a cura di Barbara Basile

Gli studi epidemiologici compiuti a partire dagli anni ’80 hanno oramai mostrato una netta discrepanza nella prevalenza delle complicanze psicologiche tra i due sessi. Seppure equiparabili (in linea teorica) nei diritti ad essi riconosciuti, uomini e donne variano in funzione della prevalenza di specifiche condizioni psicopatologiche. Ad esempio, un dato oramai appurato nella letteratura scientifica è la maggiore prevalenza nella popolazione femminile di disturbi “internalizzanti” (es., disturbi d’ansia, disturbi depressivi), ossia quei disturbi in cui l’espressione del disagio è rivolta prevalentemente all’interno di sé.

Diversamente, sembra che nella popolazione maschile sia più prevalente la presenza di disturbi “esternalizzanti” (es., dipendenze patologiche, disturbi antisociali), ossia di disturbi in cui la manifestazione della sofferenza viene espressa prevalentemente all’esterno di sé.

Riassumendo, sembra che nella popolazione femminile sia più presente una tendenza ad inibire la manifestazione esterna del proprio disagio, o ad esprimerla in modo indiretto; al contrario, nella popolazione maschile sembrerebbe più presente una tendenza ad agire la propria sofferenza, ora attraverso la ricerca di sostanze sedativo-ipnotiche (es., alcol) o analgesiche (es., eroina), ora attraverso comportamenti aggressivi e antisociali (es., risse, anti vandalici)

Malgrado la presenza di dati ormai confermati nel panorama scientifico, i diversi studi che finora sono stati compiuti non ci permettono di comprendere il motivo alla base di questa differente distribuzione nelle problematiche psicologiche.

Molte sono le spiegazioni che i ricercatori hanno provato ad offrire a proposito di tale fenomeno, ma nessuna di queste sembra poter godere tutt’oggi di un consistente supporto scientifico.

Tali limiti esplicativi sono stati imputati alle scarse conoscenze in nostro possesso in merito all’eziogenesi dei diversi disturbi. Non possiamo quindi escludere l’ipotesi che le differenti prevalenze riscontrate nella popolazione maschile e femminile non rispecchino la realtà dei fatti, ma dipendano piuttosto dal modo con cui sarebbero state condotte le ricerche che ne hanno riscontrato la presenza. Ad esempio, non è da escludere che gli studi condotti non abbiamo prestato la giusta attenzione alla differente manifestazione dei sintomi tra i due sessi, come pure al differente modo con cui femmine e maschi ricercherebbero un supporto esterno per alleviare il proprio stato di disagio.

Sebbene limitatamente ad alcuni disturbi (es., disturbo depressivo maggiore), le teorie biologiche hanno provato a fornire una chiave esplicativa di tale fenomeno ricercando alterazioni nella struttura e nella funzionalità neurochimica cerebrale tra i due sessi, come pure nelle differenze nelle funzioni riproduttive di base e nei ritmi circadiani, mostrando ciononostante numerosi limiti di validità. Come poter spiegare, ad esempio, l’importanza dei fattori  psicosociali nell’influenzare le differenze nella prevalenza dei disturbi tra i due sessi se la causalità viene ricondotta ad un unico fattore biologico supposto universale?

I limiti nelle teorie biologiche hanno di certo alimentato il proliferare di ipotesi esplicative di stampo psicosociale, che hanno provato a spiegare la differente prevalenza psicopatologica riconducendola alla differenza nello status socio-economico tra i due sessi, alla maggiore probabilità delle donne di andare incontro ad eventi di vita stressanti, al minore supporto ad esse fornito dalla struttura sociale nel suo complesso, come pure alla maggiore probabilità di andare incontro ad eventi traumatici nell’infanzia e nell’adolescenza. Come per le teorie biologiche, anche quelle psicosociali, tuttavia, non sono riuscite ad disambiguare un fenomeno che rimane tutt’oggi avvolto nel mistero.

Un interessante studio ha mostrato come alcuni fattori sociodemografici siano associati a queste differenze. Nello specifico, sembra che per la popolazione femminile l’isolamento e il ritiro sociale si presentino spesso associati ad una psicopatologia; diversamente, nella popolazione maschile la patologia mentale si associa più frequentemente alla giovane età, al non avere figli (o ad essere unico tutore di un figlio a proprio carico) e al provenire da una bassa estrazione sociale. Colpisce inoltre come il basso status sociale e il trovarsi in una condizione di assenza di partner (es., essere single, separati, divorziati, etc.) si associno più frequentemente a condizioni di psicopatologia tanto per i maschi quanto per le femmine.

Come interpretare quindi la disparità di genere nella prevalenza di specifici disturbi? Come evitare di farsi condizionare da tesi poco fondate scientificamente? In cosa credere? I dati presenti nella letteratura scientifica ci esortano alla calma e a non ricercare frettolosamente una spiegazione che risulterebbe allo stato attuale poco difendibile con i dati in nostro possesso. In linea con quanto è stato detto, chi scrive non aggiungerà dunque ulteriori commenti, preferendo piuttosto invitare gli stessi lettori a mantenere un atteggiamento critico e flessibile.

<< Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere >>

(Ludwig Wittgenstein)