Mindfulness e Dipendenza da Sostanze

di Chiara Bellia
a cura di Alberto Chiesa

Gli interventi basati sulla mindfulness (MBIs) sono sempre più utilizzati nel panorama internazionale nell’ambito dell’uso e dell’abuso di sostanze.

Per le persone che soffrono di dipendenza, il comportamento di abuso è un mezzo per sopprimere esperienze emotive spiacevoli difficilmente tollerabili e gestibili, ed è qui che entra in gioco la mindfulness. Essa è una pratica di consapevolezza (Kabat-Zinn, 2018) che, in questo caso, aiuta a rendere le persone più consapevoli degli stati affettivi e delle sensazioni corporee che precedono la ricaduta, come ad esempio il desiderio incontrollabile di ricercare ed assumere la sostanza. Chi pratica la mindfulness può osservare i propri stati interni come se fosse un’osservatore esterno, più distaccato e meno reattivo (Brewer et al., 2012), imparando così a prevenire le possibili ricadute.

Gli interventi basati sulla mindfulness sono più efficaci dei programmi non clinici e non inferiori in termini di efficacia di diversi trattamenti tradizionali (Chiesa e Serretti, 2014). Per il 50–70% dei pazienti sottoposti a terapia cognitivo-comportamentale, ad esempio, la ricaduta rimane un problema (McHugh, Hearon e Otto, 2010). I programmi non clinici invece, come quello dei 12 passi, non sono adeguati per le persone il cui stile di vita non combacia con la filosofia del percorso.

Attualmente esistono molti protocolli basati sulla mindfulness, come l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy), l’MBSR (Mindfulness-based Stress Reduction), l’MBCT (Mindfulness-based Cognitive Therapy), la 3S-Therapy (Spiritual Self Schema Therapy) e così via. Tali interventi sono accomunati dal fatto che favoriscono una migliore capacità di attenzione alle esperienze interne ed esterne così come si verificano in un dato momento; inoltre promuovono un atteggiamento non giudicante e di apertura all’esperienza presente (Bishop et al., 2004).

Cosa rende questi interventi maggiormente efficaci di altri per il trattamento dell’abuso di sostanze?

  • Favoriscono lo sviluppo di un atteggiamento non giudicante verso la sofferenza, con conseguente riduzione della stessa (Kabat-Zinn, 1982);
  • Consentono di cambiare i propri schemi di pensiero e/o gli atteggiamenti nei confronti dei propri pensieri (Teasdale, Segal e Williams, 1995);
  • Promuovono l’accettazione dell’esperienza nel momento presente, piacevole o spiacevole che sia (Segal, Williams e Teasdale, 2014).

La pratica della mindfulness pone quindi l’individuo nella condizione di poter gestire le proprie esperienze, piuttosto che tentare di fuggire o evitare quei pensieri e quelle emozioni negative che spesso portano a desiderare la sostanza e a ricadere nella dipendenza.

Diverse ricerche di neuroimaging confermano questi dati; secondo Hӧlzel e colleghi (2011) la pratica della mindfulness può portare a cambiamenti significativi nelle strutture cerebrali associate alla riduzione della ruminazione mentale. Mentre uno studio di Westbrook e colleghi (2013) ha mostrato come la mindfulness accresca la capacità di smorzare la propria reattività di fronte a stimoli correlati al desiderio della sostanza.

Le attuali evidenze scientifiche suggeriscono che gli interventi basati sulla mindfulness possano ridurre il consumo di diverse sostanze, tra cui alcol, cocaina, metanfetamine, marijuana, tabacco e oppiacei. Per concludere, la mindfulness si sta affermando prevalentemente come terapia complementare e, in alcuni casi, come terapia a se stante, come una delle modalità terapeutiche più efficaci per contrastare le dipendenze e non solo.

Riferimenti bibliografici

Bishop, S.R., Lau, M., Shapiro, S., Carlson, L., Anderson, N.D., Carmody, J., et al. (2004). Mindfulness: A proposed operational definition. Clinical Psychology, 11, 230–241.

Brewer, J.A., Elwafi, H.M., & Davis, J.H. (2012). Craving to quit: Psychological models and neurobiological mechanisms of mindfulness training as treatment for addictions. Psychology of Addictive Behaviours, On line publication.

Chiesa, A., & Serretti, A. (2014). Are Mindfulness-Based Interventions Effective for Substance Use Disorders? A Systematic Review of the Evidence. Substance Use & Misuse, 49, 492–512.

Hӧlzel, B.K., Lazar, S.W., Gard, T., Schuman-Olivier, Z., Vago, D.R., & Ott, U. (2011). How does mindfulness meditation work? Proposing mechanisms of action from a conceptual and neural perspective. Perspectives in Psychological Sciences, 6, 537–559.

Kabat-Zinn, J. (1982). An outpatients program in behavioural medicine for chronic pain patients based on the practice of mindfulness meditation: Perliminary considerations and preliminary results. General Hospital Psychiatry, 4, 33–47.

Kabat-Zinn, J. (2018). Mindfulness per principianti. Milano: Mimesis Edizioni.

McHugh, R.K., Hearon, B.A., & Otto, M.W. (2010). Cognitive behavioral therapy for substance use disorders. Psychiatric Clinic of North America, 33, 511–525.

Segal, Z.V., Williams, J.M.G., & Teasdale, J.D. (2014). Mindfulness: Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Torino: Bollati Boringhieri.

Teasdale, J.D., Segal, Z.V., & Williams, J.M.G. (1995). How does cognitive therapy prevent depressive relapse and why should attentional control (mindfulness) training help? Behaviour Research & Therapy, 33, 25–39.

Westbrook, C., Creswell, J.D., Tabibnia, G., Julson, E., Kober, H., & Tindle, H.A. (2013). Mindful attention reduces neural and self-reported cue-induced craving in smokers. Social Cognitive & Affective Neuroscience, 8, 73–84.

La vita oltre il dolore cronico

                                                                                                     di Sonia di Munno

Interventi con le tecniche ACT sul dolore fisico cronico

Il dolore cronico è un grave problema di salute con un grande impatto emotivo e fisico sul funzionamento sociale dei pazienti. Quando nessuna terapia medica, chirurgica o farmacologica è in grado di rimuovere il dolore, si può solo cercare di affrontarlo con le sue correlate disabilità. In generale, il sollievo dal dolore è un obiettivo irrealistico e i trattamenti dovrebbero concentrarsi sul miglioramento della qualità della vita. L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) sottolinea la necessità dell’accettazione del dolore al fine di migliorare la vita della persona che e inoltre si focalizza sull’aumentare la flessibilità psicologica come obiettivo finale del trattamento. Nel contesto specifico del dolore cronico, aumentare la flessibilità psicologica significherebbe accettare le sensazioni dolorose, i sentimenti e i pensieri correlati al dolore e focalizzare l’attenzione sulle opportunità delle situazioni attuali, piuttosto che rimuginare sul passato perduto o su un catastrofico futuro, e orientare il comportamento alla realizzazione degli obiettivi importanti piuttosto che sul controllo del dolore. Nel 2016, Veehof, Trompetter e altri, hanno condotto uno studio di meta-analisi per indagare l’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e la mindfulness per trattare i pazienti con dolore cronico. In questa meta analisi è emerso che ci sono stati, nei vari esperimenti, una serie di risultati positivi specialmente nel lungo termine. L’aumento del numero di studi sull’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e consapevolezza per il trattamento di individui con dolore cronico ha permesso una valutazione più solida dei loro effetti sulla salute fisica e mentale dei pazienti. Venticinque studi randomizzati e controllati sono stati inclusi in questa meta-analisi. Sono stati valutati 1.285 pazienti adulti compresi tra i 35 e i 60 anni, per la maggior parte donne. I pazienti soffrivano di dolore cronico senza ulteriori specificazioni o muscoloscheletrico o con fibromialgia o con dolore specifico cronico (lombalgia cronica, mal di testa cronico) o con artrite reumatoide. Questi pazienti sono stati sottoposti alla Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia cognitiva basata sulla mindfulness, al protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), per la riduzione dello stress mediante la consapevolezza, all’ACT, alla Cognitive-Behaviour Therapy (CBT), la terapia Cognitivo Comportamentale, o a nessuna terapia. Sono stati presi in considerazione gli effetti sull’intensità del dolore, sulla depressione, sull’ansia, sull’interferenza del dolore nella vita quotidiana, sulla disabilità dovuta al dolore e sulla qualità della vita. Nel post trattamento sono emersi effetti moderati per ansia ed effetti molto significativi sull’interferenza del dolore nella vita del paziente: ciò è congruente con i modelli del trattamento basati sull’accettazione e consapevolezza (MBCT, MBSR, ACT), poiché l’interferenza del dolore, al contrario dell’intensità del dolore, è un indicatore più coerente con l’obiettivo degli interventi basati sull’accettazione e consapevolezza, che presuppongono di continuare ad andare avanti con la vita anche con il dolore. La disabilità causata dal dolore cronico, sperimentata dai pazienti, dipende anche dal grado in cui i pazienti permettono alle sensazioni del dolore di interferire con la loro vita quotidiana. La maggiore accettazione delle sensazioni dolorose, invece di combatterle, può essere correlata a una maggiore diminuzione delle interferenza del dolore nella continuazione della vita. Da due a sei mesi dopo il trattamento, l’effect size per depressione, ansia e qualità della vita erano moderati, mentre l’effect size per l’interferenza del dolore era grande. Questi effetti nel follow up, indicano che i pazienti, anche in presenza di dolore persistente, riescono nel lungo termine ad applicare i principi dei trattamenti basati sulla consapevolezza e accettazione nella loro vita quotidiana. Questi interventi, possono avere effetti indiretti sull’intensità del dolore poiché una maggiore accettazione può tamponare le sensazioni dolorose vissute come eventi stressanti da evitare assolutamente. Nel complesso, si può riassumere che individui con dolore cronico rispondono abbastanza bene a interventi basati sull’accettazione e consapevolezza e che gli effetti benefici vengono mantenuti a lungo dopo il trattamento.

Per approfondimenti:

Veehof M.M., H. R. Trompetter, E. T. Bohlmeijer and K. M. G. Schreurs; Acceptance and mindfulness-based interventions for the treatment of chronic pain: a meta-analytic review; 2016; Cognitive Behaviour Therapy, VOL.45, NO.1, 5–31; http://dx.doi.org/10.1080/16506073.2015.1098724

Riflessioni sull’uso indiscriminato della meditazione

di Katia Tenore

Un uso eccessivo e aspecifico delle pratiche meditative può portare a esiti non auspicabili

La meditazione è una antica pratica spirituale, di cui si trova traccia già nei trattati vedici, antichissime raccolte sanscrite risalenti al 2000 a.C..

In sanscrito, la pratica della meditazione è chiamata “Dharana” e si riferisce allo stato in cui un flusso attentivo intermittente si indirizza su un oggetto. Quando il flusso diviene continuo, viene definito “Dhyana”, stato che precede il “Samadhi” (letteralmente: “sono come il più alto”, cioè in unione con l’Assoluto).

Nella tradizione Buddhista, importata in maniera diffusa in Occidente insieme con la tradizione Zen, la meditazione “Samatha” ha lo scopo di conseguire una dimensione di pacificazione interiore ed è propedeutica alla meditazione “Vipassana” che, in lingua pali, allude a una “visione profonda, intensa e potente”, come una torcia che fa luce su qualcosa di opaco.

Ma cosa succede se si illumina qualcosa che non si è in grado di gestire? Può questo metodo essere idoneo per tutti?

Nell’uso moderno, con la parola “meditazione” ci si riferisce al fare esperienza di sé, al processo di autorealizzazione, ma anche a una pratica spirituale per raggiungere la verità ultima. Il risultato è che questo termine è divenuto un calderone in cui concetti come rilassamento, distacco, consapevolezza, autenticità, trascendenza, verità, benessere, si sfumano così tanto da diventare una miscellanea informe. Leggi tutto “Riflessioni sull’uso indiscriminato della meditazione”