Avere cura di chi si prende cura

di Elena Bilotta

 Gli effetti della Mindfulness sulla salute del caregiver del malato terminale

Prendersi cura di chi ha una malattia allo stadio terminale è un’esperienza che può esporre a forte sofferenza e stress. La ricerca dimostra che la condizione di caregiver “informale” – ovvero quando chi si prende cura è un familiare o un partner – è associata a forte stress legato all’aspettativa di sofferenza e morte della persona amata, espone ad ansia, depressione, e aumenta le probabilità di sviluppare malattie mortali. La condizione di caregiver informale necessita di una serie di importanti abilità per l’accettazione e la gestione del carico emotivo cui la persona deve far fronte. Se da una parte la repressione o l’evitamento di emozioni negative possono essere meccanismi messi in atto con l’intento di proteggere se stessi e la persona malata, dall’altra parte possono esporre a una maggiore probabilità di sviluppare problematiche psicologiche, come ad esempio il disturbo post-traumatico da stress.
Oltre ai caregiver informali, le cure a un malato terminale vengono fornite da figure professionali  – caregiver “formali” – che lavorano all’interno di strutture specificamente pensate per le cure palliative di accompagnamento a fine vita, i cosiddetti “Hospice”. Nonostante gli specialisti che lavorano nell’accompagnamento a fine vita riportino che l’esposizione continua alla morte possa insegnare ad apprezzare e vivere il presente, a coltivare la spiritualità e la ricerca del significato dell’esperienza del vivere, accompagnare chi sta morendo è un’esperienza che può diventare emotivamente intensa. In generale, stabilire dei limiti professionali è un fattore protettivo importante. Tuttavia, basarsi esclusivamente su strategie auto-protettive può comunque mettere a rischio il benessere nel lungo termine. Inoltre, la qualità della cura ricevuta può essere compromessa dal distacco o mancanza di supporto del personale sanitario.
Un intervento che si possa dire efficace in questo contesto così delicato ha un obiettivo paradossale: proteggere il caregiver (formale o informale) dall’essere travolto dal dolore emotivo quando si confronta con la sofferenza della persona di cui si prende cura, ma allo stesso tempo facilitarlo nel coltivare le proprie qualità di sensibilità e presenza alla sofferenza altrui.
Alcuni studi hanno preso in considerazione gli effetti dei programmi basati sulla Mindfulness, mostrando come l’MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction Program) dopo otto settimane riduca i livelli di stress nel caregiver informale e aumenti i livelli di accettazione della malattia della persona amata. Per il personale sanitario, altri studi recenti si sono focalizzati su interventi basati sulla meditazione di gentilezza amorevole. La “Metta”, una pratica che consiste nel mantenere un atteggiamento di gentilezza, calore e protezione nei confronti di sé e degli altri, è associata a maggiore resilienza e capacità di regolazione emotiva in chi la pratica, unita a una riduzione della sofferenza indotta dal contatto col paziente terminale e a una promozione del contatto interpersonale. Questa pratica sembra essere particolarmente utile nel contesto della cura, perché aiuta a coltivare la motivazione e la presenza mentale necessarie nella messa in atto di comportamenti compassionevoli verso gli altri.
La ricerca in questo campo è promettente, mostrando come la pratica della Mindfulness aiuti a diminuire i livelli di stress, ansia e burnout percepito e favorisca un aumento di accettazione, compassione e presenza mentale nei caregiver. Si può sperare che questi aspetti, a loro volta, possano influenzare positivamente anche la qualità della cura ricevuta da chi viene accompagnato alla fine della vita.


Per approfondimenti:

Orelliana-Ros C. et al. (2018). Mindfulness and compassion-oriented practices at work reduce distress and enhance self-care of palliative care teams: a mixed-method evaluation of an “on the job“ program. BMC Palliative Care, 17:3. DOI 10.1186/s12904-017-0219-7

Chi, N. et al. (2015). Behavioral and Educational Interventions to Support Family Caregivers in End-of-Life Care: A Systematic Review. American Journal of Hospice & Palliative Medicine. DOI: 10.1177/1049909115593938

Ostaseski, F. (2006). Saper accompagnare. aiutare gli altri e se stessi ad affrontare la morte. Milano: Mondadori.

 

Ed io avrò cura di te

di Caterina Parisio

La relazione terapeutica: arte, musica e… Psicopatologia

 Nel 1887, Henry Tate commissionò a Luke Fildes, già allora pittore di fama, un quadro per la sua nuova National Gallery of British Art. La commissione non indicava un soggetto, che fu scelto dallo stesso Fildes. The Doctor ebbe un folgorante successo: il quadro è ambientato in una povera casa della campagna inglese. È l’alba e la prima luce del giorno filtra da una finestra sullo sfondo, illuminando flebilmente un bambino malato; seduto di fronte a lui il dottore. È un medico che ha trascorso lì la notte, assistendo il piccolo paziente, impotente. La madre, affranta, è china sul tavolo; il padre le poggia una mano sulla spalla per confortarla e guarda il medico con rispetto e gratitudine. Non sappiamo se il bambino si salverà ma sappiamo per certo che il dottore ha fatto il possibile.

Qual è il segreto del quadro di Fildes? Perché, tra i tanti dipinti su medici e medicina, questo sembra essere in assoluto il più amato? Il segreto sta nel fatto che The Doctor è l’icona della relazione tra medico e paziente, nella sua forma idealizzata. Il dottore, il bambino malato, i genitori affranti: il legame che li tiene insieme è la cura.

Non sappiamo quale fosse la malattia del bambino, sicuramente qualcosa di molto grave, presumibilmente una polmonite; non sappiamo da quanto tempo il dottore fosse in quella stanza; non conosciamo gli esiti della lunga nottata. Ora, provando a fare un salto temporale e trasponendo il concetto di relazione terapeutica alla sfera della psicopatologia, proviamo a capire quale sia la funzione che essa esercita all’interno di un percorso terapeutico.

Le prime formulazioni del concetto di alleanza terapeutica possono essere rintracciate dagli aspetti di transfert e contro-transfert di Freud (1912) sino a Rogers (1965), che pone l’accento su come la percezione dell’empatia con l’analista da parte del paziente è fondamentale ai fini della promozione di un’alleanza funzionale; si parlerà di alleanza di lavoro, risonanza empatica e mutua accettazione qualche anno dopo con Bordin (1979).

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha conferito una grande importanza al ruolo della relazione terapeutica, esplicitando la necessità di integrare, nella prassi clinica, le tecniche terapeutiche orientate alla comprensione e al cambiamento delle dinamiche interpersonali. Sul tema della relazione terapeutica, Aaron Beck raccomandava fin dai suoi primi libri sulla depressione, che “le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza”, caratteristiche che modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

“Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni e dalle tue manie”, canta Franco Battiato nel brano “La cura”: un Aaron Beck rivisitato che definisce in musica il concetto di cura e pone grande enfasi sulla relazione terapeutica.

Ma cosa succede all’interno della relazione terapeutica con il paziente grave? Gli autori che se ne sono interessati concordano tutti su due affermazioni riguardanti l’alleanza terapeutica: una buona relazione è un requisito fondamentale per l’efficacia del trattamento, ma la costruzione di una buona e stabile relazione è qualcosa di estremamente problematico.

Ciò che rende particolarmente importante la relazione, in questo tipo di trattamento, è il fatto che essa consente di influire sui livelli di funzionamento metacognitivo, in modo da rendere il paziente capace di operazioni mentali terapeutiche altrimenti cronicamente deficitarie. È evidente che questo ruolo della relazione abbia un peso minore con pazienti che non presentano significativi deficit metacognitivi. D’altra parte, proprio i deficit metacognitivi che vengono compensati dalla relazione rappresentano, allo stesso tempo, il maggior ostacolo alla costruzione della relazione stessa che, pertanto, richiede una cura tecnica del tutto particolare ed estremamente accurata.

Perché e come la relazione terapeuta-paziente è “terapeutica”? Che ruolo svolge la relazione nel determinare il miglioramento o la scomparsa della sofferenza psichica e della psicopatologia del paziente?

La relazione può influire in modi diversi e su aspetti diversi del funzionamento mentale per cui, ci si trova di fronte a sottolineature di aspetti differenti del ruolo svolto dalla relazione terapeutica. La relazione come influenza sociale positiva: essa costituirebbe il mezzo che consente al terapeuta di esercitare un’influenza positiva sul paziente affinché egli si attenga alle regole del setting e svolga i compiti concordati con il terapeuta.

La relazione terapeutica come contesto privilegiato per la presa di coscienza, oppure ancora come esperienza correttiva per l’incremento della conoscenza di sé.

Tanti altri i ruoli che la relazione terapeutica può assumere all’interno di un percorso di cura e molti i manuali che si sono occupati di ciò ma, in tale sede, concludiamo così, connotando musicalmente la caratteristica che può avere la relazione terapeutica: “ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo insieme le vie […] ed io avrò cura di te”.

Per approfondimenti:

Antonio Semerari (a cura di), 1999. Psicoterapia cognitiva del paziente grave, Raffaello Cortina Editore