Se i bambini assistono alla violenza

di Claudia Colafrancesco a cura di Erica Pugliese

Che adulti saranno domani?

“Una volta papà Toni voleva farmi star zitta e mi ha tenuto con la bocca aperta sotto al rubinetto con l’acqua aperta”. Gioia (nome di fantasia) è stata “fortunata”: il suo fratellino Giuseppe è stato ucciso dalla ferocia del patrigno Toni Barde il 27 gennaio scorso e lei è stata risparmiata. Le storie raccontate dalla bambina alla psichiatra infantile Carmelinda Falco sugli episodi di violenza vissuti tra le mura domestiche pesano come macigni sulla coscienza di chi questa tragedia poteva e doveva evitarla. 

“Una volta – continua Gioia – anche la mamma reagì: ‘Basta! Li stai uccidendo!’”, aveva urlato. Quel giorno infame Giuseppe non stava fingendo di essere svenuto come avevano imparato a fare per difendersi dal patrigno ma si arrendeva davanti a un destino che aveva deciso di togliergli perfino l’infanzia. “Ho visto Giuseppe sul divano, non riusciva a parlare, aveva gli occhi un po’ aperti e un po’ chiusi. Gli ho detto: ‘respira’”.

Giuseppe aveva 7 anni ed è morto. Che ne sarà della sorellina?

Giuseppe e Gioia sono diventati, loro malgrado, protagonisti delle cronache nazionali per un epilogo terribile, ma quanti sono i bambini che quotidianamente subiscono violenza o portano con loro le ferite di una situazione familiare drammatica che resta chiusa dietro la porta di casa e che potrebbe segnarli per sempre? I dati dell’ultima relazione ISTAT sono allarmanti: circa il 69% dei bambini, figli di vittime di violenza, ha assistito agli abusi e il 18% ha subito violenza. Vista la delicatezza del tema, si può immaginare ancora un ampio sommerso.

Quando una madre decide di denunciare, riferisce che i figli non sono presenti mentre le mura domestiche si trasformano in uno scenario di violenza: “Erano nella loro stanza”, “Stavano dormendo”, “Non si sono accorti di nulla”. Sembrano essere invisibili agli occhi dei genitori i bambini che fanno esperienza di atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, da un genitore nei confronti dell’altro o nei confronti di un fratello o una sorella. Ma i bambini sono presenti non solo quando assistono direttamente. Lo sono anche quando compaiono lividi e ferite sul corpo della mamma o quando la paura e la tristezza segnano il suo volto, quando di ritorno da scuola trovano a casa tavoli e porte rotte e quando entrano in contatto con assistenti sociali, sistema giudiziario o personale sanitario.

Questa “violenza assistita” è rimasta per troppo tempo una questione privata, trovando il suo riconoscimento sociale in Italia solo al termine degli anni Novanta, quando i centri antiviolenza hanno portato alla luce i danni che tale tipo di maltrattamento provoca sul minore. Gli effetti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale nel breve e nel lungo periodo sono drammatici e più intensi se i bambini vengono colpiti in tenera età.

Uno recente studio, condotto dall’attuale presidente di Prevent Child Abuse America Chicago, Melissa Merrick, e collaboratori, evidenzia come le ferite subite nel “nido” familiare non solo non si rimarginano, ma nel tempo diventano dei buchi neri da un punto di vista sanitario, sociale ed economico per la collettività.

Malattie coronariche, ictus, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, cancro (escluso il cancro della pelle), malattie renali, diabete, depressione, sovrappeso, obesità, fumo, abuso di alcol, dispersione scolastica, disoccupazione e mancanza di assicurazione sanitaria: questo è l’identikit del bambino invisibile ormai adulto che viene fuori dall’indagine portata avanti in 25 Stati americani. Quando mamma e papà litigano, i bambini assistono e vivono uno stress tossico che altera l’espressione dei geni: cervello, sistema immunitario e organi portano con sé i segni per tutta la vita.

Dal report emerge, inoltre, che le fasce più colpite sembrano essere le donne, i giovani tra i 18 e i 34 anni e le minoranze etniche. Questo significa che far leva sui giovani adulti consente di modificare i comportamenti a rischio per la salute e ridurre le conseguenze negative a lungo termine a livello individuale e sociale. Il vantaggio più grande è quello di spezzare il ciclo intergenerazionale di esperienze infantili avverse poiché è più probabile che sia questa l’età in cui iniziano a costruirsi una relazione più stabile. Una tesi sostenuta anche dai dati ISTAT 2019 che mostrano come dietro la violenza esiste già un passato di violenza subita o assistita in famiglia.

In conclusione, l’arma più efficace per mettere un argine a questa deriva è quella della prevenzione tra le mura domestiche: educare alle relazioni sane e alla creazione di ambienti sicuri per tutti i bambini e le famiglie è fondamentale per ridurre le gravissime conseguenze che esperienze infantili precoci sia dirette sia assistite possono causare.

La violenza assistita è un reato. Se conosci bambini vittime di questa grave forma di abuso, non esitare, chiedi aiuto alle forze dell’ordine o al più vicino centro antiviolenza.

Per approfondimenti: 

Merrick M.T. e coll. (2019). Estimated Proportion of Adult Health Problems Attributable to Adverse Childhood Experiences and Implications for Prevention — 25 States, 2015–2017. In Morbidity and Mortality Weekly Report.
Istat (2019). Report di analisi dei dati del numero verde contro la violenza e lo stalking 1522 – Gennaio 2913-Settembre 2019

 

Sono stato abusato? Forse no!

di Giuseppe Femia

I ricordi di un bambino nell’ambito di una triste vicenda collettiva di pedofilia, tra abusi irrisolti, disturbo post-traumatico da stress e protocolli violati

Tra il 1997 e il 1998, in due paesi dell’Emilia Romagna, Mirandola e Massa Finalese, sedici bambini vennero allontanati dalle loro famiglie e affidati ai servizi sociali della zona.

L’accusa, come ha raccontato il giornalista Pablo Trincia in questi mesi sul quotidiano “La Repubblica”, è delle più gravi: abusi reiterati da parte di genitori e parenti, nell’ambito di una lunga serie di rituali satanici all’interno di cimiteri. Gli adulti vennero condannati a decine di anni di carcere e non rividero mai più i loro figli; i bambini crebbero in nuove famiglie e non tornarono mai più a casa.

Tra quei bambini c’era Dario, ora trentenne, che agli albori della storia raccontava alla maestra e a una psicologa dei servizi sociali di alcuni gravi episodi che si verificavano durante le visite nella casa gialla, dove abitava la sua famiglia d’origine e dove, saltuariamente, continuava ad andare per far visita alla madre e al padre naturali. Riferiva di abusi, sia da parte dei genitori che del fratello maggiore; dichiarava, inoltre, di essere stato portato in alcuni appartamenti del paese e più volte al cimitero, dove era oggetto di pratiche sadomaso; diceva: “Ma non succede solo a me, nel giro ci sono anche altri bambini”.

La Polizia comincerà a indagare e a effettuare perquisizioni; nella casa gialla dei genitori naturali di Dario verranno trovati dei giornaletti pornografici. Da una vicina, invece, gli inquirenti sequestreranno una macchina Polaroid. Dario riuscirà addirittura a fare dei nomi e a descrivere lineamenti, colori degli occhi, capelli e fogge delle persone coinvolte. Tutti i bambini ascoltati successivamente riferiranno descrizioni dettagliate: conosceranno i cimiteri a memoria, come fossero dei parchi a tema; racconteranno tutti la stessa storia. Il tribunale dei minori emetterà, allora, ordini di allontanamento per portare in salvo i bambini, i quali troveranno alloggio presso famiglie affidatarie o in un centro gestito da suore. I genitori, i parenti e i complici verranno trascinati sul banco degli imputati. Questa vicenda scatenerà processi lenti ed estenuanti: alcuni subiranno dure condanne; altri verranno assolti dopo sedici anni; altri ancora si suicideranno.

I bambini, nel frattempo, diverranno giovani adulti, ma nessuno di loro tornerà più a casa e la verità rimarrà avvolta nel mistero.

A distanza di vent’anni, il giornalista Pablo Trincia ricostruisce il caso intervistando gli attori della vicenda, tra cui Dario. Proprio lui, durante una conversazione con il giornalista, riferisce: “Per forza un bambino parla di fantasie, dopo otto ore di stress e pressione vorresti solo andare a dormire; mi dispiace per tutta la gente buona che è stata arrestata: fino a tre anni fa, credevo ancora a tutto quanto. Se molte cose non si riescono a ricordare, dopo arrivi a capire che ti hanno usato come volevano, o per i loro scopi. E me ne do una colpa, perché potevo essere allontanato, ok, ma senza mettere in mezzo gente innocente in una storia montata e rimontata da mille bambini, solo con nomi differenti. Più vai avanti e più speri solo che nessuno ti venga a dare la lezione che meriti; io è da più di un anno che ho seri dubbi su tutto e cerco di vivere senza dargli un peso eccessivo, ma con la rabbia verso la gente che mi ha usato”.

Il parziale rinnegamento delle proprie dichiarazioni, congiunto al fatto che tutte le testimonianze dei bambini hanno avuto pochi riscontri fattuali, pone inevitabili interrogativi che, se avessero una risposta, aiuterebbero la ricostruzione dei fatti.

Preliminarmente, infatti, sorge la necessità di chiedersi se nelle vittime, a causa del successivo allontanamento dalla comunità e dalla famiglia di origine, si sia innescato un meccanismo psicologico di malessere, proprio di un disturbo post-traumatico da stress a causa di stati dissociativi, amnesici e di negazione di eventi passati.

Il secondo quesito, messo in risalto da più parti nel corso delle indagini e dalla recente inchiesta di Trincia, riguarda invece la qualità degli ascolti protetti alla base dell’incidente probatorio condotti dagli psicologi allo scopo di verificare la veridicità dei fatti narrati. Ci si chiede, infatti, se durante i colloqui siano state ignorate le indicazioni dei protocolli internazionali per l’ascolto di un minore, che esistevano già da prima del 1997. Potrebbero essere stati proprio i professionisti, la polizia e i giudici, a stimolare nella mente dei bambini quelli che in realtà erano timori, ossia l’esistenza di sette e di pedofilia satanista?

Si potrebbe ipotizzare che i piccoli abbiano inconsapevolmente assorbito una paura collettiva sorta all’epoca, restituendo sotto forma di realtà fattuali delle fantasticherie deliranti, che hanno finito col diventare verità condivise. Se si fosse dunque trattato di un caso di “falso ricordo” causato da un innesto di immaginazione all’interno di un sistema cognitivo e mnestico debole e rinforzato da vicende psicologico/giudiziarie?

Dal momento che, oggi, alcuni dei protagonisti ritrattano o negano le proprie narrazioni passate e molti degli imputati sono stati assolti per mancanza di prove, il dubbio che i fatti non siano realmente accaduti appare legittimo.

In ogni caso, i report del giornalista sembrano svelare diverse irregolarità, prima tra tutte la mancanza di prove certe che giustificassero l’allontanamento dei bimbi dalla famiglia.

Durante gli ascolti protetti, riportati nell’inchiesta di “La Repubblica” in forma scritta e audio, le psicologhe comunicavano gli esiti delle visite ginecologiche e mediche ai bambini che si supponeva fossero state vittime di abusi, formulando frasi come: “Di sicuro qualcuno ti ha fatto male al sederino e alla patatina, questo è sicuro, perché lo dice la dottoressa…”.

Presupporre un danno arrecato potrebbe aver messo i bambini in una condizione di subalternità psicologica, inducendoli a essere d’accordo con l’asserzione appena formulata.

Dai racconti attuali di Dario emerge come, durante gli incontri presso i Servizi Sociali, venisse tenuto chiuso in una stanza per ore e tartassato di domande, anche in caso non rispondesse e continuasse a giocare. Questo modo di procedere, qualora corrispondesse alla realtà, sarebbe contrario a qualsiasi basilare regola deontologica. L’ascolto protetto dovrebbe essere eseguito evitando domande o comportamenti che in qualche modo possano compromettere la spontaneità, la genuinità e la sincerità delle risposte. Non possiamo stabilire cosa sia accaduto, ma certamente questa vicenda merita delle riflessioni da un punto di vista clinico e deontologico.

Spesso l’ascolto protetto diventa un trauma nel trauma: se eseguito senza cautela e in assenza di regole procedurali chiare, nel mancato rispetto di protocolli a tutela del minore, contamina il processo, esaspera la vulnerabilità psicologica intrinseca ai bambini e determina una confusione irreversibile. Occorre ricordare come sia doveroso condurre una valutazione prudente, evitando fermamente di partire dal presupposto secondo cui siano sufficienti alcuni indizi specifici per determinare una situazione di abuso, ma tenendo sempre in considerazione diversi fattori nella valutazione. Bisogna, soprattutto, astenersi dall’assumere un atteggiamento che possa innescare meccanismi di suggestionabilità.

Una corretta conduzione dell’ascolto protetto ha luogo solo a condizione che si garantiscano criteri comunicativi improntati alla neutralità del dialogo, quali:

  • evitare la formulazione di domande che costituiscano un fattore già di per sé condizionante e perturbante nell’orientare una risposta data o attesa;
  • evitare di creare condizioni spaziali di coercizione fisica nei confronti dei minori;
  • evitare di creare condizioni relazionali che vengano vissute come stati di coercizione psicologica;
  • evitare condizioni comunicative, ad esempio la promessa di una ricompensa, che vengano interpretate dal minore come un’indicazione relativa al corretto svolgimento di un compito e possono “indurre” stati mentali e vissuti emotivi nella mente dei bambini.

Il trauma sessuale, subìto o presunto che sia, se seguito da un allontanamento familiare e costellato da mille spostamenti di residenza affettiva, in assenza di protezione, innesca una situazione di trauma cumulativo, che non consente alla vittima di rielaborare lo scenario traumatico e il dolore che ne deriva. In effetti, nei personaggi intervistati, nei ragazzi e nelle famiglie sopravvissute, si rintracciano gli esiti di un trauma complesso caratterizzato da sentimenti di colpa, vissuti di dissociazione e amnesia, reazioni di allarme e/o evitamento rispetto alla vicenda, negazione, ambivalenza con emozioni di rabbia e fenomeni di confusione mentale.

Nello specifico, proprio “il bambino zero” sembra presentare ancora oggi i segnali di un disagio post-traumatico da stress, di uno stato di sofferenza psicopatologica, di confusione, lacerato dal dubbio, con manifestazioni di malessere diffuso, vissuti emotivi negativi e fenomeni di disorientamento rispetto all´accaduto: ho commesso degli omicidi? Sono stato vittima di abuso? Oppure ho innescato una catastrofe per aver coinvolto tutti in una non-verità? Non era certo compito di un bambino quello di stabilire la realtà dei fatti.

In ultimo appare fondamentale sollevare delle riflessioni circa la dubbia motivazione secondo cui anche i genitori non inquisiti siano stati allontanati dai loro figli in modo definitivo e sulla mancanza di un percorso psicologico a posteriori rivolto ai bambini coinvolti nella vicenda, divenuti ragazzi, dapprima “protetti” e alla fine “abbandonati” sino ad oggi, alla sofferenza, al dubbio e al dolore.