Violenza: in Italia è colpa della donna

di Teresa Vigilante a cura di Erica Pugliese

Il pregiudizio che condanna le donne come responsabili delle violenze subite e l’urgenza di un modello di intervento per combattere il fenomeno della violenza di genere

In occasione del 25 novembre 2019, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) ha raccolto e divulgato dati relativi agli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale. Tale report ha evidenziato dati allarmanti sulla persistenza del pregiudizio che condanna la donna come principale responsabile delle violenze subite: 

  • il 39,3% della popolazione sostiene che la donna, con la sua volontà, sarebbe in grado di sottrarsi alla violenza sessuale;
  • il 23,9% ritiene che siano le donne a provocare la violenza sessuale a causa del loro modo di vestire;
  • il 15,1% reputa le donne parzialmente responsabili nel subire violenze sessuali quando sono sotto l’effetto di alcol o droghe;
  • il 13,6% della popolazione giustifica la violenza nelle relazioni intime come conseguenza di comportamenti civettuoli delle donne verso un altro uomo. 

Da un’analisi approfondita emergono convinzioni tipo: “è accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo”, “in una coppia può scappare uno schiaffo ogni tanto”. E accuse ancor più gravi come: “di fronte a una proposta sessuale, le donne spesso dicono ‘no’ ma in realtà intendono sì”.

Per gli italiani, inoltre, è ritenuto normale e accettabile il controllo che alcuni uomini pretendono di avere sulla vita della loro partner, violandone il diritto inestimabile di libertà. Riguardo quest’ultimo punto e, quindi, sul perché alcuni sono violenti con le proprie compagne, sono emersi dati agghiaccianti:

  • Il 77,7% degli italiani sostiene che le donne siano oggetti di proprietà; il 75% sostiene che le donne che subiscono violenza fanno abuso di alcol e di stupefacenti;
  • il 75% sostiene che le donne che subiscono violenza fanno abuso di alcol e di stupefacenti;
  • un altro 75% afferma che gli uomini usano la violenza perché sentono il bisogno di sentirsi superiori alla propria compagna, una credenza che trova riscontro in aggiuntivi stereotipi di genere secondo cui “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” (8,8%), “il successo nel lavoro è più importante per l’uomo che per la donna” (32,5%), “l’uomo deve provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%).

Nel 2018, delle 133 donne uccise, l’81,2% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare, in più della metà dei casi (54,9%) la donna è stata uccisa dal partner attuale o dal precedente.

Questi dati sollevano l’emergenza di un intervento sul fenomeno della violenza di genere nel nostro Paese, che non possa esimersi dal considerare anche aspetti culturali. Colpevolizzare la donna è una forma di violenza secondaria e allontana dal diritto legittimo di sottrarsi a una relazione violenta, rendendo sempre più difficoltosa la possibilità di uscire da una relazione pericolosa. Erica Pugliese, Angelo Saliani e Francesco Mancini, psicoterapeuti dell’Associazione di Psicologia Cognitiva, affermano che le vittime di violenza vivono una condizione di dipendenza affettiva patologica che si caratterizza per la tendenza a sovrainvestire nella relazione anche quando il legame con il partner ha conseguenze sulla salute psicologica e fisica della persona o quando è la vita dei propri cari a essere in pericolo. Queste relazioni si distinguono, inoltre, per il tentativo, da parte del dipendente affettivo, di amare o salvare qualcuno emotivamente fragile e irraggiungibile che il più delle volte finirà per maltrattare il partner. La maggior parte delle vittime di violenza riferisce, infatti, la presenza di un conflitto intrapsichico di scopi, per esempio, tra il voler andare via e il voler restare, tra il voler riprendere in mano la propria vita e il non riuscire a rinunciare all’altro, e che questo continuo oscillare senza soluzione è mantenuto molto spesso dal senso di colpa come se, nella percezione della vittima, la violenza ricevuta non fosse un atto ingiustificabile del partner ma una propria responsabilità.

Una cultura, come quella italiana, che rafforza questa credenza e non supporta la donna, non le permette di salvarsi, anzi la imprigiona nello stereotipo di chi quelle botte e quel dolore se l’è pure cercato. L’implementazione di un modello teorico e d’intervento, in chiave cognitivista, che esplica il funzionamento psico-patologico dalla dipendenza affettiva e che scagiona finalmente, dal punto di vista scientifico, la vittima da credenze patogene su eventuali responsabilità, potrebbe contribuire alla sensibilizzazione di tale fenomeno e alla riduzione degli stereotipi di genere, rendendo chiaro il concetto che subire violenza non è una scelta. 

Se sei vittima di violenza, non è colpa tua. Chiedi aiuto, rompere il silenzio è il primo passo per riprenderti la tua vita.

Per approfondimenti:

Pugliese E., Saliani A.M., Mancini F., “Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche”. Psicobiettivo 1/2019, 43-58, doi:10.3280/PSOB2019-001005
http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/11/25/violenza-sulle-donne-la-colpa-e-loro.-per- 239-la-causa-e-il-modo-di-vestire-_96ac3818-2341-42d8-87ca-9f9e3a7b29ca.html
https://www.istat.it/it/archivio/235994

Se i bambini assistono alla violenza

di Claudia Colafrancesco a cura di Erica Pugliese

Che adulti saranno domani?

“Una volta papà Toni voleva farmi star zitta e mi ha tenuto con la bocca aperta sotto al rubinetto con l’acqua aperta”. Gioia (nome di fantasia) è stata “fortunata”: il suo fratellino Giuseppe è stato ucciso dalla ferocia del patrigno Toni Barde il 27 gennaio scorso e lei è stata risparmiata. Le storie raccontate dalla bambina alla psichiatra infantile Carmelinda Falco sugli episodi di violenza vissuti tra le mura domestiche pesano come macigni sulla coscienza di chi questa tragedia poteva e doveva evitarla. 

“Una volta – continua Gioia – anche la mamma reagì: ‘Basta! Li stai uccidendo!’”, aveva urlato. Quel giorno infame Giuseppe non stava fingendo di essere svenuto come avevano imparato a fare per difendersi dal patrigno ma si arrendeva davanti a un destino che aveva deciso di togliergli perfino l’infanzia. “Ho visto Giuseppe sul divano, non riusciva a parlare, aveva gli occhi un po’ aperti e un po’ chiusi. Gli ho detto: ‘respira’”.

Giuseppe aveva 7 anni ed è morto. Che ne sarà della sorellina?

Giuseppe e Gioia sono diventati, loro malgrado, protagonisti delle cronache nazionali per un epilogo terribile, ma quanti sono i bambini che quotidianamente subiscono violenza o portano con loro le ferite di una situazione familiare drammatica che resta chiusa dietro la porta di casa e che potrebbe segnarli per sempre? I dati dell’ultima relazione ISTAT sono allarmanti: circa il 69% dei bambini, figli di vittime di violenza, ha assistito agli abusi e il 18% ha subito violenza. Vista la delicatezza del tema, si può immaginare ancora un ampio sommerso.

Quando una madre decide di denunciare, riferisce che i figli non sono presenti mentre le mura domestiche si trasformano in uno scenario di violenza: “Erano nella loro stanza”, “Stavano dormendo”, “Non si sono accorti di nulla”. Sembrano essere invisibili agli occhi dei genitori i bambini che fanno esperienza di atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, da un genitore nei confronti dell’altro o nei confronti di un fratello o una sorella. Ma i bambini sono presenti non solo quando assistono direttamente. Lo sono anche quando compaiono lividi e ferite sul corpo della mamma o quando la paura e la tristezza segnano il suo volto, quando di ritorno da scuola trovano a casa tavoli e porte rotte e quando entrano in contatto con assistenti sociali, sistema giudiziario o personale sanitario.

Questa “violenza assistita” è rimasta per troppo tempo una questione privata, trovando il suo riconoscimento sociale in Italia solo al termine degli anni Novanta, quando i centri antiviolenza hanno portato alla luce i danni che tale tipo di maltrattamento provoca sul minore. Gli effetti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale nel breve e nel lungo periodo sono drammatici e più intensi se i bambini vengono colpiti in tenera età.

Uno recente studio, condotto dall’attuale presidente di Prevent Child Abuse America Chicago, Melissa Merrick, e collaboratori, evidenzia come le ferite subite nel “nido” familiare non solo non si rimarginano, ma nel tempo diventano dei buchi neri da un punto di vista sanitario, sociale ed economico per la collettività.

Malattie coronariche, ictus, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, cancro (escluso il cancro della pelle), malattie renali, diabete, depressione, sovrappeso, obesità, fumo, abuso di alcol, dispersione scolastica, disoccupazione e mancanza di assicurazione sanitaria: questo è l’identikit del bambino invisibile ormai adulto che viene fuori dall’indagine portata avanti in 25 Stati americani. Quando mamma e papà litigano, i bambini assistono e vivono uno stress tossico che altera l’espressione dei geni: cervello, sistema immunitario e organi portano con sé i segni per tutta la vita.

Dal report emerge, inoltre, che le fasce più colpite sembrano essere le donne, i giovani tra i 18 e i 34 anni e le minoranze etniche. Questo significa che far leva sui giovani adulti consente di modificare i comportamenti a rischio per la salute e ridurre le conseguenze negative a lungo termine a livello individuale e sociale. Il vantaggio più grande è quello di spezzare il ciclo intergenerazionale di esperienze infantili avverse poiché è più probabile che sia questa l’età in cui iniziano a costruirsi una relazione più stabile. Una tesi sostenuta anche dai dati ISTAT 2019 che mostrano come dietro la violenza esiste già un passato di violenza subita o assistita in famiglia.

In conclusione, l’arma più efficace per mettere un argine a questa deriva è quella della prevenzione tra le mura domestiche: educare alle relazioni sane e alla creazione di ambienti sicuri per tutti i bambini e le famiglie è fondamentale per ridurre le gravissime conseguenze che esperienze infantili precoci sia dirette sia assistite possono causare.

La violenza assistita è un reato. Se conosci bambini vittime di questa grave forma di abuso, non esitare, chiedi aiuto alle forze dell’ordine o al più vicino centro antiviolenza.

Per approfondimenti: 

Merrick M.T. e coll. (2019). Estimated Proportion of Adult Health Problems Attributable to Adverse Childhood Experiences and Implications for Prevention — 25 States, 2015–2017. In Morbidity and Mortality Weekly Report.
Istat (2019). Report di analisi dei dati del numero verde contro la violenza e lo stalking 1522 – Gennaio 2913-Settembre 2019

 

I 5 segnali di un amore tossico

di Erica Pugliese – illustrazioni di Elena Bilotta
 
Costruire rapporti sani è tra le capacità più importanti e più difficili della vita
Per lungo tempo abbiamo pensato alle relazioni come a un argomento frivolo, quando invece la capacità di costruire rapporti sani è tra le più importanti e più difficili della vita.
Identificare i segnali di una relazione tossica, infatti, non ci aiuta soltanto a non cadere nel pantano dell’amore patologico, ma anche a gestire meglio le relazioni in generale. Se amare è un istinto, imparare ad amare meglio è un’abilità che tutti possiamo sviluppare e affinare con il tempo.
Circa una persona su tre subisce una qualche forma di violenza durante il corso della sua vita. Si parla anche di un ampio sommerso e quindi di persone che non riescono a trovare la forza di rompere il silenzio e si rinchiudono mute nel dolore pensando, probabilmente, di meritarselo in parte. Per violenza, si intende abusi fisici, ma anche verbali, psicologici, emotivi. Oggi si è consapevoli di come queste forme di violenza siano molto più frequenti di quanto dichiarato e del tutto trasversali alle diverse condizioni socio-economiche e al genere.
​Lavoro da anni con vittime di violenza di genere o con una sintomatologia ascrivibile alla dipendenza affettiva patologica. Questa condizione può essere definita come “un fenomeno relazionale nel quale un individuo sembra avere un legame apparentemente irrinunciabile con un partner problematico”. Questo legame si caratterizza per la presenza, nel tempo, di abusi, violenza o manipolazioni perpetrati da uno o da entrambi i partner ed è, per almeno uno dei due, fonte di sofferenza: chi soffre crede di non essere in grado di porre termine alla relazione o di tollerare che sia l’altro a decidere di separarsi. Nei loro racconti, le vittime di violenza spesso si mostrano consapevoli di essere in una relazione non sana o malata, eppure non la interrompono. Molte di loro si chiedono: “E se mi sbagliassi?”, “Se stessi pretendendo troppo?”; o ancora: “Se facessi questo o quello la situazione potrebbe migliorare?”.
Le vittime di violenza non riconoscono di essere veramente in pericolo.
Accade che le azioni del maltrattante non vengano riconosciute come segnali  di pericolo imminente ma sono continuamente giustificate dal “troppo amore”,
espressione fin troppo abusata nei titoli dei giornali, o da fattori quasi sempre esterni alla coppia come l’alcol, un problema al lavoro, in famiglia, ecc. Alla luce dei dati sulla violenza nelle relazioni intime, sembra allora lecito domandarsi: se le vittime o le persone a loro vicine fossero state in grado di riconoscere immediatamente i segni di una relazione tossica prima ancora che diventasse violenta, sarebbe stato possibile, almeno in parte, evitare gesti estremi come il femminicidio o l’omicidio-suicidio?
La nostra missione oggi, come clinici, è assicurarci che le persone ricevano informazioni adeguate, quelle che le vittime di femminicidio o per sempre deturpate dall’acido e le loro famiglie forse non hanno mai avuto. L’obiettivo è prevenire, salvare vite, perché fin troppe sono andate perdute quando forse qualcosa ancora poteva essere fatto.
Per poter raggiungere questo obiettivo è importante individuare i segnali di una relazione tossica. La dottoressa Elena Bilotta illustra sotto forma di disegni i cinque segnali di un rapporto non sano, di seguito riportati
1. Intensità
​Le relazioni violente o abusive non lo sono dall’inizio. Nessuna vittima di violenza racconta di schiaffi, calci o umiliazioni nel primissimo periodo.
Riferiscono della gioia e del desiderio tipico della fase d’innamoramento.
Pensano di essere fortunate, di aver trovato il loro principe o la loro principessa. Nel tempo, però, qualcosa cambia. Si passa dall’eccitazione, al
sentirsi soffocati o sopraffatti, dalle rose alle spine: l’altro/a incomincia, per esempio, a marcarvi stretto, a presentarsi attraverso messaggi o telefonate insistenti, divenendo impaziente quando non potete rispondere, anche se sa bene che siete occupati a lavoro.
Non importa, dunque, come la relazione comincia ma come evolve.
Risulta fondamentale chiedervi: sono a mio agio con il tipo d’intimità richiesta dalla relazione? Penso di avere il mio spazio? Ho la libertà di esprimere i miei bisogni? Le mie richieste sono rispettate? Se la risposta a una o più domande è no, questo non è amore.
2. L’isolamento
L’isolamento è spesso uno dei segnali più ignorati perché ogni relazione inizia con un forte desiderio di trascorrere del tempo con l’altro, di voler condividere quanti più momenti possibili e può capitare di non accorgersi che qualcosa a un certo punto non va. L’isolamento occorre quando il vostro ragazzo o la vostra ragazza inizia ad allontanarvi dalla famiglia o dagli amici e a legarvi sempre di più. Potrebbe per esempio dirvi: “Ma che esci a fare con quegli sfigati dei tuoi amici?” o “Non ti accorgi che la tua amica è invidiosa e sta facendo di tutto per farci lasciare?”. L’isolamento viene nutrito dal seme del dubbio lanciato su qualsiasi persona a voi vicina che frequentavate prima della relazione e che in qualche modo viene considerata un ostacolo alla fusione amorosa. L’amore sano prevede l’indipendenza, due persone che adorano passare insieme del tempo, ma che restano in contatto con i propri amici e cari e con le attività che svolgevano anche prima. Anche se all’inizio passavate molti momenti insieme, con il tempo sarà fondamentale mantenere i propri spazi, per esempio programmando serate con gli amici e incoraggiando il vostro partner a fare lo stesso.
3. Gelosia cieca
Quando finisce la fase di “luna di miele”, può iniziare a insinuarsi la gelosia cieca. Il partner potrebbe diventare più esigente, pretendendo di sapere sempre dove siete e con chi, e potrebbe iniziare a seguirvi ovunque nella vita reale o online, chiedervi insistentemente di approfondire con dettagli la relazione con i vostri ex, per poi spesso arrabbiarsi o rimanere deluso o diffidente. La gelosia cieca comporta ossessività e sospetto, frequenti accuse di sospetto, di tradire o flirtare con altre persone e il rifiuto di ascoltarvi quando le rassicurate sul fatto che amate solo loro. La gelosia è un’emozione che fa parte di ogni relazione umana, ma quella patologica è diversa: contiene minacce, rabbia e disperazione. L’amore non dovrebbe farci sentire in questo modo.
4. Denigrare
Nelle relazioni tossiche, le parole possono essere armi. I dialoghi spensierati e dolci fanno posto a conversazioni meschine e umilianti. Il partner incomincia a prendervi in giro alcune vostre vulnerabilità ferendovi, racconta storie o fa battute su di voi. Quando dite di sentirvi feriti, non vi ascolta o riferisce che state esagerando: “perché sei cosi sensibile?”, “che problema hai?”, “non rompere!”. Quelle parole vi tappano la bocca. Il vostro partner dovrebbe, invece, sostenervi e le sue essere parole di comprensione e incoraggiamento e non sminuirvi. Dovrebbe mantenere il segreto, essere leale, proteggervi e non farvi sentire meno sicure/i.
5. L’instabilità
Frequenti rotture e riappacificazioni con alti alti e bassi bassi sono tipici dei rapporti non sani. Se la tensione sale, aumenta anche l’instabilità. Diverse vittime di violenza raccontano di sentirsi come camminare sulle uova. Tremendi litigi seguiti da riconciliazioni strazianti, commenti carichi di odio, come “non vali niente” o “non so neanche che ci sto a fare con te”, sono seguiti da scuse e promesse che non accadrà più. Arrivati a questo punto, siete talmente tanto consumati dalle montagne russe, da non rendervi conto di quanto tossica e pericolosa sia la vostra relazione. Può essere difficile capire di essere in una relazione non sana che si sta trasformando in abuso, ma è possibile affermare che maggiori saranno i segnali che si presentano nel vostro rapporto, più siete a rischio di essere nella condizione sopra definita di dipendenza affettiva patologica, e quindi in una relazione dalla quale non riuscite a liberarvi, nonostante le conseguenze negative.
Se i segnali sopra descritti caratterizzano la vostra relazione e se doveste essere in pericolo, rompete il silenzio con qualcuno di fidato o rivolgetevi
immediatamente alle autorità competenti (forze dell’ordine, centri antiviolenza, avvocati, ospedale), in modo da elaborare insieme un piano per andarvene in maniera sicura.

È importante, infine, non dimenticare che avere una relazione sana è possibile:

rispetto reciproco, gentilezza, supporto, ascolto, fiducia, amore, unione, comprensione sono gli ingredienti di un amore felice.
Possiamo provare a rivolgerli a noi per primi e poi anche verso gli altri.
Per approfondimenti:
Discorso di Katie Hood nella conferenza TED tenuta ad Aprile 2019:
https://www.ted.com/talks/katie_hood_the_difference_between_healthy_and_un healthy_love
Pugliese E., Saliani A.M., Mancini F. (2019). Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche. Psicobiettivo (1), 43-58.