La Terapia Focalizzata sulla Compassione e il problema secondario

di Nicola Petrocchi

Avevo anticipato nello scorso post come il target primario dell’intervento della Terapia Focalizzata sulla Compassione (TFC) sia l’autocritica e la tendenza all’auto-invalidazione in pazienti  caratterizzati da diffuse emozioni di colpa e/o vergogna e che sembrano piuttosto resistenti agli interventi della Terapia Cognitiva standard. Questi pazienti sarebbero capaci di “generare” ipotesi e pensieri alternativi a quelli catastrofici o di auto-svalutazione che solitamente intrattengono ma non riuscirebbero a “lasciarsi convincere” da questi. Li sentono spenti, troppo razionali, logici ma, in qualche modo, non convincenti e non in grado di cambiare “come si sentono nel profondo”. Perché? La TFC spiega questo fenomeno ricorrendo ad alcune ricerche di neurofisiologia che sembrano affermare l’esistenza di 3 tipi di sistemi di regolazione emozionale responsabili dei diversi tipi di emozioni (Depue et al, 2005; Le Doux, 1998; Panksepp, 1998). Accanto ad un sistema responsabile di emozioni “negative” e funzionali a proteggerci dalla minaccia (rabbia, disgusto, ansia ecc) definito threat system e regolato dallo stile di pensiero better safe than sorry, ci sarebbero, invece, due sistemi  responsabili delle emozioni positive. Il primo più orientato ad emozioni positive “attivanti” (eccitamento, orgoglio, piacere derivante dall’acquisizione di risorse e quindi connesso ai meccanismi della competizione e del confronto) e l’altro associato ad emozioni positive meno attivanti di contentezza, calma, rassicurazione, connessione con gli altri e, ovviamente, compassione (soothing system). È quest’ultimo profilo emotivo che la TFC cerca di attivare nei suoi pazienti. In base a questo modello i pazienti non riuscirebbero a lasciarsi rassicurare dai pensieri alternativi proprio perché il loro soothing system sarebbe in qualche modo spento, off-line (Gilbert, 2009a), ipo-sviluppato, soverchiato dalla cronica iper-attivazione degli altri due. Non solo la semplice produzione di ipotesi alternative “benevole” sarebbe insufficiente a riattivarlo ma lo stile autocritico e distaccato che spesso questi pazienti utilizzano per “spronarsi” e indursi il cambiamento non farebbe altro che attivare ulteriormente, in modo endogeno, il threat system, con le emozioni e lo stile cognitivo better safe than sorry che lo contraddistinguono (un dialogo interiore costantemente autocritico e invalidante non può che incrementare la sensazione di minaccia percepita). In questo modo, secondo la TFC, si spiegherebbe perché i soggetti che tendono a criticarsi per i loro problemi (fenomeno conosciuto come problema secondario) sarebbero più resistenti al cambiamento: lo stile autocritico innesca un circolo vizioso e tende a far permanere il soggetto proprio nello stato mentale da cui cercherebbe di uscire (a volte attraverso la stessa autocritica; direbbe qualcuno “è come pretendere di sollevare se stessi tirandosi per i lacci delle scarpe). Tutti gli interventi della TFC sarebbero finalizzati a sviluppare o rafforzare il soothing system (da qui l’idea del training della mente compassionevole, TMC): lo scopo è rendere più disponibile, a livello neurale, l’attivazione di un sistema emozionale responsabile di emozioni positive che, a causa di esperienze infantili disfunzionali, non si sarebbe potuto sviluppare adeguatamente (Gilbert et al., 2006). Nel prossimo post descriverò a grandi linee in cosa consiste il TMC e come introdurlo nella pratica clinica.

Bibliografia
Depue, R. A. e Morrone-Strupinsky, J. V. (2005). A neurobehavioral model of affiliative bonding. Behavioral and Brain Sciences, 28, 313-395.
Gilbert, P. (2009b). Overcoming Depression, 3rd edn. London: Constable & Robinson, e New York: Basic Books.
Gilbert, P. e Procter, S. (2006). Compassionate mind training for people with high shame and self-criticism: A pilot study of a group therapy approach. Clinical Psychology and Psychotherapy, 13, 353 – 379.
LeDoux, J. (1998). The Emotional Brain. London: Weidenfeld & Nicolson (trad. it.: Il cervello emotivo, Dalai Editore, Milano, 2003).
Panksepp, J. (1998). Affective Neuroscience. New York: Oxford University Press.

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