Perché un Master in Psicologia Cognitiva del Lavoro

di Andrea Pompili e Roberto Noccioli

Cenni storici

Da quando la Psicologia è uscita dai Laboratori Scientifici, sono cominciate a nascere riflessioni e sperimentazioni di come poter applicare le conoscenze acquisite in diversi ambiti e contesti. Il mondo del lavoro non ha fatto eccezione; le aziende e i contesti organizzati hanno ben presto intravisto la possibilità di ottenere benefici.

In Italia, ad esempio, già agli inizi del ‘900 iniziarono i primi tentativi di applicare le conoscenze psicologiche. Guarda caso furono le grandi strutture ad avvalersi per prime degli psicologi: in ambito militare, l’Aereonautica per la scelta degli aviatori, e le strutture parastatali, le Ferrovie dello Stato per la selezione dei macchinisti. Ovviamente per portare avanti questo tipo di attività furono chiamanti esponenti del mondo accademico: Agostino Gemelli e Mario Ponzo.

La Selezione

Fin da subito fu individuato l’ambito della selezione come attività principe per la Psicotecnica, così veniva chiamata la branca applicativa della Psicologia. Il presupposto teorico era che esistessero attitudini e capacità fondamentali per svolgere “al meglio” una determinata attività; una volta elencate e definite tali capacità si andava a ricercarne la presenza nei candidati. Il lavoro, o meglio l’attività lavorativa, era parcellizzato in compiti e azioni elementari; lo psicotecnico doveva, quindi, misurare la presenza/assenza delle capacità con strumenti creati appositamente.

Le selezioni erano tutte su mansioni, ruoli e lavori di tipo prettamente manuale e operativo; Siamo in un periodo in cui grandi masse di persone dovevano essere “scelte” per lavorare come operai, tranvieri, macchinisti o militari; il lavoro di concetto era riservato a chi poteva studiare e ambire ad altri ambiti.

L’orientamento professionale

Quasi di pari passo si sviluppano tentativi di orientamento professionale. Dal punto di vista teorico i presupposti erano i medesimi, si cercavano le attitudini delle persone per indirizzarli al mestiere per il quale erano più “inclini”.

Oggi

Master di Alta Formazione in Psicologia Cognitiva del Lavoro

A più di un secolo di distanza possiamo notare che oggi in alcune selezioni il sotteso teorico non è molto diverso: si costruisce una job description, la scheda che formalizza le principali caratteristiche di una posizione lavorativa, da questa si stila un elenco di capacità e competenze necessarie per svolgere un’attività (ed eventualmente si stabilisce il grado in cui queste devono essere possedute). In fase di valutazione si “misurano” i candidati rispetto a queste ultime attraverso strumenti specifici (test, questionari, simulazioni di ruolo, colloqui di gruppo, interviste più o meno strutturate, ecc.).

Il valore aggiunto dello psicologo

La specificità psicologica, vale a dire il valore aggiunto che lo Psicologo può apportare in questi casi, è nella competenza nell’utilizzo degli strumenti. Possiamo dire di più: quando la variabile è di personalità, e quindi sono richiesti test specifici, per legge solo lo Psicologo può gestire lo strumento. Non è un caso che alcune Aziende o alcune organizzazioni, soprattutto di matrice statale, richiedano l’iscrizione all’Albo professionale per svolgere alcune selezioni.

Sempre più spesso, però, ci si rende conto che una visione più ampia, che comprenda ad esempio la lettura del contesto lavorativo, la relazione con cui le persone si pongono nei confronti del lavoro, la cultura piuttosto che il clima che caratterizzano gli ambienti di lavoro, incida in maniera significativa sul modo in cui le persone lavorano.

Per capire meglio a cosa si faccia riferimento, anche in questo caso la storia della Psicologia può venirci in aiuto.

Torniamo un momento indietro

Sul finire degli anni ’20 (circa un secolo fa!) Elton Mayo condusse una serie di esperimenti all’interno di una fabbrica: l’intendo era quello di capire come aumentare la produttività e diminuire il turnover delle operaie. La sperimentazione prevedeva la variazione di alcuni elementi strutturali (ad esempio illuminazione, retribuzione e pause) per verificare quanto queste impattassero sulla produzione. Oggi, a differenza di allora, non ci dovrebbero stupire i risultati che emersero; vale a dire che l’impatto maggiore fosse dettato da variabili di contesto e psicologiche. Più che il numero delle pause, la retribuzione o la quantità di illuminazione dei luoghi, il fatto stesso che le operaie fossero state coinvolte e interpellate su cosa per loro fosse fondamentale per produrre meglio, risultò essere l’elemento cruciale sulla produttività. Si cominciò, quindi, a parlare di “Fattore Umano” come elemento rilevante nel lavoro.

Da “personale” a “risorsa umana”, per arrivare al concetto di persona

L’evoluzione di queste riflessioni oggi si chiama wellbeing; le Aziende si interrogano su come creare o irrobustire un contesto lavorativo che sia funzionale agli obiettivi di business. Oggi nelle imprese si strutturano analisi di clima, si predispongono percorsi di coaching e corsi di formazione sulle soft skill, si valutano le persone e si formano su variabili comportamentali, si parla di sviluppo delle persone. L’elemento psicologico è ritenuto cardinale nella gestione di quelle che vengono ancora definite risorse umane, tanto che molto spesso nelle aziende esistono Unità Organizzative che prendono questo nome. Queste stesse unità organizzative oggi si interrogano proprio sul concetto di persona, non più risorsa.

È chiaro che le competenze psicologiche hanno assunto una rilevanza sempre più importante nelle aziende. Lo Psicologo è però capace di tradurre le proprie competenze (il sapere psicologico) in un linguaggio fruibile nei contesti aziendali? Lo Psicologo, formato nei contesti universitari e post-universitari, possiede gli strumenti per “mettere a terra” le conoscenze specifiche della propria disciplina? È capace di dialogare con le altre figure che operano all’interno dei contesti organizzati?

Diventa, quindi, cruciale avere percorsi che fungano da anello di congiunzione tra le conoscenze teoriche e le competenze applicative; è necessario che lo Psicologo che voglia operare nei contesti aziendali conosca la teoria, le tecniche, gli strumenti e anche le modalità con cui poter rendere efficace la Psicologia nel mondo del lavoro.

Per chi desidera approfondire il tema della Storia della Psicologia Applicata:

Lombardo G. P., Pompili A., Mammarella V., (2002), “Psicologia applicata e del lavoro in Italia. Studi storici”, Franco Angeli.

Visita la pagina web del Master a questo link: https://apc.it/lista-eventi/master-di-alta-formazione-in-psicologia-cognitiva-del-lavoro/

Foto di Kampus Production: https://www.pexels.com/it-it/foto/scrivania-ufficio-business-stanza-8463166/

Nuove terapie: come orientarsi?

di Claudia Perdighe

Il convegno SITCC di Bari ha affrontato il tema dell’approccio professionale agli interventi di psicoterapia più recenti e in continua nascita

Come orientarsi nel proliferare di sempre “nuove psicoterapie”? Non sarebbe compito delle scuole di formazione fare da interfaccia tra gli studenti e le varie forme di terapia possibile?

Sono questi i due quesiti centrali emersi durante la tavola rotonda che ha dato il via al convegno Sitcc di Bari. La prima domanda, posta dal prof. Cesare Maffei, ha trovato risposta della seconda, rivolta al relatore da una studentessa tra il pubblico. Ebbene, sono proprio le scuole a supportare gli specializzandi nelle scelte rispetto alla formazione e sugli interventi terapeutici più efficaci con i pazienti.

Argomentazioni esaurienti a queste e ad altre domane sono state fornite durante il simposio “Disturbo Ossessivo Compulsivo: protocolli di intervento, procedure e tecniche di intervento innovative”, che ha visto Elena Prunetti  in veste di chair e  Teresa Cosentino nel ruolo di discussant. Difficile sintetizzare l’intera discussione, che tocca vari temi chiave per la psicoterapia.  Per darvi un’idea dei percorsi affrontati, ecco un elenco di quesiti con risposta che possono rappresentare i cardini delle riflessioni durante l’incontro:

    • perché si soffre? La spiegazione va cercata a livello di scopi e credenze;
    • perché i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo soffrono? Perché hanno il terrore di vedere minacciata la loro dignità morale, vale a dire iper-investono sulla prevenzione della colpa;
    • quale è il bersaglio dell’intervento, vale a dire cosa devo cambiare perché i sintomi si riducano? Il timore di colpa;
    • quali strumenti terapeutici abbiamo a disposizione per colpire il bersaglio? Tutti quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) di prima e seconda generazione, innovazioni di queste (come quella proposta da Angelo Saliani), procedure di terza generazione come la compassion therapy;
    • funziona? Sono stati elaborati dati attendibili su esiti positivi delle procedure.

In altri termini, sembra che quando ci si muove su una spiegazione chiara della psicopatologia e di uno specifico disturbo, ne derivi una ipotesi chiara sul funzionamento dello specifico paziente che definisce il target dell’intervento. Diventa così più facile orientarsi (e orientare i giovani specializzandi) tra le procedure e forme di terapia. Ad esempio, se è chiaro che il mio bersaglio è il timore di colpa, posso provare a farlo con: esposizione, provando a modificare le credenze che lo sostengono, provando ad aumentare la disponibilità al perdono di sé e all’autocompassione, provando a modificare le memorie delle esperienze su cui il timore di colpa si è creato con procedure di Schema Therapy o EMDR e cosi via. Con questa impostazione, ne deriva anche una maggiore facilità di risposta alla domanda: funziona?

Un’osservazione a margine: in questo simposio non si è posta l’attenzione esplicita sulla relazione. L’impressione è che, come suggerito sempre da Angelo Saliani nelle tavole rotonde sull’impasse terapeutico, una profonda conoscenza della psicopatologia permette di ricavare interventi che riducono i problemi di ordine relazionale oltre a facilitare una via d’uscita efficace laddove si presentano.

In sintesi, tornando al tema principale, laddove ci sia una teoria psicopatologica chiara (e in questo caso è quella di Francesco Mancini sul DOC), diventa molto più facile orientarsi, applicare e studiare l’efficacia di procedure nuove.

In questa impostazione, troviamo anche una risposta alla domanda: come ci si può formare bene su tutte queste nuove terapie?

Non è necessario “formarsi bene”, se con questo si intende formarsi a un altro modello teorico di spiegazione della psicopatologia. È vero che le terapie di terza onda sono basate su una teoria esplicativa diversa da quelle di seconda generazione, ma per usare molte procedure non è necessario “comprare tutto il pacchetto”.

Cosi come è accaduto con il training assertivo o con l’ERP, procedure di cambiamento nate all’interno della teoria comportamentale, possono essere integrate perfettamente tra le tecniche di un terapeuta CBT senza la necessità di “sposare” la teoria esplicativa sottostante. Se fatto in modo coerente non è confusivo ne tantomeno un ecclettismo pasticciato; l’importante è avere chiaro cosa esattamente si vuole cambiare nel paziente e in che modo quella procedura può essere utile a tale fine. Del resto credo che pochi tra i colleghi della Sitcc che usano l’EMDR, sposino anche la teoria esplicativa sottostante.

Un’ultima osservazione: sembra che parte della confusione nasca dal mettere molte procedure di cambiamento nella categoria “terapia” e non “tecnica” o “procedura”, con il sottinteso che è una nuova o differente teoria di spiegazione, oltre che di cura, del paziente. E, purtroppo, forse spesso la ragione di questo è più economica e di status, che di tipo scientifico.

Assessment e Cognitivismo

di Anna Chiara Franquillo (SPC sede di Grosseto)

Il ruolo degli scopi e degli antiscopi nella concettualizzazione del paziente.

Più è accurata la mappa, più è sicuro il viaggio: assessment e trattamento dei disturbi di personalità è il nome del simposio che, al XXI Congresso Nazionale SITCC di Bari, ha ospitato un lavoro molto interessante, oltre che innovativo, sul ruolo degli scopi e degli antiscopi all’interno della prospettiva cognitivista. Perché è centrale comprendere la concezione scopo/antiscopo all’interno della psicopatologia? Giuseppe Femia, insieme ad un nutrito gruppo di ricerca composto dai colleghi Isabella Federico, Andrea Gragnani, Francesca D’Olimpio, Guyonne Rogier, Roberto Lorenzini e Francesco Mancini, ha risposto ad un interrogativo così importante e cruciale attraverso un complesso studio, che si è posto l’obiettivo di sottolineare quanto l’iperinvestimento sugli scopi e gli antiscopi, oltre che la rigidità, la pervasività e persistenza degli stessi, possano costituire un nucleo centrale di sofferenza soprattutto in relazione a manifestazioni psicopatologiche come i disturbi di personalità.
Ma… andando per gradi… che definizione potremmo dare alla concezione di goal e antigoal?
Potremmo parlare di entrambi differenziandoli in stato desiderato e stato temuto, come qualcosa, cioè, da raggiungere e da evitare ad ogni costo, all’interno di una rappresentazione individuale in cui questi si strutturano nel tempo e costruiscono il modo in cui la persona si muove nel mondo. Sulla base di ciò, l’obiettivo dello studio era proprio quello di osservare se fosse maggiore l’iperinvestimento degli scopi/antiscopi in un campione clinico rispetto al gruppo di controllo e a quello di psicoterapeuti in formazione, e se l’iperinvestimento si associasse a maggiore disagio e sofferenza. È stato costruito, pertanto, uno strumento ad hoc chiamato Strumento Scopi- Antiscopi (S-AS) in grado proprio di cogliere sia attraverso domande qualitative, che quantitative, oltre che con l’utilizzo di una checklist di emozioni, l’architettura scopistica dell’individuo. Questo strumento vanta la sua costruzione sulla base di una grande pratica clinica, oltre che su un confronto attivo con i colleghi in grado di fornire stimoli e spunti di riflessioni secondo la prospettiva cognitivista. Quello che emerge è che il gruppo clinico, rispetto al gruppo di controllo e quello degli psicoterapeuti in formazione, ottiene punteggi più alti rispetto alla scala del prestigio interpersonale, a quella dell’instabilità psicologica e quella dell’esclusione sociale, del perfezionismo, dell’autosacrificio dell’identità e, infine, della fiducia. Queste considerazioni statistiche supportano la concezione iniziale teorica che fonda le basi dello studio e fornisce delle prime osservazioni sull’importanza di tale strumento all’interno dell’assessment cognitivista. L’utilizzo di tale strumento si rivela fondamentale poiché, se l’assessment è ben fatto e riesce a cogliere le specifiche dell’individuo attraverso la formulazione degli scopi e antiscopi che lo muovono nel rapporto con sé e con il mondo esterno, allora anche la strutturazione del trattamento può diventare mirata e ben focalizzata sulla persona, sui suoi personali significati e rappresentazioni. Un buon trattamento non può esistere se prima non si è fatto un buon assessment. Per questo, ampliare la prospettiva cognitivista di uno strumento come il S-AS può diventare un plus valore sia per i pazienti che per i terapeuti stessi, i quali si troveranno ad accedere in maniera più agevolata al paziente e ai suoi contenuti più profondi, costruendo di conseguenza interventi sia mirati che accurati.

Foto di Ishaan Aggarwal: https://www.pexels.com/it-it/foto/cartina-geografica-bussola-tiro-verticale-mappa-8231152/

Trattamento dei traumi infantili

di Caterina Villirillo

Il protocollo evidence-based per la cura di bambini e adolescenti con traumi infantili

Il 3 Febbraio 2021 si è tenuto il Simposio online dal titolo “Trauma-Focused Cognitive-Behavioral Therapy: Il protocollo evidence-based per la cura di bambini e adolescenti con traumi infantili”, organizzato dalle Scuole di Psicoterapia Cognitiva SPC e APC. Per il pubblico italiano ed internazionale sono intervenuti, con un prezioso contributo, due massimi esperti della Trauma-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (TF-CBT): Il Prof. Anthony Mannarino, Direttore del Center for Traumatic Stress in Children and Adolescents, padre fondatore della TF-CBT e tra i massimi esperti a livello mondiale di trauma infantile e la Prof.ssa Zlatina Kostova, formatrice ufficiale in TF-CBT e ricercatrice presso il Child Trauma Training Center dell’Università del Massachusetts Medical School negli Stati Uniti.

I due relatori hanno fornito una panoramica della TF-CBT, trattamento del trauma per bambini e adolescenti più rigorosamente studiato fino ad oggi. Tale protocollo, ispirato ad un approccio integrato centrato sulla teoria dell’attaccamento, viene utilizzato per il trattamento della sintomatologia traumatica in diversi casi come abusi sessuali, maltrattamenti, perdite, catastrofi naturali, incidenti stradali. E’ stato validato per un range d’età ampio che va dai 3 ai 18 anni e può essere applicato in diversi contesti socio culturali e setting che prevedono ad esempio il coinvolgimento o meno dei genitori, configurandosi come un trattamento notevolmente flessibile.

In particolare, dopo l’apertura dei lavori da parte della Prof.ssa Maria Grazia Foschino, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva AIPC di Bari e organizzatrice dell’evento, il Prof. Mannarino, ha descritto il protocollo, le sue componenti principali e le fasi specifiche. Le componenti della TF-CBT possono essere facilmente ricordate attraverso l’acronimo PRACTICE:

Psychoeducation and parenting skills – Psicoeducazione e skills genitoriali
Relaxation – Rilassamento
Affective Modulation/Modulazione Affettiva
Cognitive Processing/Elaborazione Cognitiva
Trauma narration and processing/Narrazione ed elaborazione del trauma
In vivo mastery/Padronanza dal vivo
Conjoint parent-child sessions/Sessioni congiunte bambino-genitore
Enhancing safety and social skills – Migliorare la sicurezza e le abilità sociali.

Le prime 4 componenti del protocollo riguardano la fase iniziale di stabilizzazione alla quale seguono la fase di narrazione ed elaborazione del trauma e quella di integrazione che comprende le ultime 3 componenti.

In genere la durata del protocollo è di 8-16 sessioni che possono diventare 16-25 in presenza di traumi complessi e che prevedono una fase di stabilizzazione più lunga (circa 12-13 sessioni).

Il Prof. Mannarino, autore di ben 23 studi controllati randomizzati che dimostrano l’efficacia del suddetto protocollo, ha, inoltre, illustrato la diffusione a livello mondiale dello stesso descrivendo come, negli ultimi decenni, si siamo composti in 36 Paesi del pianeta, diversi gruppi di trainer che hanno formato oltre 80000 clinici. La formatrice per l’Italia sarà proprio la Prof.ssa Kostova a partire dall’autunno 2021. Il Prof. Mannarino ha indicato, infine, delle fonti per reperire materiale gratuito prezioso per il lavoro clinico in sede e online (per saperne di più https:/tfcbt.org); per la traduzione di alcune risorse, quali workbook per genitori e bambini, sta già lavorando un gruppo di colleghi della scuola di Bari.

L’intervento della Prof.ssa Kostova, si è focalizzato, invece, sulla descrizione dell’evidenza scientifica del modello presentato. In particolare la Dott.ssa, dopo aver descritto il suo primo caso clinico trattato con successo con la TF-CBT, ha illustrato una serie di ricerche che dimostrano l’efficacia di questo trattamento anche rispetto ad altre tecniche altrettanto valide per il trattamento dei sintomi traumatici come l’Emdr. Entrambi gli approcci, infatti, favoriscono una riduzione dei sintomi del PTSD, quello che la TF-CBT sembra avere in più è l’effetto sulla riduzione dei sintomi associati al trauma come la depressione, l’ansia e i sintomi comportamentali. Inoltre, contribuisce alla riduzione dei sintomi, il coinvolgimento genitoriale nel trattamento. In particolare è stato dimostrato come la TF-CBT favorisca la riduzione del GAP nella percezione della severità dei sintomi traumatici da parte dei genitori, che tendono a sottovalutare il trauma dei loro figli, e dei bambini.  La Dott.ssa ha evidenziato, altresì, l’efficacia a lungo termine del protocollo descrivendo, a titolo esemplificativo, alcuni studi che ad un follow up di 6 e 12 mesi dalla conclusione del trattamento con la TF-CBT, dimostrano il mantenimento dei risultati e una riduzione di distorsioni cognitive, ansia e sintomi esternalizzanti. Una spiegazione plausibile è che tale protocollo insegna ai bambini e ai loro genitori competenze e abilità che possono essere adoperate anche alla fine della terapia e questo è probabilmente il valore aggiunto che favorisce il mantenimento dei risultati ed agisce sull’aumento dell’autoefficacia e della resilienza. A riguardo ha un ruolo importante anche il lavoro sulla cognizione.

E’ interessante notare come tale protocollo può essere implementato anche nei paesi in via di sviluppo; diversi studi ne hanno dimostrato l’efficacia confermando la possibilità di utilizzo in diversi contesti socio culturali e in presenza anche di formazione diversa da parte dei terapeuti grazie alla supervisione garantita dai trainer. Infine la Dott.ssa ha illustrato l’efficacia del protocollo anche online.

Il simposio si è concluso con un intervento del Prof. Mancini che ha sottolineato la rilevanza della TF-CBT definendola efficace ed efficiente e valutando l’importanza di lavorare efficacemente sul trauma in età evolutiva dal momento che spesso traumi infantili non trattati e/o non riconosciuti in modo adeguato, implicano danni a cascata in età adulta e dal punto di vista psicopatologico e dal punto di vista relazionale.

Dopo questo interessantissimo contributo non ci resta che attendere il prossimo autunno per conoscere più nello specifico il protocollo ed avere la possibilità, per chi lo desidera, di diventare terapeuti TF-CBT certificati!

Un workshop sul Rescripting

di Elena Cirimbilla

Il 23 Gennaio 2021 si è tenuto il Workshop online dal titolo “Il Rescripting: un metodo per intervenire sulle esperienze dolorose precoci”, organizzato dalle Scuole di Psicoterapia Cognitiva SPC e APC e condotto dal Professor Arnoud Arntz, psicologo, psicoterapeuta, tra i massimi esperti di Schema Therapy (Per saperne di più sulla Schema Therapy) nel panorama internazionale e tra i più importanti ricercatori nel campo dell’Experimental Psychopathology e della Schema Therapy.

La tecnica ’“Imagery With Rescripting” (IWR), il tema del Workshop, è un elemento base della Schema Therapy ed è volta a operare sui significati e sulle emozioni conseguenti alle esperienze infantili, partendo dall’idea che le radici dei vissuti emotivi attuali si collocano proprio in tali esperienze.

I bisogni del paziente, le sue memorie precoci e le emozioni connesse sono stati gli ingredienti principali del Workshop, in una costante e coinvolgente trattazione ad opera del Professor Arntz che, con una modalità attiva ed empatica, ha permesso ai partecipanti di entrare nel vivo del tema, da un punto di vista pratico ed esperienziale.

Dopo aver aperto l’incontro con una rassegna di evidenze scientifiche a sostegno dell’efficacia dell’IWR, il Professor Arntz si è dedicato alla descrizione della tecnica nel dettaglio.

Il protocollo base si divide in tre step:

  • Il paziente immagina il ricordo di un’esperienza traumatica precoce
  • Il terapeuta si inserisce nell’immagine e interviene sulla minaccia
  • Il terapeuta dirige l’attenzione sui bisogni del paziente/bambino

La prima fase del protocollo, la rievocazione del ricordo, è possibile attraverso l’accesso alle memorie infantili del paziente o attraverso un “ponte affettivo” a partire da un’esperienza problematica del momento presente e prevede che il paziente si “immerga” nel proprio ricordo, guidato dal terapeuta nell’uso dei cinque sensi.

Nella seconda e terza fase il terapeuta si inserisce nella memoria, in un contesto di totale vulnerabilità del paziente, per compiere un intervento teso alla Ri-scrittura di un ricordo intimo e traumatico. In questi step il terapeuta “agisce” nel ricordo del paziente mentre quest’ultimo entra in contatto e comunica le proprie emozioni, bisogni e desideri.

In queste fasi, la partecipazione attiva, attenta ed empatica del terapeuta è stata abilmente sottolineata dal Professor Arntz con quella che forse è la frase che più racchiude l’essenza del Rescripting: “Sono qui per te, ci sono io a proteggerti”.

Per i partecipanti è stato possibile entrare nel vivo della tecnica grazie a simulate e role playing proposti dal docente che, dopo aver interpretato il ruolo del terapeuta, lo ha ceduto, a turno, a tutti i presenti.

Dopo aver permesso a tutti di “allenarsi” con la tecnica, il Professor Arntz si è dedicato alla trattazione della variante del protocollo che prevede l’intervento diretto del paziente sul ricordo, attraverso quella parte del sé che è “adulta”: il terapeuta viene quindi sostituito da un sé adulto che ha le risorse per comprendere, validare e proteggere il suo sé bambino.

Di nuovo, in un’alternanza di spiegazioni, dimostrazioni e simulate, condite da un elevato tono emotivo, Arntz ha mostrato le fasi di questo protocollo, che prevede il passaggio ripetuto tra il sé bambino e il sé adulto.

L’ultima parte del Workshop è stata dedicata alle possibili problematiche e difficoltà che si possono incontrare nell’applicazione della tecnica, anticipando dubbi ed eventuali timori degli uditori e alle possibili altre applicazioni pratiche.

In conclusione, al termine della giornata, il partecipante torna a casa (anche se a casa eravamo già) con una nuova tecnica da inserire nel proprio bagaglio di conoscenze e con un pizzico di accoglienza emotiva ed empatia in più, grazie alla capacità del Professor Arntz di trasmettere il proprio desiderio e tenacia nell’aiutare il proprio paziente, il cui “aggressore deve essere combattuto con tutte le forze”, comunicando a tutti noi che davvero, di fatto, è lì per il paziente, per aiutarlo a proteggersi.

 

Disturbo della Condotta: come intervenire

a cura di Lavinia Lombardi e Rosaria Monfregola

Il 14 settembre 2019 a Roma, presso la sede APC/SPC, si è tenuto il Workshop “Clinica dei Disturbi della Condotta: dalla psicopatologia all’intervento” durante il quale il Prof. Mark Dadds (Università di Sydney), ha presentato il suo programma di intervento sul trattamento dei Disturbi del comportamento Dirompente che viene da anni applicato presso la Child Behaviour Research Clinic di Sydney di cui è direttore.

Questi disturbi hanno un impatto importante sulla vita quotidiana di bambini e adolescenti che ne soffrono e sulle loro famiglie, portando spesso ad una riduzione della qualità della vita e creando un terreno fertile per lo sviluppo di una Personalità Antisociale o di Abuso di Sostanze. I genitori, fin dai primissimi anni di vita del bambino, si trovano spesso ad utilizzare modalità coercitive che non solo non producono modifiche dei comportamenti scorretti e non contribuiscono alla produzione di comportamenti prosociali del bambino, ma riducono notevolmente le emozioni positive e la percezione di autoefficacia di un parenting costruttivo.

“Integraded parent training” è un programma evidence-based, diviso in 10 sessioni, applicato ai genitori di bambini e ragazzi dai 2 ai 16 anni; i risultati di ricerca mostrano elevata efficacia soprattutto nella fascia d’età che va dai 2 agli 8 anni ed una minore efficacia per la fascia d’età di 13-14 anni. Questo programma elaborato per il trattamento dei Disturbi del comportamento Dirompente si adatta molto bene anche a bambini e ragazzi con ADHD e Disturbi dello spettro Autistico.

Durante questa ricca giornata formativa il Prof. Dadds ha iniziato condividendo i 4 fondamenti teorici alla base del modello per trattare le famiglie, che sono:

  • la Learning Theory (Thorndike 1874 – 1949): si parte dalla teoria comportamentale per porre l’attenzione sulle risposte genitoriali che vengono utilizzate come rinforzo (positivo e negativo) e punizione (positiva o negativa). Nei circoli viziosi familiari che si creano l’intervento sostanziale è volto all’equilibrio dell’attenzione: se nella fase precedente al trattamento i genitori hanno la tendenza ad ignorare i comportamenti positivi e a punire i comportamenti negativi del bambino, nella fase post trattamento essi riescono ad agire con calma di fronte ai comportamenti indesiderati e a prestare attenzione ai comportamenti positivi, rinforzandoli. Tale addestramento non ha effetti se i caregiver non mostrano un comportamento ricco di attaccamento.
  • la Teoria dell’Attaccamento (Bowlby 1989), secondo punto cardine della base teorica del programma è una teoria indispensabile per comprendere in che modo il genitore può utilizzare le giuste ricompense per incrementare la qualità della relazione tra bambino e caregiver. Nell’attaccamento sicuro le figure di riferimento inviano segnali che inducono il bambino a sentirsi sicuro nell’esplorazione, amabile e che abbia fiducia nelle proprie capacità. Si è posta l’attenzione sui comportamenti fondamentali dell’attaccamento in una relazione d’attaccamento sicuro (lo sguardo spesso accompagnato da espressioni di sorpresa, il contatto fisico, la melodia della voce, l’imitazione) che consentono al bambino e al caregiver di ricercarsi reciprocamente. In un contesto caratterizzato da interazioni coercitive, i comportamenti di attaccamento non vengono messi in atto o vengono elicitati durante il time out, rinforzando involontariamente comportamenti negativi. Larga parte delle prime sessioni di intervento sono volte a modificare tale trend, ma tale attenzione differenziale avrà effetti duraturi solo se si lavora sulle attribuzioni causali.
  • la Teoria delle Attribuzioni Causali (Heider 1958) è terzo caposaldo del programma di parent training. Lavorare sulle attribuzioni causali dei genitori di bambini con Disturbi del Comportamento Dirompente è indispensabile per un reale cambiamento della qualità dell’interazione familiare. È importante sapere quali caratteristiche globali, stabili e interne osservano e rimandano ai propri figli e che contribuiscono a mantenere il problema.
  • L’analisi del sistema familiare (Minuchin 1974) per la comprensione delle dinamiche che alimentano e intrappolano nello stile coercitivo. Il programma punta sul ripristino di un sistema familiare in cui esiste un team genitoriale che interviene direttamente e in forma congiunta sui bambini e interagisce in seconda battuta con un contesto familiare più ampio. Affinché ci sia efficacia di cambiamento e si possa ridurre il dropout è fondamentale lavorare in team con la coppia genitoriale.

Una parte del Workshop è stata dedicata alla modalità di ingaggio della coppia genitoriale, poiché anche se il modello è uno tra i più efficaci, qualora la famiglia non riuscisse ad essere ingaggiata, esso non produrrebbe risultati. Infatti i tassi di dropout più alti sono legati a tassi più bassi di ingaggio della coppia come team. Quanto più la coppia è in grado di esporsi rispetto le dinamiche relazionali, la conflittualità e le attribuzioni sul proprio bambino tanto più si riduce la probabilità di dropout. Il prerequisito per un intervento di parent training di successo è il lavoro in team che necessita di energia, di conoscenza del bambino da parte dei genitori, conoscenza del modello da parte del terapeuta; in sostanza il terapeuta usa la scienza ad uso e consumo dei genitori.

Il prof. Dadds si è successivamente concentrato sulle sessioni 3 e 4 del programma, cioè sul come si insegna ai genitori a lavorare con i propri figli. Da qui la necessità di rinforzare il genitore fissando gli obiettivi dell’intervento, spiegando, facendo da modello e provando con lui le tecniche proposte. Tra le strategie fornite per il cambiamento vi è in primis l’osservazione dei comportamenti positivi ed in seguito l’intervento sui comportamenti problema.

Tramite role playing, visione di video, esemplificazioni cliniche ed indicazioni terapeutiche concrete, in un clima formativo accogliente ed interattivo, il prof. Dadds, ci ha lasciato spunti di riflessione e strumenti operativi per lavorare con i genitori di bambini con disturbo da comportamento dirompente; insomma è stato per noi terapeuti un ottimo modello da provare ad implementare!

Riferimenti bibliografici:

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello
Cortina Editore, Milano.

Dadds M., Hawes D. (2006). “Integrated Family Intervention for Child Conduct Problems: a behaviour-attachment-systems intervention for parents”. Australian Academic Press.

Dadds, C Thai, A Mendoza Diaz (2019). “Therapist-assisted online treatment for child conduct problems in rural and urban families: Two randomized controlled trials”.– Journal of consulting, 2019 – psycnet.apa.org.

Gates, A. I. (1949). “Edward L. Thorndike: 1874-1949”. Psychological Review, 56(5), 241-243

Heider F., (1958) “The Psychology of Interpersonal Relations”. Wiley, New York.

Minuchin S. (1977), “Famiglie e terapia della famiglia”, Roma, Astrolabio Ubaldini Editore, 1977, Passim.

 

4 motivi per partecipare a un congresso

di Silvia Cerolini

Un’esperienza diretta del 9° Congresso mondiale di Terapia Cognitivo Comportamentale di Berlino.

Dal 17 al 20 luglio 2019 si è svolto il “9th Congress of Behavioural and Cognitive Therapies” (WCBCT, 2019) al City Cube di Berlino, evento a cadenza triennale che ha visto le sue precedenti edizioni in luoghi come Vancouver, Boston, Lima, Melbourne, etc. e di cui la prossima edizione è prevista per il 2022 in Sud Corea. Eventi come questo suscitano l’attenzione e l’interesse di molti professionisti. Ecco riassunti 4 buoni motivi per cui partecipare ad un evento internazionale di questo calibro, specialmente per i giovani professionisti.

  • Ampliare le proprie conoscenze e affinare le proprie abilità e/o competenze:

Andare ad un congresso significa stimolare la mente con nuove idee, proposte, scoperte
e arricchire e integrare le nostre conoscenze e competenze con tantissime nuove informazioni. Nel caso del WCBCT 2019 le decine e decine di simposi, talks, open papers, skill classes, workshops e poster sessions proposte non hanno potuto far altro che stimolare l’attenzione e la curiosità professionale dei partecipanti. Diversi sono stati gli argomenti e i topic proposti durante queste attività: dai risultati di ricerca di psicopatologia sperimentale a quelli sul trattamento evidence-based di molteplici disturbi psicopatologici, dalla proposta di nuovi modelli teorici a quella di integrazione e riscoperta di svariate tecniche terapeutiche e di assessment. Questa cornice veniva completata dai talk di diversi “big” delle terapie CBT, i quali raccontavano il lavoro di anni dedicati alla ricerca, alla pratica clinica e alla disseminazione di esse all’interno delle nostre società, culture e menti, spesso suscitando negli ascoltatori stima e commozione.

  • Creare un network con i colleghi:

Un secondo buon motivo per partecipare ad un evento internazionale può essere quello di conoscere nuovi professionisti e creare potenziali relazioni professionali (e perché no?! magari anche personali). Da esse potrebbero derivare interessanti collaborazioni future che, certamente, l’ adesione a questo tipo di eventi aiuta a mantenere attive e produttive. Il WCBCT 2019 è stato un crocevia di relazioni su scala globale: più di 4000 delegati da 85 diversi Paesi (tra cui Cina, Giappone, Brasile, India, Usa, Uk, Italia, Germania, Australia, Marocco etc.).

  • Condividere i frutti del proprio lavoro:

un terzo valido motivo è sicuramente quello di disseminare e condividere con il resto della comunità scientifica i risultati delle vostre ricerche, dei vostri studi e delle vostre attività. I congressi sono fatti non solo per partecipare più o meno passivamente, ma anche per mettersi in gioco e alla prova, presentando i risultati del proprio lavoro, costato spesso, un grosso impegno e tanta fatica. Lo si può fare in tanti modi, e di certo, un’altissima percentuale dei partecipanti del WCBCT 2019 lo ha fatto presentando poster, simposi e talk. Inoltre, molto spesso (a seconda della rilevanza che il congresso ha, tali presentazioni vengono poi pubblicate su inserti speciali di riviste o sui libri degli abstracts o dei proceedings del congresso stesso, come nel caso del Congresso di Berlino.

  • Arricchire la propria esperienza professionale e personale:

Un’ultima valida ragione è sicuramente quella di considerare l’esperienza come una possibilità per arricchire e perfezionare il proprio curriculum e la propria esperienza professionale e personale.
Partecipare ad un congresso in lingua inglese, presentare i contenuti del proprio lavoro, avere la possibilità pubblicare il lavoro svolto o quella di creare un network internazionale, sono fattori che contribuiscono al potenziamento o all’avanzamento della propria carriera, e soprattutto del Cv personale. Inoltre avere l’opportunità di stare qualche giorno in una città straniera, visitarla nei momenti liberi, confrontarsi con un’altra cultura e assaporare i gusti e le tradizioni locali, sono degli stimoli per arricchire la propria esperienza personale ed un ottimo modo per conciliare lavoro e divertimento.

 

Sotto il cielo di Berlino… niente di nuovo

di Barbara Basile

Report sul IX Congresso mondiale di Terapia Cognitivo-comportamentale (World Congress of Behavioural & Cognitive Therapies, WCCBT) svoltosi presso il City Cube Berlin tra il 17 e il 19 luglio. Più di 4000 partecipanti si sono distribuiti tra gli oltre 150 simposi, i 30 workshop tematici e altrettante skill class, circondati da 300 poster.

Oltre ai grandi classici sulla TCC applicata ai disturbi d’ansia e dell’umore, sono stati presentati lavori sulle tecniche di immaginazione, sulla terapia via internet, sugli approcci trans-diagnostici e sul ruolo della Self-Practice e Self-Reflection nella buona pratica del clinico.

L’innovatività dei lavori presentati e la loro qualità scientifica non è stata sempre all’altezza delle aspettative, mentre le classi di lavoro clinico e di apprendimento, per quanto spesso inaccessibili a causa del sovraffollamento, sono state decisamente più apprezzabili.

Alcuni degli interventi più stimolanti hanno visto coinvolti Michelle Craske, Kelly Bemis Vitousek e una serie di ricerche in cui è stato studiato l’effetto delle tecniche di immaginazione nella riduzione delle credenze patogene in alcuni disturbi (i.e., DCA, Ansia sociale e Autismo) e della sintomatologia di altri (i.e, DOC, depressione).

Basandosi sulla prospettiva trans-diagnostica dei Disturbi dei Comportamenti Alimentari (DCA) di Fairburn, la Vitousek (Università delle Hawaii, USA) ha proposto una perspicace analogia tra il funzionamento della mente anoressica e quella di uno scalatore o di un atleta che pratica sport estremi, sottolineando la loro sovrapposizione rispetto all’emozione di orgoglio derivata dal raggiungimento di obiettivi impossibili, come il controllo sul cibo e sul corpo (per l’anoressica) e il guadagno di una cima elevata (per lo scalatore). La nota clinica ha evidenziato il ruolo delle credenze positive legate al riuscire a perseguire un obiettivo così stoico, quali il perdere peso da un lato e il raggiungimento di una vetta, dall’altro, nel mantenere il disturbo. Inoltre, in entrambi i casi lo scopo viene perseguito nonostante i costi elevati in termini di salute fisica e il frequente rischio di morte. L’anoressica e lo sportivo estremo inoltre tendono entrambi a sovra-investire sullo scopo che diventa centrale e totalizzante nella loro vita e che, se abbandonato o allentato, evoca il terrore profondo di scivolare nell’eccesso opposto (“se lascio andare il controllo sul cibo e sul corpo, sarà terribile perchè più difficile e doloroso da ristabilire”). In termini terapeutici la Vitousek sottolinea l’appropriatezza delle tecniche di esposizione (al cibo, al peso e all’immagine corporea) con particolare attenzione alla sospensione dei comportamenti di sicurezza e protezione, esattamente come è consuetudine fare nelle esposizioni nei casi di disturbi d’ansia e ossessivo-compulsivo.

Infine, nel suo magistrale intervento, Michelle Craske dell’Università della California (USA ) ha spiegato come i dati provenienti dagli studi di neuroscienze possano favorire una maggiore efficacia della psicoterapia, se adeguatamente interpretati. La professoressa ha spiegato, ad esempio, come l’utilizzo di farmaci in grado di interferire con la funzionalità dell’ippocampo (per esempio, la scopolamina) possano aumentare l’esito di interventi basati sull’esposizione, poiché interferiscono con il cosiddetto “context renewal of fear” (la riattivazione della paura nel contesto). Al contrario, il potenziamento della funzionalità dell’ippocampo (tramite somministrazione di glucosio) potrebbe essere utilizzato subito dopo un evento traumatico poiché impedisce la generalizzazione della paura ad altre situazioni.

Le key lectures più affollate, soprattutto dalle nuove leve, hanno visto implicati eminenti clinici come Steve Hayes (fondatore dell’ACT), Arnoud Arntz (autorevole rappresentante europeo della Schema Therapy), Paul Gilbert (ideatore della Compassion Focused Therapy), e, trai i big della TCC, David Clark, Richard Bentall, Paul Salkovskis, Judith Beck e Christine Padesky. Un convegno con grandi numeri e molti volti famosi, i cui contenuti e la cui organizzazione però non sono sempre stati innovativi e appaganti come sperato!

L’origine del narcisismo

di Paola Manno, Annalisa L’Abbate, Melania Catania e Silvia Zappatore

Il 21 Giugno 2019, presso l’Hotel Tiziano, si è svolto il convegno “L’origine del Narcisismo”. Sono intervenuti il Dr. Pietro Muratori (IRCCS Fondazione Stella Maris , Pisa), il Prof. Sanders Thomaes (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Utrecht) ed il Dr. Carlo Buonanno (didatta e membro Equipe Età Evolutiva APC/SPC).

Il Dr. Pietro Muratori, ha introdotto il tema del narcisismo in età evolutiva presentando la Child Narcisism Scale (CNS), uno strumento self-report unidimensionale di rapida somministrazione (10 item) dotato di una buona coerenza interna.

Il Prof. Sanders Thomaes, ha illustrato le caratteristiche del narcisismo in età evolutiva: un’immagine grandiosa di sé che cerca conferme nella relazione e ricerca la validazione esterna. Parte del primo intervento è stata dedicata alla presentazione di studi che mettono in relazione tratti narcisistici, autostima e aggressività; su come differenti stili di parenting possono contribuire allo sviluppo di tratti narcisistici. Sono stati presentati i risultati di alcune ricerche che hanno indagato la relazione tra tratti narcisistici e bullismo e tra tratti narcisistici e disturbi alimentari.

Il Dr. Carlo Buonanno ha introdotto un riflessione volta a comprendere in che modo i dati di ricerca presentati siano applicabili e contestualizzabili all’ambito clinico.

Il Prof. Thomaes, ha poi focalizzato il secondo intervento sul costrutto di autostima in età evolutiva e il Better Than Average Effect (BTAE), ovvero la tendenza dei bambini a sovrastimare le proprie abilità associata ad una definizione di sé più benevola in relazione ad un obiettivo da raggiungere. Tale tendenza, sembra avere un valore adattivo: agevolare l’esplorazione dell’ambiente e l’apprendimento consentendo di perseverare nell’attività.

Nei giorni 21, 22 e 23 Giugno ha poi avuto luogo, presso la sede APC di Lecce, il corso di formazione “Il Coping Power Program: un protocollo di intervento sui disturbi da comportamento dirompente”, condotto dal Dr. Pietro Muratori e dal Dr. Carlo Buonanno e promosso dall’ equipe per l’età evolutiva della scuola APC/SPC di Roma.

Il Coping Power Program (CPP) è un programma applicabile in contesti clinici e di prevenzione, sviluppato per la gestione della rabbia e il controllo dell’aggressività nei bambini dai 7 ai 14 anni. E’ un protocollo cognitivo-comportamentale evidence based che prevede una componente dedicata ai bambini, illustrata dal Dr. Muratori ed una rivolta ai genitori, presentata dal Dr. Buonanno, da svolgersi in setting di gruppo paralleli.

Il corso, che ha incontrato grande interesse da parte dei numerosi partecipanti, ha fornito utili strumenti per il trattamento dei disturbi da comportamento dirompente.

Il modulo CPP per i bambini è strutturato in 34 sessioni di gruppo che si prefiggono di potenziare l’abilità di intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine; l’organizzazione e le abilità di studio; il riconoscimento e la modulazione della rabbia; il perspective taking; il problem-solving in situazioni conflittuali; l’abilità a resistere alle pressioni dei pari e le abilità sociali e l’ingresso in gruppi sociali positivi

Il modulo per i genitori mira a sviluppare e potenziare fondamentali funzioni parentali tra cui la capacità di stabilire regole chiare, di gratificare il bambino e fornirgli attenzione positiva, di promuovere e organizzare le sue abilità scolastiche, di migliorare la comunicazione in famiglia ed il problem solving nei momenti di conflitto, nonché di gestire lo stress genitoriale.

È stato appreso come, per il raggiungimento di questi obiettivi sia fondamentale l’organizzazione coerente e consapevole del setting di gruppo, che rappresenta la situazione ideale per l’apprendimento e la sperimentazione di abilità sociali e relazionali in un ambiente supportivo e non giudicante, sia per i bambini che per i loro genitori.