Esite una forma adattiva di ruminazione?

di Silvia Altomare

Martin e Tesser (1989, 1996) definiscono la ruminazione come un insieme di pensieri ripetitivi che si attivano in assenza di un’immediata risposta ambientale, riguardanti un tema inerente obiettivi personali irrisolti. La letteratura ha dipinto la ruminazione come una forma di pensiero sgradevole, costosa, inutile, e talvolta auto-distruttiva; inizia per cercare una soluzione a un problema, ma poi si sposta sulla valutazione dei significati del problema (Watkins, 2016). Di fatto, evidenze empiriche hanno associato la ruminazione a esiti avversi, soprattutto per le persone con disturbo depressivo, disforico e ansioso, e a conseguenze negative sulle proprie capacità cognitive e interpersonali.

Recentemente, Mikulincer (1996) ha identificato tre categorie di ruminazione: l’action rumination orientata sul compito, focalizzata su come raggiungere l’obiettivo e come migliorare o recuperare errori passati; la state rumination focalizzata su sentimenti attuali e su implicazioni del fallimento; la task-irrelevant rumination può servire a distrarre la persona dal fallimento, pensando a eventi o persone estranee all’obiettivo bloccato. Secondo Ciarocco e collaboratori (2010) la state rumination sarebbe disadattiva, mentre l’action rumination sarebbe adattiva perché simile ai processi di problem-solving e dovrebbe associarsi ad esiti positivi, come una migliore prestazione (Ciarocco et al., 2010). Per testare questa ipotesi, gli autori hanno sviluppato una serie di esperimenti in cui, a seguito di un compito di creatività (Torrance Test of Creative Thinking) veniva dato un feedback di fallimento del tipo “La tua prestazione è stata scarsa”. Successivamente veniva manipolato il tipo di ruminazione: ad un gruppo si chiedeva di pensare a come le abilità apprese durante il compito di creatività potessero influire sul loro futuro (state); un secondo gruppo doveva pensare a come migliorare nel compito di creatività (action); un terzo gruppo doveva pensare ad altro (task-irrilevant).

Lo studio ha mostrato che solo l’action rumination è associata ad esiti positivi in termini di miglioramento della prestazione ad un compito successivo.  

Nello specifico, gli autori sostengono che esisterebbe una forma adattiva, positiva di ruminazione, associata ad esiti positivi, caratterizzata dalla riflessione sugli errori/fallimenti passati, ma focalizzata sui passi necessari per migliorare o affrontare una difficoltà. Riflettere su eventi passati e futuri sembra centrale per la maggior parte degli effetti benefici del pensiero cosciente sul comportamento (Baumeister, Masicampo, e Vohs, 2010). In altre parole, il fatto che alcune persone ruminano su cose inutili (ad esempio stati d’animo, implicazioni del fallimento) può essere considerato l’effetto negativo di un processo che originariamente risulterebbe adattivo. Ciò può aiutare a far luce sul motivo per cui la ruminazione in individui depressi e ansiosi porti ad esiti negativi, nonostante potenzialmente possa essere costruttiva. Un altro esempio è che se lo scopo su cui si riflette è irraggiungibile o mal definito ciò può sfociare in una forma di ruminazione disadattiva.

Rispetto alle implicazioni cliniche, i benefici che si possono trarre dall’ action rumination, possono darci delle speranze nell’aiutare coloro che cronicamente ruminano, spostando il processo di pensiero verso una forma più positiva di ruminazione. In linea con ciò, gli attuali protocolli di intervento agiscono sostituendo la ruminazione con forme di riflessione più utili, orientate all’azione (Watkins, 2016).

Ricerche future potrebbero indagare su benefici e costi specifici delle diverse forme di ruminazione in domini diversi da quello della performance in un compito, come per esempio nel dominio interpersonale, visto il suo impatto negativo sulle relazioni sociali.

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