Il bene pubblico e il male nascosto

di Roberto Petrini

Quando la paura si trasforma in aggressività e l’altro diviene un rivale

La paura è il più grande inibitore del comportamento altruistico e orienta le condotte verso la violenza. Questo sentimento, che orienta i processi di valutazione e di decisione, è sfruttato ad arte da chi vuole ottenere dalla massa un certo tipo di comportamento. Si accresce, con i mass media, una specifica paura, per poi far accettare una soluzione predeterminata; è noto che si accetta più facilmente una riduzione della propria libertà per avere in cambio una maggiore sensazione di sicurezza.

In situazione percepite come incerte e urgenti, si cerca di agire velocemente anche a discapito della completezza d’informazioni, la ragione passa in secondo piano, la paura si trasforma in aggressività, l’altro diviene un rivale.

Arriviamo a convincerci che il male certo è preferibile a un bene incerto, un bene che qualora non si realizzasse, porterebbe a un dolore superiore rispetto alla prospettiva conosciuta di un male noto.

Se un comportamento perdura attraverso le epoche geologiche, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria.

Negli animali l’aggressività ha la funzione di selezionare i migliori, gli consente di riprodursi di più, di regolare la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. I contendenti, nell’aggressività ritualizzata, convengono però nel non superare certi limiti: il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura sembra però quello più vicino a noi, cioè la scimmia, e come l’uomo ha poca pietà per i suoi simili.

Nelle situazioni conflittuali prevalgono egoismo e paura e, di norma, diminuiscono fiducia e altruismo; ma anche se sottoposti a condizioni che incutono paura, esiste sempre la possibilità di fare una scelta di libertà e andare oltre se stessi verso qualcuno da amare, verso un compito da compiere. L’altruismo prospera in un clima di fiducia e stima. La cooperazione non è mai stabile ed è influenzata dall’immagine che l’altro ha di noi, di quella parte che spesso non accettiamo né vediamo.

Quando sono in gioco risorse comuni, ognuno deve fare la propria parte per salvare il mondo, il bene ha una dimensione pubblica, il male deve rimanere nascosto: se è reso noto, esso non può non essere perseguito.

In tempi brevi l’egoismo sembra pagare, poiché si affianca bene all’atteggiamento indolente dove si ottiene il massimo con il minimo sforzo.

Il tempo fugge: dimostriamo e impieghiamo il nostro potere di bene senza rimandare, più la vita è sprecata e povera più è alta l’angoscia di morte.

Fare del bene offre vantaggi anche al donatore, aumenta la percezione di sicurezza, inibisce i sensi di colpa, fa superare i sentimenti d’invidia, dà ottimismo.

L’altruista ha un potere e intende usarlo, si percepisce come efficace nell’affrontare e portare a termine un compito specifico; rifiutarsi di agire significa, per lui, collaborare con situazioni che in fondo condanna.

L’altruismo ha bisogno di essere educato e non può essere ingenuo! L’idealista deve essere realista e disilluso, consapevole delle fragilità umane. Il premio sarà il passare oltre se stessi e dimenticarsi per poi incontrare un significato da realizzare o qualcuno da amare.

Per approfondimenti:

“Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita” di G. Cucci. Cittadella Editrice. 2015

“Logoterapia e analisi esistenziale” di V. Frankl. Editore Morcelliana. 2005

Sentirsi alla pari

di Chiara Casali, Francesca Mira e Maurizio Brasini

Il miglior modo di incentivare la prosocialità

“Fairness is a more effective interpersonal motive than care for sustaining prosocial behaviour” [link]. In questo recente studio, condotto dal gruppo di ricerca della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC), sono stati adottati i metodi e la cornice teorica di riferimento della psicologia sociale per affrontare un tema fondamentale anche per la psicoterapia: quali motivazioni conviene promuovere per stabilire una solida relazione di alleanza? Meglio far uso di motivazioni squisitamente altruistiche, basate sull’empatia e sulla sollecitudine verso i bisogni dell’altro, o di motivazioni collaborative, basate sul senso di equità e di reciprocità? Una precedente ricerca comparsa su Nature [link] ha mostrato che è possibile distinguere funzionalmente i circuiti neurali attivi nei comportamenti prosociali (cioè orientati a vantaggio degli altri) basati sull’empatia da quelli basati su equità e reciprocità; inoltre, i circuiti basati su motivazioni di reciprocità risultavano più “evoluti” di quelli basati sull’empatia; infine, l’induzione di motivazioni empatiche aumentava i comportamenti pro-sociali nei soggetti con un orientamento di base più “egoista” mentre l’induzione di motivazioni orientate alla reciprocità era particolarmente efficace sui soggetti con un orientamento più prosociale. Nel presente esperimento, è stato adottato il paradigma del Dictator Game (DG), per cui i partecipanti dovevano decidere quale parte di una somma di 30 euro concedere a un (fittizio) altro partecipante in due differenti situazioni-tipo: in una bisognava dividersi una vincita, nell’altra ripartire una spesa (ripagare un danno). Nelle due diverse situazioni, l’altro poteva mostrarsi “egoista” (ad esempio dichiarandosi intenzionato a tenersi tutta la vincita), oppure equo (ad esempio proponendo di dividere a metà), oppure altruista (ad esempio offrendo l’intera vincita all’altro); in ogni caso, la decisione finale sarebbe spettata ai partecipanti. In aggiunta, per ciascuna decisione presa sono state considerate le motivazioni sottese, in particolare le motivazioni alla cura (care) e all’equità (fairness). Si è osservato che, nella condizione in cui bisogna suddividere un costo, quando l’altro si mostra altruista, i soggetti a orientamento più “egoista” tendono a ridurre la somma elargita, come se accettassero la generosità altrui o ne approfittassero. In questa condizione più critica, l’analisi delle motivazioni mostra che solo una mentalità orientata all’equità e alla reciprocità è in grado di sostenere un’equa ripartizione di un costo con una persona che si mostra altruista. Questi risultati sono in linea con la teoria dello psichiatra Giovanni Liotti, secondo il quale, in chiave evoluzionista, il senso di equità, che è una caratteristica distintiva del sistema motivazionale della collaborazione tra pari, fornisce un contesto interpersonale più favorevole al mantenimento di un assetto prosociale rispetto all’altruismo basato sull’empatia, che è invece indicativo di motivazioni di accudimento e invita l’altro a rispondere in termini di attaccamento (lasciarsi accudire) oppure di rango (impossessarsi di una risorsa limitata quando l’altro lo consente). Per concludere, cosa ci dicono questi risultati riguardo l’alleanza terapeutica e, in particolare, i momenti di rottura della relazione? Da una parte che in questi momenti risulta più difficile mantenere una mentalità prosociale, di condivisione e dall’altra che il senso di equità, e quindi il sistema motivazionale collaborativo-paritetico, è più efficace nel mantenere un comportamento di prosociale rispetto all’altruismo e quindi rispetto al sistema motivazionale dell’accudimento, in cui chi è oggetto dell’accudimento può esimersi dal sostenere un costo e dall’impegnare le sue risorse.

Uno, Nessuno, Centomila sensi di colpa

di Benedetto Astiaso Garcia

La colpa è sempre fuor di dubbio. F. Kafka

Il senso di colpa implica il riconoscimento di tre componenti caratterizzanti e necessarie, fattori dirimenti altri vissuti emotivi: la valutazione negativa del proprio comportamento, in quanto dannoso o cattivo; l’assunzione di responsabilità; l’abbassamento dell’autostima morale. Considerarsi responsabili di una determinata azione significa ritenere di averla causata, direttamente o indirettamente, di aver avuto lo scopo di causarla o di aver avuto il potere di evitarla.

A partire da un sano senso di responsabilità, innato nell’essere umano rispetto alla sofferenza altrui, la presenza di credenze patogene induce un deragliamento emozionale di tipo disadattivo, la cui origine molto spesso risiede nell’idea del bambino di poter danneggiare il benessere familiare o la relazione genitoriale semplicemente perseguendo uno scopo sano. Il senso di colpa, pertanto, è un sentimento che deriva e sostiene molte credenze patogene rendendo l’individuo nell’età adulta il più grande persecutore di se stesso.

La CMT, teoria della psicopatologia e della psicoterapia elaborata da Edoardo Weiss e Harold Sampson, identifica i seguenti sensi di colpa:

  • Senso di colpa da separazione/slealtà: sviluppato a partire dalla credenza che una separazione fisica o valoriale dalle persone care arrecherà loro un grave danno, contaminando dunque l’idea di propria autonomia con quella di sofferenza altrui;
  • Senso di colpa del sopravvissuto: percezione che le proprie fortune, successi e risultati non rispondano a un innato principio di equità e giustizia, inducendo quindi il “reo” a dover espiare la propria condizione privilegiata;
  • Senso di colpa da responsabilità onnipotente: idea di avere il dovere ed il potere di prendersi cura delle persone care, la cui origine risiede in un egocentrico senso di responsabilità rispetto al benessere familiare;
  • Senso di colpa da odio di Sé: disprezzo nei propri confronti tale non solo da considerare se stesso come indegno di amore e di rispetto, ma addirittura da ritenersi meritevole di rifiuto e noncuranza per il proprio essere intrinsecamente sbagliato.

Fortemente differenziati rispetto al loro substrato neuronale e al ruolo nella psicopatologia, come illustrato dal neuropsichiatra infantile Francesco Mancini nella sua opera “La mente ossessiva”, esistono due tipi di sensi di colpa, distinti per manifestazioni, funzioni e ingredienti cognitivi: il senso di colpa altruistico e il senso di colpa deontologico. Mentre nel primo è necessaria la presenza di una vittima e l’assunzione di non aver agito in modo altruistico o prosociale, nel secondo viene trasgredita una norma di natura morale.

La dimensione interpersonale del senso di colpa, essedo la trasgressione un fenomeno sociale, è strettamente legata al tema dell’altruismo e dell’empatia, generando un senso di pena, variabile rispetto agli scopi implicati, relativo alla credenza di aver danneggiato o non aiutato l’altro.

Non tutti i sensi di colpa sono però legati alla percezione di aver arrecato un danno, per azione o omissione, a terzi, derivando quindi dalla percezione di aver violato una norma deontologica introiettata, fonte di autocritica da un punto di vista morale e causa di una ricerca o aspettativa di punizione.

La legge morale, infatti, non dipendente da un sistema esterno, risiede dentro l’uomo in termini transculturali e transgenerazionali, rendendo perciò vano il nietzschiano tentativo di liberare l’uomo attraverso una “rottura delle tavole”, emblema di una legge esterna, prescrittiva ed estrinseca.

Una profonda e spietata negazione del passato non rappresenta dunque una risposta alla liberazione dell’uomo, essendo solamente l’essere morale kantiano capace di tendere verso il noumeno. Ecco come la bellezza e la norma deontologica possono essere avvicinate solamente con stupore: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me” (I. Kant).

Per approfondimenti:

Mancini F., “La mente ossessiva”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016

Catelfranchi C, Mancini F., Miceli M., “Fondamenti di cognitivismo clinico”, Bollati Bringhieri, Torino, 2012

Gazzillo F., “Fidarsi dei Pazienti”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016

La tua felicità è la mia felicità!

di Emanuela Pidri
a cura di Antonella Rainone

La persona altruista ha più probabilità di soffrire di depressione

La persona con depressione mostra in genere una preoccupazione maggiore per gli altri o per la prospettiva altrui e raramente pensa egoisticamente solo a se stessa. Di solito pensa all’altro, al non riuscire ad aiutarlo e al danno che gli procura o che gli ha procurato in passato. Secondo alcuni studi di Lynn E. O’Connor, gli atteggiamenti pro-sociali predicono la depressione. Esiste un tipo di “depressione altruistica” in cui giocano un ruolo patogenetico fondamentale l’attivazione e la compromissione dello scopo di fare il bene all’altro anteponendolo al proprio bene, la colpa interpersonale o altruistica elevata e anche il distress empatico. La conseguenza è che, generalmente, le persone affette da depressione dimostrano una maggiore empatia per gli altri e si sentono peggio quando le cose vanno male agli altri. Prove empiriche sull’esistenza di una relazione patogenetica tra altruismo e depressione partono dalla definizione di senso di colpa altruistico. Il senso di colpa altruistico, conosciuto come “senso di colpa interpersonale”, può essere definito come un senso di pena che si genera dalla credenza che si è danneggiato un altro o non lo si è aiutato. Un individuo sperimenta senso di colpa altruistico se si assume che: la compromissione dello scopo benevolo sia dovuta a una propria azione o omissione; si aveva la possibilità di agire diversamente; non si è aiutato l’altro, anteponendo il suo bene al proprio e cercando vicinanza e partecipazione. La rinuncia dei propri beni e fortune per l’altro non è per l’individuo un espediente per espiare o ristabilire equità, ma piuttosto il desiderio altruistico di partecipare al destino della vittima e ricercare la sua vicinanza affettiva. In quest’ottica, la funzione della colpa altruistica è quella di un campanello che motiva l’individuo all’azione morale, di aiuto.
Secondo gli studiosi, esistono tre tipi di colpe altruistiche: 1) senso di colpa del sopravvissuto, caratterizzata dalla credenza che la realizzazione di normali scopi evolutivi e il raggiungimento di successo e felicità causerà nell’altro sofferenza semplicemente attraverso il confronto; 2) senso di colpa da separazione, caratterizzata dalla credenza che separarsi o essere differente dalle persone che si amano li danneggerà e che costituirà un atto di slealtà; 3) senso di colpa da responsabilità onnipotente, che coinvolge un esagerato senso di responsabilità per la felicità dell’altro e preoccupazione di far male all’altro. Il programma di ricerche della O’Connor, iniziato negli anni ’90 produce risultati sorprendenti per la visione tradizionale del depresso egoista e poco empatico. Si individua un altro tipo di depressione, quindi, dove giocano un ruolo fondamentale l’iperaltruismo, il distress empatico e la colpa altruistica. L’individuo con “depressione altruista” presenta capacità empatica normale, a volte maggiore del non depresso (anche con i sintomi di abbassamento delle funzioni cognitive); maggiore distress empatico; livelli più alti di colpa del sopravvissuto e di colpa di responsabilità onnipotente; comportamento interpersonale sottomesso e passivo; minore livello di confronto sociale. La Terapia Cognitivo- Comportamentale sottolinea l’importanza per il paziente di portare alla consapevolezza l’altruismo e la colpa interpersonale che hanno guidato le scelte al ribasso, riconcettualizzando il significato di scelte al ribasso quale propria colpa interepersonale e riprova del proprio fallimento. Spesso i pazienti riportano livelli elevati di rabbia e vergogna, il lavoro sulla rabbia e sulla vergogna, quindi, deve essere preceduto da un accurato assessment sulla eventuale presenza di colpa interpersonale poiché, infatti, aumentare la rabbia può aumentare la colpa e cercare di diminuire la vergogna può aumentare il senso di  colpa del sopravvissuto.

Per approfondimenti:

Rainone A., Mancini F. (2012), Altruismo e depressione. XVI Congresso Nazionale SITCC “Questioni controverse in psicoterapia cognitiva”. Roma, 4-7 Ottobre, 2012.

Mancini F., (2008). I sensi di colpa altruistico e deontologico. Cognitivismo clinico 5, 2, 123-144.

O’ Connor L. E.  et al., (2002).  Guilt, submission and empathy in Depression. Journal Affect Disorders.

Il lato oscuro dell’altruismo

di Maurizio Brasini

Quando i buoni sono ingiusti

Nel libro “Il visconte dimezzato” di Italo Calvino, quando il Visconte Medardo di Terralba viene diviso in due da un colpo di cannone, inizialmente sembra sia sopravvissuta solo la parte cattiva: il “Gramo”. Il Gramo è privo di empatia, crudele e spietato, e getta la popolazione di Terralba nel terrore. Ma quando ricompare l’altra metà del Visconte, il “Buono”, si scopre che questa parte animata da intenti compassionevoli e altruistici finisce per fare altrettanti danni della sua metà crudele.

Alcune recenti ricerche sembrano dare ragione all’intuizione di Italo Calvino e suggerire che un’attitudine altruista ed empatica non sempre ci conduca alle decisioni migliori per il bene del nostro prossimo. Uno dei possibili motivi è che bontà d’animo e giustizia non sempre coincidono.

Vediamo come affrontano la questione gli studiosi. Il metodo forse più utilizzato dai ricercatori per valutare i comportamenti altruistici si chiama “gioco del dittatore”: si assegna una certa somma di denaro a un individuo e gli si dice che può suddividerla come vuole con un altro partecipante, che non potrà fare altro se non accettare la sua decisione; la somma assegnata all’altro può essere considerata una misura dell’altruismo di quell’individuo. Grazie a esperimenti come questo, l’idea che gli uomini agiscano esclusivamente in base al proprio interesse è stata sorpassata a favore di una visione in cui gli uomini tengono conto dei propri simili. Più complicato è stabilire quali motivazioni, quali leve spingano gli esseri umani a tener conto delle esigenze degli altri. Nel gioco del dittatore, per esempio, un individuo potrebbe cedere una parte del denaro perché gli sembra una cosa più equa, o perché si dispiace che l’altro rimanga senza niente, o perché donare una parte della somma lo fa sentire d’animo più nobile, solo per fare alcuni esempi di differenti leve morali sottostanti ai comportamenti altruistici.

Consideriamo ora una variante del gioco del dittatore, in cui prima di chiedere al nostro partecipante di suddividere la somma, facciamo in modo che si senta in colpa nei confronti dell’altro partecipante (che in genere è un complice dello sperimentatore). È stato dimostrato che, prevedibilmente, il senso di colpa fa aumentare la somma di denaro concessa all’altro, per una sorta di effetto di risarcimento. Ma facciamo ancora un passo avanti: cosa succede se il nostro soggetto sperimentale deve suddividere la somma con altri due partecipanti e si sente in colpa verso uno dei due? Anche questo è prevedibile, ed è stato dimostrato: si tenderà a favorire la persona verso la quale ci sentiamo in colpa, a discapito dell’altro. Ecco un chiaro esempio di come si possa essere buoni e ingiusti al tempo stesso.

È stato anche dimostrato che nelle persone animate da motivazioni di tipo empatico (la sensibilità alla sofferenza della “vittima” verso cui siamo colpevoli) aumenta questo effetto di distribuzione iniqua del denaro, mentre le persone motivate più in senso egalitario (sensibili a temi di equità e giustizia) tendono a bilanciare maggiormente le somme assegnate agli altri partecipanti.

Un’ipotesi esplicativa di questo fenomeno può essere ricavata dalla teoria evoluzionistica. La sensibilità alla sofferenza dei nostri simili è la base su cui sono fondati i comportamenti di cura della prole, ed è probabile che su questa stessa base si costruiscano forme più articolate e raffinate di moralità; per citare Darwin: “Qualunque animale, dotato di pronunciati istinti sociali, ivi inclusi i sentimenti parentali e filiali, acquisirà inevitabilmente un senso morale ovvero una coscienza non appena le sue facoltà intellettive si saranno sviluppate come nell’uomo”. D’altro canto, è naturale che questa forma di attenzione ai bisogni degli altri sia selettiva e non equamente distribuita: mentre il senso di giustizia e di equità ci invita a porre tutti gli altri sullo stesso piano, l’empatia ci porta a fare distinzioni a favore dei “nostri”.

 

Per approfondimenti:

Darwin, “The Descent of Man, and Selection in Relation to Sex”, 1871 cap. IV. Trad. it.. Newton Compton Editori, 2011).

De Hooge, I. E., Nelissen, R., Breugelmans, S. M., & Zeelenberg, M. (2011). What is moral about guilt? Acting “prosocially” at the disadvantage of others. Journal of Personality and Social Psychology, 100, 462–473.

Feng, Q., Xu, Y., Xu, R., Zhang, E. (2017). Moral foundations tell us why guilt induces unfair allocation in multi‐party interactions. Asian Journal of Social Psychology, 20(3-4), 191-200.

Le radici dell’altruismo umano – Felix Warneken e Micheal Tomasello

di Sandra Rienzi
curato da Francesco Mancini

Già Darwin (1871) sapeva che l’altruismo costituiva un problema per la sua teoria dell’evoluzione basata sulla selezione naturale. La soluzione a questa impasse proviene dalla genetica moderna e, in particolare, dalla Teoria della selezione di parentela di Hamilton e dalla Teoria dell’altruismo reciproco di Trivers. Questi meccanismi contribuiscono a spiegare le condotte altruistiche nell’uomo adulto. Meno si sa invece sul modo in cui la tendenza all’altruismo si sia sviluppata nell’uomo sia da un punto di vista ontogenetico che filogenetico. In questo articolo gli autori sostengono la tesi per cui i bambini piccoli siano intrinsecamente altruisti. Questa ipotesi si basa sui risultati provenienti da un insieme di recenti studi condotti sulla propensione di bambini di un anno di età ad aiutare il prossimo in maniera strumentale.

Da un punto di vista filogenetico, in ricerche condotte sugli scimpanzè, è emerso che anch’essi sembrano essere mossi da una motivazione di base ad agire altruisticamente osservabile più in alcune circostanze che in altre. Tutto ciò ha fatto ipotizzare l’esistenza di più radici filogenetiche distinte per ciascun dominio di attività.

Da un punto di vista ontogenetico, gli autori hanno osservato che lo sviluppo dell’altruismo è radicato nella tendenza dei bambini ad aiutare il prossimo spontaneamente (ossia in situazioni nuove o che prevedevano dei costi, senza essere incoraggiati ad aiutare, senza l’aspettativa di essere ricompensati).

In breve, ciò che gli autori rivendicano è che le tendenze altruistiche osservate nella prima ontogenesi umana sarebbero il risultato di una naturale predisposizione, dalla quale potrebbero poi svilupparsi le pratiche di socializzazione. La cultura avrebbe quindi un ruolo nel  nutrire l’altruismo nella psiche umana piuttosto che instillarlo in essa. L’internalizzazione delle norme prosociali suggerisce a sua volta una complessa interazione tra predisposizioni biologiche e inculturazione durante l’ontogenesi.

Sembra, quindi, che i bambini aiutino gli altri indiscriminatamente, senza tener conto del fatto che il beneficiario sia un parente o uno sconosciuto, se quest’ultimo ricambierà il favore o se, e in che modo, il loro comportamento avrà degli effetti sulla loro reputazione. Ad ogni modo, come ha affermato Dennis Krebs (2006), è implausibile, da una prospettiva evolutiva, che un altruismo naive di questo tipo possa sopravvivere. E’ stata quindi ipotizzata l’esistenza di misure di sicurezza nell’agire altruisticamente che da una parte impediscono all’”helper” di essere sfruttato dagli altri, e che dall’altra guidano la messa in atto di gesti altruistici verso alcuni individui e situazioni piuttosto che verso altri. Queste distinzioni concettuali nel dominio del comportamento prosociale iniziano ad essere acquisite dai bambini già nella media infanzia. Gli autori concludono aggiungendo che le ricerche future dovrebbero indagare il successivo sviluppo dell’altruismo umano nell’arco dell’infanzia, specificando in che modo i fattori evolutivamente cruciali che sostengono i comportamenti altruistici in età adulta, divengono gradualmente parte del processo di sviluppo.

Molto interessante in questo ambito è l’articolo di Luverà (2012) nel quale l’autrice vuole indagare il fenomeno dell’altruismo utilizzando un punto di vista naturalistico ed evoluzionistico, dalla comparazione tra l’altruismo umano e animale, alla discussione delle implicazioni sul sistema etico specificatamente umano.