Memorie di colpa e presente ossessivo

di Manuel Petrucci

Uno studio sull’efficacia dell’Imagery with Rescripting nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo

Diverse prospettive teoriche enfatizzano il ruolo della responsabilità/colpa nella genesi e nel funzionamento del Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC). Nello specifico, pur nella diversità dei contenuti con cui si manifestano, la minaccia nucleare veicolata dalle ossessioni sarebbe quella della possibilità di essere responsabili di atti gravemente immorali o dannosi. Di conseguenza, le compulsioni si configurano come atti mentali o comportamenti osservabili che hanno lo scopo di prevenire tale minaccia, percepita come catastrofica. A corroborare questa idea, numerose evidenze empiriche mostrano che i pazienti ossessivi riportano punteggi più alti alle misure di responsabilità e colpa rispetto a pazienti con altri disturbi e ai controlli sani, che interventi volti alla riduzione del senso di responsabilità/colpa risultano in una riduzione dei sintomi e che, al contrario, aumentando sperimentalmente il senso di responsabilità/colpa, anche i soggetti sani si comportano in maniera assimilabile al DOC.

I pazienti DOC presentano dunque una elevata vulnerabilità attuale all’esperienza della responsabilità e della colpa, e gli studiosi si sono chiesti quali possano essere gli eventi e le situazioni che nel corso della vita favoriscono lo sviluppo di questa vulnerabilità. Dai racconti dei pazienti e dalle ricerche emerge che i contesti familiari dei pazienti DOC sono spesso caratterizzati da standard elevati, marcata attenzione alla moralità e regole rigide, la cui trasgressione comporta reazioni critiche e punitive da parte delle figure di riferimento, in particolare a carico della relazione stessa. Il bambino è dunque esposto da un lato al senso di inadeguatezza rispetto alle norme di condotta, dall’altro può percepire che a causa di un suo errore o una sua mancanza una relazione per lui vitale è stata compromessa, come segnalato non solo dall’aperta disapprovazione e dai rimproveri, ma anche da forme di “delusione” e di vero e proprio ritiro dell’affetto a scopo punitivo.

Se attraverso la psicoterapia vengono modificate le valutazioni, le emozioni e le rappresentazioni di sé associate ai ricordi di esperienze di critica, rimprovero o punizione, ciò risulta in un miglioramento della sintomatologia ossessiva? È questo il quesito che si sono posti un gruppo di ricercatori del gruppo APC-SPC di Roma, che stanno conducendo uno studio su pazienti DOC utilizzando la tecnica dell’Imagery with Rescripting, i cui risultati preliminari sono stati presentati al “Sixth Meeting on Obsessive-Compulsive Disorder” organizzato dalla European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), tenutosi ad Assisi dal 17 al 20 maggio 2018.

Dopo una fase di assessment, dieci pazienti con diagnosi di DOC sono stati intervistati allo scopo di indagare la presenza di ricordi di esperienze di colpa legate a critiche o rimproveri, ma non direttamente connesse alla sintomatologia attuale. Dopo l’intervista, i pazienti sono stati sottoposti a tre sessioni di Imagery with Rescripting (ImR) focalizzate sui ricordi individuati, non in concomitanza con una psicoterapia. L’ImR è una tecnica esperienziale di derivazione gestaltica che viene ampiamente utilizzata nell’ambito della Schema Therapy e ha l’obiettivo di consentire una “riscrittura” di ricordi traumatici, introducendo all’interno della scena rievocata elementi di cambiamento, in particolare figure di riferimento, che possano prendersi cura di quei bisogni fondamentali che sono stati trascurati o violati nell’episodio specifico.

Per verificare l’efficacia dell’intervento, prima e dopo le sessioni di ImR sono state somministrate misure relative alla sintomatologia ossessiva (Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale, Y-BOCS), ansiosa (Beck Anxiety Inventory, BAI), depressiva (Beck Depression Inventory II, BDI), e una per la valutazione della propensione al timore di colpa (Fear of Guilt Scale, FOGS). I risultati hanno mostrato una generale riduzione, a tre mesi dalle sessioni di imagery, dei punteggi riportati in tutti gli strumenti utilizzati. In particolare, sei pazienti su dieci hanno presentato un miglioramento clinicamente significativo (stimato in una riduzione di 11 punti alla Y-BOCS e in un punteggio totale inferiore a 17) dei sintomi DOC, con i restanti che hanno mostrato comunque un trend verso il miglioramento. Emerge inoltre una riduzione significativa del timore di colpa, come misurato dalla FOGS, in sei pazienti su dieci, e una riduzione complessiva dell’ansia (BAI) in quattro pazienti su dieci.

Pur essendo preliminari e ottenuti su un campione ancora limitato di pazienti, i dati emersi da questa ricerca indicano in maniera chiara che lavorare sulla vulnerabilità storica è una strategia con grandi potenzialità nella cura del disturbo ossessivo, ancor di più se si considera che le sessioni di imagery non sono state svolte all’interno di un percorso psicoterapeutico più ampio, e non hanno avuto come target ricordi di episodi ricollegabili direttamente allo sviluppo dei sintomi presentati dai pazienti. Le caratteristiche dell’ImR la rendono uno strumento prezioso ed efficace per questo tipo di intervento, in quanto consente a voci con toni e messaggi diversi di esprimersi laddove risuona perenne un’eco di sofferenza e pericolo, in un passato cristallizzato, e che dunque non è mai realmente passato.

Per approfondimenti:

Tenore, K., Basile, B., Cosentino, T., De Sanctis, B., Fadda, S., Gragnani, A., Luppino, O.I., Perdighe, C., Romano, G., Saliani, A.M., & Mancini, F. (2018). Efficacy of Imagery with Rescripting in treating OCD: a single case series experimental design (preliminary results). Presentazione orale al “Sixth EABCT SIG Meeting on OCD”, Assisi, 17-20 Maggio 2018.

Mancini, F. (a cura di) (2016). La mente ossessiva. Milano: Cortina.

ASSISI 2015 – Sessione 3 – Emozioni e Bias

di Roberta Trincas

La sessione è stata ricca di interventi e spunti di riflessione su tematiche diverse, dal ruolo della vergogna nelle difficoltà interpersonali, all’effetto dell’induzione emotiva sui bias attentivi, infine al ruolo del criticismo percepito nella disregolazione emotiva e nei comportamenti problematici del disturbo borderline di personalità.

Il primo intervento Il ruolo della vergogna nel malfunzionamento psicologico e nelle difficoltà interpersonali (di Annamaria Libera Lauriola, Fabiola Bianco, Marta Morbidelli, Cristina Salvatori, Barbara Basile) parte dall’osservazione che la vergogna ha un ruolo nell’insorgenza e nel mantenimento di disturbi come quello depressivo, l’ansia sociale e l’ideazione paranoide, e influisce sulle difficoltà relazionali. In particolare, in questo studio è stato dimostrato che la vergona correla con specifiche difficoltà relazionali come la mancanza di socievolezza, il bisogno di approvazione sociale, la sensibilità sociale. Inoltre, si associa a maggiori sintomi di ansia fobica, depressione, ostilità e ideazione paranoide. In aggiunta, dato che spesso la vergogna si associa ad esperienze precoci negative con i caregiver, come il rifiuto, l’umiliazione, le critiche, è stato ipotizzato che la vergogna potesse associarsi a schemi disfunzionali specifici, in particolare della madre. Mediante le analisi della mediazione si è visto che la vergogna media la relazione tra le difficoltà interpersonali e l’ansia, ma si nota solo una mediazione parziale con la depressione e l’alessitimia.

Tra le riflessioni riguardanti i risultati di questo studio alcune di rilievo riguardano innanzitutto l’ipotesi dell’esistenza di una “vergogna caratteriale”, in altre parole riguarda la vergogna rispetto alle proprie abilità sociali e stili interpersonali, quindi riguardante il proprio carattere “percepito come tratto stabile e immodificabile del sé”. Inoltre, la vergogna sembra avere un ruolo di maggior rilievo in relazione alla mancanza di socievolezza; in particolare media la relazione tra specifiche difficoltà interpersonali e il malessere psicologico. Mentre gli stili parentali non sembrano avere un ruolo preponderante nello sviluppo della vergogna. Rispetto a quest’ultimo punto, l’interessante intervento del discussant dott. Simone Gazzellini, ha sottolineato che il dato non significativo sull’influenza degli stili genitoriali può non essere rilevante se consideriamo che la vergogna potrebbe invece essere associata ad un particolare stile educativo genitoriale, per esempio critico, piuttosto che a schemi maladattivi specifici.

Il secondo intervento Emozioni, Benessere Psicologico e Perdono Interpersonale: Una Ricerca Correlazionale
(di Federica Brindisino, Federica Ariano, Marianna Barucca, Rosanna Camino, Piergiorgio Carraro, Maria Dettori, Claudia Garano, Massimiliano Iacucci, Isabella Massaroni, Martina Valentini, Simona Venga, Giuseppe Vitali, Stefania Fadda, Barbara Barcaccia) ha indagato gli effetti della terapia del perdono su emozioni negative, sull’autostima, e sulla salute fisica. Ciò che attualmente si osserva è che il perdono è associato ad un umore più positivo, ad una maggiore soddisfazione per la vita, minore stress fisiologico, e meno rancore e desiderio di vendetta. In particolare, le persone più disposte a perdonare provano più emozioni positive, minore tendenza a ruminare sulla condizione attuale/fisica e umorale, maggiori sentimenti benevoli verso di sé e verso gli altri. Mentre coloro che provano desiderio di vendetta e tendenza all’evitamento mostrano più emozioni negative, depressione e tendenza alla ruminazione, sentimenti negativi verso sé (come odio e inadeguatezza), attribuzioni rigide sul comportamento dell’altro, ruminazione rabbiosa per cui è più difficile intervenire in psicoterapia. Inoltre, si osserva che nel raggiungimento del benessere non bastano i principi mindful del “non evitare” e “non desiderare vendetta” piuttosto la benevolenza verso sé e gli altri sembra essere un aspetto fondamentale. Infine, la rilevanza clinica di questo lavoro consiste nell’idea di incrementare la disposizione al perdono in terapia al fine di agire indirettamente sulle variabili considerate (sentimenti positivi/depressione/ruminazione/ecc.). Interessante l’intervento del dott. Simone Gazzellini che introduce l’ipotesi di una difficoltà di intervento terapeutico su chi non riesce a perdonare e mostra ruminazione rabbiosa, dato che il tal caso vi sarebbero due scopi attivi in conflitto fra loro (da un lato la vendetta, dall’altro il perdono).

Il terzo intervento Il ruolo della corteccia prefrontale nei bias attentivi verso la minaccia: dati preliminari di uno studio tms
(di Laura Sagliano, Francesco Panico, Francesca D’Olimpio) riguarda uno studio che ha indagato il ruolo della stimolazione della corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) nell’elaborazione di stimoli minacciosi e, quindi, il suo effetto sui bias attentivi di facilitazione, disancoraggio ed evitamento. L’idea è partita dall’osservazione che diversi studi hanno dimostrato che una singola sessione di stimolazione magnetica transcranica (Transcranial Magnetic Stimulation; TMS) ad alta frequenza della corteccia dorsolaterale destra (dorsolateral prefrontal cortex; DLPFC) determina una difficoltà a inibire l’elaborazione delle informazioni negative. A tal proposito hanno utilizzato un paradigma attentivo di Posner con la presentazione di stimoli emotivi. Ciò che ha colpito gli autori di questo studio è che diversamente dalle evidenze empiriche che dimostrano il ruolo della DLPFC destra, nel loro studio la stimolazione della corteccia DL sinistra sembra essere associata a bias di disancoraggio, ossia dalla difficoltà a staccare l’attenzione dallo stimolo minaccioso. La presenza di questo bias in seguito a stimolazione della DLPFC sinistra suggerisce che, per aiutare a ridurre il bias di disancoraggio, tale area deve essere stimolata nelle prime fasi di elaborazione della minaccia con un paradigma di stimolazione online.

Gli autori spiegano tale risultato con l’idea che la DL sinistra avrebbe un ruolo nel controllare l’amigdala e ridurre l’attenzione rivolta a stimoli emotivi (disancoraggio da stimoli emotivi); in altre parole stimolando quest’area si attiverebbe un maggiore controllo e quindi una tendenza ad evitare tali stimoli. Un’altra osservazione interessante riguarda il fatto che le aree prefrontali sembrano essere implicate nei bias attentivi già nelle prime fasi di elaborazione dello stimolo.

Il quarto intervento, Bias attentivi verso la minaccia: effetto dell’induzione dello stato emotivo (di Laura Sagliano, Valentina Di Mauro, Marina Di Domenico, Caterina Cozzolino, Luigi Trojano, Francesca D’Olimpio) sulla stessa onda del terzo, ha indagato l’effetto dell’induzione dell’umore sui bias attentivi partendo dall’ipotesi secondo cui gli stati emotivi possono orientare e influire sui processi attentivi (facilitazione nell’individuazione di stimoli emotivi e difficoltà di disancoraggio da questi ultimi). In questo studio l’induzione emotiva consisteva nel chiedere ai soggetti di descrivere un evento in cui avevano avuto paura, uno in cui avevano provato felicità e una giornata tipo (gruppo di controllo neutro). Anche in questo caso i soggetti eseguivano un compito di Posner. Ciò che emerge è che i soggetti a cui era stata indotta paura mostravano un bias di disancoraggio maggiore rispetto al gruppo di controllo, e ciò si può interpretare con l’idea che lo stato emotivo di paura è associato ad una difficoltà a spostare l’attenzione da contenuti minacciosi. Questo dato conferma che l’attenzione visiva può essere influenzata dallo stato affettivo dell’osservatore coerentemente con altri studi (Jefferies et al., 2008), e sono un utile indicazione del modo in cui gli individui reagiscono in condizioni di percezione di minaccia.

Una delle osservazioni emerse durante la discussione riguarda il fatto che bastano 100 millisecondi per identificare una minaccia, la relatrice risponde citando studi che dimostrano che bastano anche 20 millisecondi per identificare stimoli sottosoglia. La spiegazione che viene data è che ci sarebbe una prima elaborazione limbica priva di consapevolezza e un successivo intervento della corteccia prefrontale. Inoltre, lo studio sottolinea che anche i soggetti normali possono mostrare bias attentivi in condizioni di induzione dell’umore o di stimolazione.

Il quinto intervento Il ruolo del criticismo percepito nelle strategie di regolazione emotiva e comportamentale del disturbo borderline di personalità (di Lo Sterzo E., Martino F., Bortolotti B., Monari M., Sasdelli A., Tedesco P., Manzo V., Menchetti M., Berardi D.) parte dalla teoria della Linehan secondo cui nel disturbo borderline la vulnerabilità emotiva e un ambiente familiare invalidante sarebbero associati ad una disregolazione emotiva e comportamentale. Per ambiente invalidante si intende un insieme di risposte estreme/inappropriate/imprevedibili al bisogno di comunicare le proprie esperienze. In particolare questo studio si focalizza sul ruolo del criticismo percepito nei processi di regolazione emotiva e comportamentale. Per criticismo percepito si intende il “ricorso ripetitivo al rimprovero. Il criticista vuole modificare e controllare il comportamento altrui tramite rimproveri in modo da stabilire ciò che è bene o male per l’altro”. Un aspetto importante del disturbo borderline è che non sembra essere rilevante quanto oggettivamente è critico l’ambiente familiare, piuttosto quanto la persona percepisce soggettivamente un certo livello di criticismo. Gli studi sul criticismo nel borderline osservano che un alto criticismo percepito si associa a più strategie di regolazione disfunzionali, coping maladattivo, evitamento, più sintomi borderline, maggiore disregolazione emotiva, e ad una maggiore tendenza a percepire invalidazione nelle relazioni significative attuali così come in quelle passate (Sturrock et al., 2009; Saver e Baer, 2010; Sturrock e Mellor, 2013). Sulla base di queste osservazioni lo scopo dello studio è di verificare se nei borderline il criticismo percepito predice l’aggressività verso di sé (autolesionismo) e verso gli altri; inoltre, se le difficoltà di regolazione emotiva sono un fattore che media la relazione tra criticismo e comportamenti problematici. I risultati mostrano che il criticismo percepito effettivamente predice in modo significativo la tendenza a mettere in atto comportamenti aggressivi e gesti autolesivi. Mentre le difficoltà di regolazione emotiva sembrano avere un ruolo parziale nella mediazione tra criticismo e comportamenti problematici. Inoltre, mentre il criticismo sembra avere un forte impatto sull’aggressività etero-diretta, l’autolesionismo sembra essere più influenzato dalle difficoltà di regolazione emotiva di fronte a situazioni interpersonali

Gli autori spiegano il fatto che il criticismo predice comportamenti problematici auto ed etero-diretti con l’idea che i borderline avrebbero una sensibilità/reattività emotiva più marcata rispetto a individui con altri disturbi, e sulla base di tale osservazione confermano l’idea della vulnerabilità biologica della Linehan. Tuttavia, la discussione successiva rispetto a quest’ultimo punto ha generato riflessioni importanti. Il prof. Mancini ha sottolineato che i risultati sembrano essere in linea con una falsificazione del modello della Linehan, proprio perché il criticismo sembra essere indipendente dalla disregolazione emotiva mentre è un fattore rilevante nello sviluppo di comportamenti aggressivi. Quindi, è possibile che nello sviluppo dei comportamenti problematici borderline non sia in gioco la disregolazione emotiva, piuttosto sembra avere più importanza l’ambiente e il criticismo percepito. Un’altra osservazione ha sottolineato che probabilmente la differenza osservata tra borderline e soggetti con altri disturbi possa essere riconducibile ad un differente livello di criticismo percepito tra i due gruppi, aspetto che rimane da indagare. Infine, l’intervento del dott. Gazzellini sottolinea l’importanza di spostare il focus dall’idea di un ambiente totalmente invalidante che influisce sullo sviluppo di problematiche di tipo borderline, alla possibilità che i pazienti borderline abbiano invece una percezione distorta dell’ambiente di appartenenza e delle figure significative, percependole come eccessivamente critiche rispetto a quanto lo siano oggettivamente.

L’ultimo intervento Soddisfazione Sessuale Percepita e Stati Emotivi Negativi: Studio Correlazionale (di Benedetti G., Boccasecca A., Maestri L., Loppo M., Pellegrino V., Pilia G., Rignanese M. e Caselli G) indaga il ruolo del rimuginio/ruminazione sul funzionamento sessuale indipendentemente da ansia e depressione. A tal fine è stato costruito uno strumento che misura il rimuginio, quindi le preoccupazioni a contenuto sessuale. E’ stato poi somministrato ad un campione di donne insieme ad altri test sul funzionamento sessuale, STAI, BDI, e ruminazione su contenuti diversi. Ciò che si osserva è che le preoccupazioni di tipo sessuale influiscono sulla soddisfazione sessuale, ad esempio hanno un effetto negativo come il calo del desiderio o ansia da prestazione, o ancora mancanza di spontaneità. Dalle analisi della regressione si osserva che sia l’ansia che il rimuginio a contenuto sessuale sono predittori del funzionamento e della soddisfazione sessuale. Una spiegazione rilevante dei risultati fornita dagli autori è che i risultati andrebbero a favore dell’importanza del contenuto del rimuginio, diversamente dalla corrente attuale che focalizza ad esempio l’intervento terapeutico solo sul processo di pensiero. Infatti, in questo studio emerge che se il rimuginio è su contenuti di tipo sessuale ciò influisce negativamente sulla soddisfazione e il funzionamento sessuale, diversamente da forme di rimuginio riguardanti altri contenuti.

VI Forum di Assisi sulla Formazione in Psicoterapia – Apertura e prima sessione relazioni

di Emanuele Rossi

Oggi, Venerdi 16 Ottobre 2015, ha preso il via ad Assisi, il VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia. Hanno aperto i lavori: Sandra Sassaroli, Francesco Mancini, Francesca Fiore e Giuseppe Romano con il discorso inaugurale di inizio Forum. Sassaroli ha sottolineato in primis gli scopi fondamentali di Assisi: incoraggiare gli allievi a fare ricerca, fornire agli studenti una vetrina per il proprio lavoro ed il proprio curriculum, strutturarsi come metodo per essere concreti e stare veramente sulle cose e sulla ricerca in modo serio, confrontandosi e informandosi sui progressi in psicoterapia. Mancini ha definito Assisi come una tradizione consolidata che cerca di portare avanti uno dei valori fondamentali della psicoterapia che è quello della ricerca, valore fondante del cognitivismo (in particolare il cognitivismo romano). Il valore della ricerca non solo dedicata agli esiti ma allo studio dei processi psicopatologici. La comprensione di tali processi è un punto di fondamentale importanza per rendere la psicoterapia non solo valida ma anche concorrenziale. Oggi assistiamo a un’importante innovazione in psicoterapia cognitiva: gli interventi di “terza ondata”, che danno enorme vantaggio a tutti i terapeuti in termini di strumenti, tecniche, capacità e possibilità di intervento. Tuttavia si corre il rischio di fare risaltare le tecniche rispetto alla clinica, senza considerare con sufficiente attenzione cosa accade nella mente del paziente. Questo rischierebbe di ridurre la psicoterapia al tecnicismo, pertanto il valore della tradizione di processo è oggi valido più che mai. Una considerazione importante, a tale proposito è l’importanza della clinica rispetto alla didattica stessa. Tutta la didattica della nostra tradizione cognitiva di scuole di psicoterapia è seriamente impegnata nella clinica, che rimane un punto di riferimento e di serietà professionale. Infine, conclude Mancini, tornando al senso di Assisi è anche un’importante occasione per poter stare insieme e tessere relazioni amicali e professionali, nel pieno valore della colleganza e amicizia tra colleghi.

Successivamente nella Sala Teatro ha avuto inizio la prima sessione di relazioni, dal titolo “Mindfulness e Terapia Sensomotoria (Chair: Andrea Gragnani; Discussant: Gianluca Mazzone), in cui sono stati presentati sei interessanti interventi sul tema.

Nella prima presentazione “Relazione tra attitudine mindful, emozioni e benessere psicologico (Ariano, Barucca, Brindisino, Camino, Carraro, Dettori, Garano, Iacucci, Massaroni, Valentini, Venga, Vitali, Fadda, Barcaccia; Relatore: Ariano Federica)” sono state indagate, attraverso una ricerca sperimentale (campione n=190), le correlazioni tra l’attitudine mindful, (come disposizione, indipendentemente dalla presenza di pratica formale) così come misurata dal FFMQ e depressione (BDI), ruminazione (RRS), rimuginio (PSWQ), emozioni positive e negative (PANAS), perdono (TFS e TRIM-18), sentimenti negativi verso se stessi e sentimenti positivi verso se stessi (FSCRS). Sono state inoltre indagate eventuali differenze tra “meditanti” (pratica formale) e “non-meditanti” nelle variabili psicologiche considerate. Le analisi dei dati hanno mostrato come l’attitudine mindful sia positivamente correlata alle emozioni positive (PANAS). Inoltre la sottoscala del FFMQ Osservare è correlata positivamente con la ruminazione (RRS) indicando che non basta semplicemente osservare un fenomeno per prenderne le distanze. Le sottoscale del FFMQ Descrivere, Agire consapevolmente, Non giudicare, Non reagire sono correlate in modo positivo con i sentimenti benevoli verso di sé del FSCRS (sottoscala “gentilezza verso se stessi”). L’attitudine mindful risulta invece negativamente correlata con le emozioni negative (PANAS), con l’eccezione, anche qui, della sottoscala del FFMQ “Osservare”, un dato interessante perché sembrerebbe indicare che il semplice osservare non è sufficiente per prendere distanza dalle emozioni negative, e anzi, il solo osservare potrebbe essere correlato anche a un’elevazione delle emozioni negative (cfr. Petrocchi e Ottaviani, 2015). Interessante inoltre che la componente della FFMQ Non giudicare sia quella più negativamente correlata con la depressione. Le sottoscale del FFMQ Descrivere, Agire consapevolmente, Non giudicare, Non reagire sono correlate in modo negativo con le sottoscale del FSCRS “Odio di sé” e “Inadeguatezza del sé”. Nel confronto tra meditanti e non-meditanti sono emerse infine differenze significative nei due gruppi. In linea generale i risultati della ricerca confermano i dati di letteratura sulla correlazione tra la disposizione mindful e alcune variabili di benessere psicologico. Nel corso della presentazione, sono state anche illustrate le possibili implicazioni per la psicoterapia dei risultati della ricerca.

Nella seconda presentazione “Mindfulness e neuroscienze: la pratica di Mindfulness e i suoi effetti sul cervello (Barucca, Ariano, Brindisino, Camino, Carraro, Dettori, Garano, Iacucci, Massaroni, Valentini, Venga, Vitali, Fadda, Barcaccia; Relatore: Barucca Marianna)” è stata proposta un’analisi della letteratura per individuare: 1) quali sono le aree e i circuiti cerebrali coinvolti nell’addestramento alla mindfulness (sistema corticale prefrontale, insula, sistema limbico); 2) quali sono i meccanismi mediante i quali la mindfulness agisce a livello cerebrale (regolazione attenzione, consapevolezza corporea, regolazione emotiva, cambiamento della prospettiva di sé); 3) a quali funzioni psicologiche corrispondono quelle aree cerebrali e quei meccanismi coinvolti (controllo top-down, auto-consapevolezza, modulazione delle emozioni); 4) in quali disturbi o problemi clinici quelle strutture, quelle funzioni e le pratiche di meditazione mindful risultano essere particolarmente rilevanti (DDAI, disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, abuso di sostanze).

Nella terza presentazione “Valutazione dell’impatto di un training di Mindfulness sulla formazione dei futuri psicoterapeuti (Amistadi, Borghetti, Consolati, Faranda, Minniti e Framba; Relatori: Consolati Michela e Faranda Raffaella)” partendo dai numerosi studi scientifici che dimostrano come la pratica di mindfulness risulta essere di beneficio allo psicoterapeuta (in relazione al suo benessere ed alle sue abilità nella relazione terapeutica), è stato proposto un progetto di ricerca sull’impatto di un training mindfulness su variabili relative alle capacità di mindfulness, sulle capacità di gestione emotiva, tendenza al rimuginio, autocompassione e capacità empatiche dei trainee in formazione presso la scuola di psicoterapia Studi Cognitivi (gruppo sperimentale: 22 studenti; gruppo di controllo: 22 studenti ; percorso MBCT: 4 incontri di 4 ore). I risultati dello studio (pur rivelando nel gruppo di controllo un peggioramento di alcune capacità di mindfulness) hanno mostrato che includere un percorso di mindfulness in tale contesto può favorire nei futuri terapeuti in formazione lo sviluppo di capacità di fondamentale importanza nel processo terapeutico. In particolare nel gruppo sperimentale si è evidenziato un miglioramento in tutte le scale sintomatiche e un aumento di gentilezza verso se stessi, accompagnata da una riduzione dell’iperidentificazione. Non sono stati infine riscontrati cambiamenti nelle capacità empatiche in entrambi i campioni, ambito che tuttavia anche in letteratura ha dato risultati discordanti.

Nella quarta presentazione “Contributo della psicoterapia sensomotoria alla TCC: una rassegna della letteratura esistente (Manca, Antonicelli, Arena, Cicchelli, D’Errico, Ferrante, Giannoccaro, Gigante, Greco, Lozito, Manca, Masciopinto, Meraglia, Natale, Palummieri, Ricchiuto, Stanisci, Ciolfi; Relatore: Marianna Barucca; Relatore: Manca Giorgia) è stato mostrato uno studio della letteratura prodotta in merito alla possibile integrazione di tecniche di terapia senso-motoria nelle pratiche di TCC. Per spiegare i sintomi fisici e le componenti psicologiche del trauma è stato fatto riferimento alle teorie di MacLean sul cervello trino (1985) e alla teoria polivagale di Porges (2001). Per una visione più completa dell’approccio sensomotorio è stato consultato il testo Trauma and The Body di Ogden, Minton e Pain (2006). La tesi finale suggerisce che l’integrazione di tutti e tre i livelli di elaborazione di un’esperienza (sensomotorio, emotivo e cognitivo ) è essenziale perché avvenga il recupero del trauma (Ogden et al., 2006). L’approccio sensomotorio, non necessitando che il paziente ricordi i dettagli del trauma per trattarne i suoi effetti e lavorando sulla codifica “non verbale” delle esperienze (Fisher, 2011), potrebbe divenire uno strumento quasi indispensabile soprattutto in quei casi in cui i ricordi traumatici di soggetti con PTSD non possono essere recuperati servendosi della componente linguistica (Nijenhuis et al., 2004). Professionisti che hanno utilizzato la terapia Sensomotoria riferiscono che essa è risultata efficace nella riduzione dei sintomi di PTSD ma, dato il suo fondamento teorico, può essere efficacemente utilizzata all’interno di qualsiasi approccio terapeutico per quei pazienti che presentano un arousal disregolato e una certa difficoltà nel porre attenzione e nel descrivere i propri stati interni (Tagliavini, 2011). Lo studio ha proposto infine la possibilità di integrare le tecniche senso-motorie in modelli esistenti di Terapia Cognitivo-Comportamentale, in modo da poter lavorare, di fronte ad un paziente traumatizzato, sulle due direzioni di elaborazione delle informazioni: “top-down”e “bottom-up”.

Nella quinta e ultima presentazione “Il mio corpo è la mia casa: la proposta di un protocollo integrato nel trattamento del trauma nei richiedenti asilo (Stellacci, Di Nino, Ciolfi; Relatore: Stellacci Antonella)” si inizia con una breve presentazione audiovisiva: un racconto, attraverso suoni ed immagini, dei vissuti traumatici dei richiedenti asilo. Stellacci dapprima fa riferimento a numerosi studi in materia, evidenziando come il trattamento del trauma richiede un’integrazione degli approcci top down e bottom up che sia culturalmente accettabile per i rifugiati (Crosby, 2013). Le tecniche della psicoterapia sensomotoria sono in linea con la proposta di Papadopoulus (2002) sull’assistenza ai rifugiati e sono culturalmente vicine alla modalità degli immigrati di condivisione di esperienze sfavorevoli.

Dal punto di vista pratico i richiedenti asilo giungono in Europa con vissuti traumatici (Ryan, Dooley, Benson, 2008). Dopo un logorante viaggio, l’arrivo presso il Centro Accoglienza Richiedenti Asilo (C.A.R.A.) rappresenta il passaggio tra l’affannosa ricerca di un posto sicuro e l’inizio del percorso di ricostruzione identitaria (Kalt, Hossain, Kiss, Zimmerman, 2013).

Alla luce del background teorico gli autori hanno proposto un protocollo per il trattamento del trauma in immigrati residenti in un C.A.R.A. Il lavoro è stato strutturato in 5 fasi. La prima fase consiste nell’individuazione precoce di soggetti con sintomi traumatici attraverso l’affiancamento dello psicologo al medico. Nella seconda fase si lavora sulla creazione di una relazione empatica (Accoglienza, Ascolto, Contenimento Emotivo e Comunicazione). La terza fase si realizza attraverso la psicoeducazione sul trauma e mediante interventi di psicoterapia sensomotoria finalizzati allo sviluppo di risorse somatiche per la stabilizzazione dei sintomi traumatici. Successivamente nella quarta fase, utilizzando tecniche cognitive comportamentali si lavora sulla ricostruzione narrativa esclusivamente del trauma migratorio e del suo impatto nella vita quotidiana. Infine la quinta fase si basa sulla pianificazione di progettualità future. La proposta rappresenta l’esigenza di promuovere la consapevolezza e l’azione in un campo, come quello del trauma migratorio, quasi del tutto trascurato, ma di attuale importanza considerando l’inarrestabile aumento dei flussi migratori in Italia.

Senza alcun dubbio un interessante prima sessione, che spaziando da emozioni e benessere psicologico al trauma nei richiedenti asilo, ha offerto un’interessante panoramica su molteplici aspetti di Mindfulness e Terapia Sensomotoria, inaugurando (e augurando a tutti) di vivere questo “VI Forum sulla Formazione in Psicoterapia” con apertura e consapevolezza, momento per momento.

Bibliografia

Crosby, S. (2013) Primary Care Management of Non–English-Speaking Refugees Who Have Experienced Trauma A Clinical Review JAMA. 2013;310(5):519-528.

Fisher, J. (2011). Sensorimotor approaches to trauma treatment. Advances in Psychiatric Treatment.

Kalt, A., Hossain, M., Kiss, L. & Zimmerman, C. (2013). Asylum Seekers, Violence and Health: A Systematic Review of Research in High-Income Host Countries. American Journal of Public Health.

Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano.

MacLean P.D. (1984). Evoluzione del cervello e comportamento umano: studi sul cervello trino. Einaudi, Torino.

Ogden P., Minton K., Pain C. (2006). Trauma and the Body: A Sensorymotor Approach to Psychotherapy. Ed. italiana: Il Trauma e il Corpo: manuale di Psicoterapia Sensomotoria, Istituto di Scienze Cognitive Editore, 2012.

Ogden, P., Minton, K., Pain, C. (2006). Trauma and the Body. A Sensorimotor Approach to Psychotherapy. New York: Norton.

Papadopoulos, R.K. (2002). Therapeutic Care for Refugees. No Place Like Home, London: Karnac. Tavistock Clinic Series (trad.it. L’assistenza terapeutica ai rifugiati. Nessun luogo è come casa propria,Edizione Magi, Roma, 2006).

Petrocchi, N., & Ottaviani, C. (2015). Mindfulness facets distinctively predict depressive symptoms after two years: The mediating role of rumination. Personality and Individual Differences.

Porges SW. (2001). The Polyvagal Theory: Phylogenetic substrates of a social nervous system. International Journal of Psychophysiology 42:123-146.

Ryan, D., Dooley, B., & Benson, C. (2008). Theoretical Perspectives on Post-Migration Adaptation and Psychological Well-Being among Refugees: Towards a Resource-Based Model. Journal of Refugee Studies, 21(1), 1-18.

Tagliavini G. (2011), Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma: il contributo clinico del Modello Polivagale e della Psicoterapia Sensomotoria, Cognitivismo Clinico, Semestrale a cura dell’Associazione di Psicologia Cognitiva e della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Vol.8, No. 1, 60-72, Pacini Ed.

III Forum sulla Formazione in Psicoterapia

Se è vero che le idee migliori sono proprietà di tutti, allora il III Forum sulla Formazione in Psicoterapia  (Assisi, 27 e 28 Marzo 2009) ha rappresentato un ottimo esempio di come si fa a costruire e divulgare il sapere.

Organizzata dall’Associazione di Psicologia Cognitiva e dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva, in collaborazione con Studi Cognitivi, la due giorni di Assisi si è caratterizzata per la vivacità del dibattito, la qualità scientifica delle relazioni e l’autentico interesse di ciascuno per il lavoro dei colleghi.

Il senso dell’iniziativa era legato all’obiettivo di suscitare negli allievi una maggiore consapevolezza del legame tra clinica e ricerca in psicoterapia e prima ancora tra gli assunti della psicologia sperimentale dei processi normali e l’insorgenza di sofferenza psichica, traguardo largamente raggiunto, così come testimoniato dai lavori presentati. In questo senso, possiamo dire di aver conseguito l’obiettivo che la scuola continua a perseguire da anni e che vede impeganti direttore e didatti e cioè privilegiare metodi di insegnamento che riconoscano grande valore alla conoscenza e alla ricerca scientifica, proposito che negli anni è stato realizzato anche grazie all’organizzazione di congressi, giornate di studio e seminari che hanno visto dibattere alcuni tra i più importanti protagonisti della psicologia e della psicoterapia internazionale.

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