Terapia dell’esposizione: ricerca, teoria e clinica

di Chiara Bellia
a cura di Barbara Basile

Nel mondo della psicologia spesso non c’è comunicazione tra gli scienziati che fanno ricerca in ambiti diversi, sembra quasi che la ricerca funzioni per compartimenti stagni; esiste invece un’esigenza sempre più forte di integrare le conoscenze. Gli studi condotti sull’efficacia delle terapie sono un esempio calzante per capire questo concetto: da un lato, infatti, permettono di “adeguare” le teorie se ci si accorge che un fenomeno non funziona nel modo ipotizzato; dall’altro, consentono di sviluppare terapie maggiormente efficaci per i pazienti. Dunque ciascun ambito può essere modulato sulla base degli altri. Questa crescita scientifica non si verificherebbe se non esistessero delle solide teorie sui processi psicologici di base, come l’attenzione, la memoria, l’apprendimento e così via. I processi che stanno alla base della sofferenza psichica, infatti, non sono diversi da quelli “normali”, ma cambiano solo in termini “quantitativi”.

La terapia dell’esposizione, utilizzata per curare l’ansia, è l’esempio lampante di questo processo di integrazione. Secondo gli psicologi l’ansia, come tutte le emozioni, ha una funzione adattiva e può essere utile in tante circostanze ma, se è eccessiva e persistente nel tempo, innesca un circolo vizioso all’interno del quale si rischia di rimanere bloccati. L’ansia, infatti, porta ad evitare le situazioni temute e, paradossalmente, è proprio tale evitamento a rinforzarla. La teoria dell’elaborazione emotiva (Emotional Processing Theory – EPT) spiega la psicopatologia dei disturbi d’ansia individuando l’esistenza della “fear structure” (la struttura della paura), una struttura cognitiva situata nell’area cerebrale della memoria. All’interno di tale struttura sono presenti una vasta quantità di informazioni sugli stimoli temuti e sul significato ad essi attribuito. Tale struttura si attiva ogniqualvolta ci si confronta con la propria paura; quest’ultima diventa patologica se l’individuo percepisce erroneamente uno stimolo come pericoloso. Per esempio, una paziente con disturbo da stress post-traumatico (PTSD), vittima di abuso, potrebbe aver paura di rimanere con qualcuno dentro ad una stanza perché interpreta tale situazione come potenzialmente pericolosa anche se, realisticamente, non lo è affatto. La paziente rivive tutte le sensazioni legate al trauma come se stesse accadendo nel presente e rappresenta se stessa come una persona incompetente, perché pensa che la sua reazione significa che è una persona debole. Tali percezioni erronee contribuiscono a mantenere vivi i sintomi del PTSD. Così facendo, la paziente non si dà l’occasione di poter elaborare emotivamente ciò che è successo e continua a succedere. La terapia dell’esposizione è efficace poiché consente al paziente di acquisire nuove informazioni “correttive”, che disconfermano le sue paure, attraverso un processo di elaborazione emotiva. Quando il paziente  si espone agli stimoli ansiogeni, innanzitutto attiva automaticamente la propria “fear structure“; quando si accorge che non accade nulla di quanto temuto, comprende che le sue paure sono irrazionali. A questo punto, la nuova esperienza viene “incorporata” e memorizzata nella struttura. Dunque il principale meccanismo di cambiamento sottostante la terapia è la cosiddetta “informazione di disconferma“. Molte ricerche hanno confermato che questa terapia può essere usata anche per curare la depressione e il disturbo da gioco d’azzardo; dunque ha un’applicabilità più generale che favorisce una lettura degli stimoli maggiormente realistica e che migliora la qualità di vita dei pazienti.

Riferimenti bibliografici:

Foa, E.B., & McLean, C.P. (2016). The Efficacy of Exposure Therapy for Anxiety-Related Disorders and Its Underlying Mechanisms: The Case of OCD and PTSD. Annual Review of Clinical Psychology, 12, 1-28.

Bambini silenziosi

di Monica Mercuriu

Aspetti controversi del mutismo selettivo

Il mutismo selettivo è un disturbo legato all’ansia, caratterizzato dall’incapacità del bambino di parlare in determinate situazioni, le cui cause non sono ritardo mentale, deficit neurologico, linguistico o uditivo.

Questo tipo di disturbo è caratterizzato dall’uso appropriato della lingua parlata in alcune situazioni, con una totale e persistente assenza dell’uso del linguaggio altrove; molto spesso il bambino parla liberamente a casa mentre è muto a scuola e in altri contesti sociali.

Nel 1934, lo psichiatra infantile svizzero Moritz Tramer descrisse il caso di un bambino di otto anni che si rifiutava di parlare in determinate situazioni e introdusse l’espressione “mutismo elettivo”, che intendeva sottolineare la mancanza di contatto verbale, come una scelta consapevole delle persone affette da questo disturbo.
Negli anni ’90 si sono sviluppate in letteratura molte teorie al riguardo, alcune delle quali sottolineavano un atteggiamento di insubordinazione e di testardaggine delle persone con mutismo elettivo, o mettevano in evidenza la presenza  di un comportamento manipolatorio e di controllo da parte di genitori con stile di parenting iperprotettivo.

Nelle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV, DSM-IV-TR e DSM-5), l’espressione “mutismo elettivo” è stata sostituita da “mutismo selettivo” per evidenziare come il fenomeno del mutismo, che consiste nella selettività del parlato che si applica solo ad alcuni (selezionati) e non a tutti gli ambienti sociali, non può essere combinata con la manipolazione consapevole dell’ambiente agita. Inoltre, è stato rimosso dalla sezione dedicata ai “Disordini dell’infanzia e dell’adolescenza” e inserito in quella relativa ai “Disturbi d’ansia”. Ciò ha comportato due importanti cambiamenti in termini d’interpretazione dei sintomi del mutismo selettivo: da una parte evidenziando l’eziologia ansiosa del disturbo e dall’altra aprendo la possibilità alla diagnosi di mutismo selettivo anche negli adulti, come speciale categoria dei disturbi d’ansia.

Il mutismo selettivo è un disturbo poco diffuso, con una prevalenza che varia tra lo 0.03 e l’1%, e sembra avere una frequenza maggiore nelle femmine rispetto ai maschi con rapporto di 2 a 1. L’età dell’esordio varia dai 2 ai 6 anni, dopo una produzione del linguaggio nella norma, e viene solitamente diagnosticato dopo l’inserimento dei bambini nella scuola elementare, anche se è molto probabile che si sia già manifestato negli anni della scuola materna.

Gli studi di follow-up sono limitati ma indicano che una parte consistente di questi bambini ha problemi di comunicazione persistenti, sintomi nello spettro dell’ansia e bassa auto-efficacia.

I dati epidemiologici indicano, inoltre, che nei bambini con sintomi di mutismo selettivo si riscontrano frequentemente criteri per altri disturbi mentali, come depressione, disturbo di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo dissociativo o disturbi dello spettro autistico.

Nel 2000, Hanne Kristensen sottolineava come disturbi d’ansia non costituiscono la comorbidità dominante osservata in pazienti con mutismo selettivo. Secondo la psicoterapeuta danese, evitare il contatto verbale poteva essere un meccanismo per “mascherare” le difficoltà dovute anche alla presenza di vari deficit evolutivi o neurocognitivi: la studiosa affermava che gli effetti non adeguati della terapia possono derivare dal fatto che le terapie più comunemente utilizzate (farmacologica e comportamentale) per questo disturbo agiscono prevalentemente sulla componente ansiosa del disturbo e non intervengono sulle componenti associate a deficit di elaborazione uditiva, deficit neurocognitivi o deficit cognitivo-sociali, che possono presentarsi in un numero considerevole di bambini. Anche secondo gli studiosi israeliani Yael Henkin e Yair Bar-Haim, i deficit di elaborazione uditiva dovrebbero essere presi in considerazione nella diagnosi e nel trattamento del mutismo selettivo.

Allo stato attuale della ricerca sulla patogenesi e la psicopatologia di questo disturbo, il concetto di mutismo selettivo come tipologia di fobia sociale all’interno dello spettro del disturbo d’ansia è molto convincente (nel DSM-5, il mutismo selettivo viene interpretato come una forma estrema di fobia sociale).
All’interno di questa categoria, è possibile rintracciare un gruppo non omogeneo di disturbi diversi per eziologia e decorso. Tra gli aspetti psichiatrici del disturbo, la componente dell’ansia appare prioritaria, anche se è spesso possibile osservare un’importante presenza di comorbidità con deficit dello sviluppo o disfunzione dell’elaborazione uditiva che ne determinano un decorso tipico e ostacolano, a volte, l’efficacia delle terapie ad oggi più comunemente utilizzate per il trattamento del disturbo.

Per approfondimenti :

Holka-Pokorska1, A. Piróg-Balcerzak, M. Jarema. The controversy around the diagnosis of selective mutism – a critical analysis of three cases in the light of modern research and diagnostic criteria . Psychiatr. Pol. 2018; 52(2): 323–343

Quando il cambiamento si riflette nella neuro plasticità: uno studio sul disturbo d’ansia sociale

di Annalisa Bello

Il corpus di evidenze sperimentali, attestanti l’efficacia della terapia cognitivo comportamentale (TCC), si arricchisce ulteriormente con la pubblicazione di un recente studio su Transational Psychiatry (http://www.nature.com/tp/journal/v6/n2/full/tp2015218a.html). Nella fattispecie, gli autori documentano una normalizzazione dell’attività neurale a livello dell’amigdala in riposta al trattamento CC in pazienti con disturbo d’ansia sociale. L’indagine dei cambiamenti cerebrali associati alla TCC viene investigata in maniera peculiare attraverso l’esame della relazione tra la neuroplasticità strutturale, (volume della materia grigia), e i cambiamenti funzionali (dipendenti dal livello di ossigenazione del sangue- segnale BOLD). I 26 pazienti con Disturbo d’Ansia Sociale erano assegnati in maniera randomizzata alle due condizioni sperimentali, di cui una prevedeva il trattamento cognitivo comportamentale; mentre, l’altra constava di un trattamento volto a modificare il bias attenzionale (Attention Bias Modification Treatment, ABM). Entrambi i trattamenti venivano rilasciati nella modalità on line (internet delivery). I partecipanti allo studio erano, inoltre, valutati da un clinico-estraneo alle ipotesi sperimentali- attraverso la somministrazione di strumenti indaganti, rispettivamente, la condizione psichica (Clinical Global Impression-Improvement Scale, CGI) e il disturbo d’ansia sociale (Liebowitz Social Anxiety Scale, LSAS), sia prima che dopo il rispettivo trattamento. Il trattamento CC durava 9 settimane; mentre il ABM aveva una cadenza bisettimanale per un durata di 4 settimane. Leggi tutto “Quando il cambiamento si riflette nella neuro plasticità: uno studio sul disturbo d’ansia sociale”