Che cos’è la felicità

di Carlo Buonanno

Topolino, Faust e la promozione di emozioni positive in età evolutiva

Se vi chiedessero di scegliere tra l’elisir di lunga vita e la felicità, cosa scegliereste? Io avrei scelto Mickey Mouse. Topolino non è un bambino, non è sposato e non ha nemmeno uno zio ricco. Pippo, fedele e stralunato come Pluto, è l’amico che, maldestro, gli guarda le spalle. Topolino è un adolescente e non sarà mai nonno, è integerrimo, ha l’anima del detective delle cause impossibili e aiuta il commissario Basettoni a incastrare Gamba di Legno o Macchia Nera.
Topolino è felice, ma ha lo sguardo offuscato e lotta con i demoni per una somma virtù. Ma che cos’è che lo rende così sorridente? È davvero felice? Ed è possibile diffondere la felicità come un contagio benefico?
Recentemente è stata pubblicata una ricerca condotta su un campione di adolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), che nel titolo promette di rispondere in parte alla domanda. Lo studio è stato realizzato da Caterina Villirillo, Claudia Perdighe, Elena Cirimbilla e Gilda Franceschini, psicologhe e psicoterapeute della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma. Si tratta di uno studio pilota che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un protocollo sperimentale di promozione del benessere, che mira a migliorare la qualità e la quantità delle relazioni interpersonali negli adolescenti con DSA. Il protocollo è nato da una duplice riflessione. Le relazioni interpersonali soddisfacenti, in particolar modo con i pari, hanno un ruolo critico per la felicità in età evolutiva e, dunque, anche nei ragazzi con DSA; nell’80% dei casi, i ragazzi con DSA manifestano problematiche di tipo relazionale, laddove la presenza di un buon supporto sociale è un fattore di protezione per la salute mentale. Ma di quale felicità si parla? La felicità intesa come “eudemonia”, vale a dire connessa a una valutazione globale di sé come persona virtuosa e che vive in linea con i propri valori morali. Proprio come Topolino.
Anche Faust, insidiato da Mefistofele e guardato da Dio con ammirazione per lo stesso motivo, supera i limiti della conoscenza, conducendo una vita dedita allo studio e alla virtù. Questa è una felicità che ha uno scopo, motore della condotta individuale e fondamento della morale. Non una felicità effimera, infantile, che si consuma rapidamente nell’attimo in cui si scioglie in bocca il sapore di una caramella, ma una felicità pratica e impegnata. In questi termini, la felicità coincide con uno stato di benessere e soddisfazione che si esprime sia nella presenza di emozioni positive sia, soprattutto, nel buon funzionamento psicologico, inteso come capacità di mettere in atto quotidianamente comportamenti che favoriscono il benessere e riflettono i propri valori. Contro ogni pregiudizio, questo tipo di felicità sembra essere tipico degli adolescenti, mentre nei bambini la felicità è edonica, legata agli aspetti concreti del piacere quali il gioco, le attività di gruppo, il numero di amicizie, le frequenze delle visite agli amici. E a proposito di praticità, gli ingredienti che in età evolutiva correlano con la felicità si dispongono lungo una gerarchia concreta che vede all’apice le relazioni interpersonali con i coetanei e poi l’autonomia, la competenza, avere una buona autostima, avere un sistema di valori da perseguire, avere un locus of control interno. Il protocollo sviluppato dalle autrici è stato realizzato assemblando tecniche di tipo cognitivo-comportamentale standard con procedure mutuate dall’Acceptance and Commitment Therapy. Il protocollo si sviluppa in dieci sedute a cadenza settimanale, più due di follow-up a cadenza quindicinale e si divide in tre fasi:

  • La prima fase, “Conosco me stesso e i miei valori”, è dedicata alla promozione della consapevolezza dei punti di forza e di debolezza del soggetto e alla condivisione di obiettivi da raggiungere in riferimento ai propri valori.
  • La fase centrale, “Mi impegno a perseguire i miei valori e i miei obiettivi”, è focalizzata sull’individuazione di micro-obiettivi da raggiungere settimanalmente, allo scopo di realizzare gli obiettivi stabiliti nella fase precedente. In questa fase, una parte importante è dedicata sia alla ristrutturazione di eventuali credenze disfunzionali, sia all’acquisizione di abilità assertive.
  • La fase conclusiva, “Io più abile socialmente e consapevole delle mie risorse”, consiste nella valutazione degli obiettivi raggiunti e nella generalizzazione delle competenze apprese.

Dall’analisi qualitativa dei dati pre e post-trattamento emerge una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione rilevati nella fase di pretrattamento, un aumento dell’autostima e dell’autoefficacia e un aumento della qualità e della quantità dei rapporti interpersonali. Inoltre, dai risultati è emerso un miglioramento significativo nel rendimento scolastico. Le abilità acquisite sono confermate anche al follow-up di un mese. In definitiva, pare che l’adolescenza sia la vera età della ragione e la felicità è roba terribilmente impegnata. Tra un’indagine di Topolino e la dura ricerca di Faust, oltre i limiti della conoscenza.

Per approfondimenti

Villirillo, C., Perdighe, C., Cirimbilla, E., & Franceschini, G. (2021). Promuovere la felicità: uno studio pilota con un campione di ragazzi con Disturbo Specifico di Apprendimento. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, Italian Journal of Cognitive and Behavioural Psychotherapy, 27(1) pp 17-44.

Fare i compiti: bambini e genitori

di Stella Totino

Dai circoli viziosi ai circoli virtuosi: l’autoefficacia

Sin dalle prime fasi di apprendimento può capitare, per diversi motivi, che il momento dei compiti si trasformi in un vero e proprio incubo per genitori e figli. Il bambino che fatica a svolgere una determinata attività, esattamente come l’adulto, sarà meno attratto da quel compito perché lo porterà a non sentirsi capace.

Si possono presentare, sin dai primi giorni di scuola primaria, dei circoli viziosi che se non interrotti accompagneranno figli e genitori per tutto il lunghissimo percorso scolastico.

Vediamo cosa può succedere: è arrivato il momento di fare i compiti, bisogna sbrigarsi perché dopo bisogna andare in piscina, a basket, a calcio o semplicemente bisogna giocare. Nel momento in cui viene invitato dal genitore a prepararsi per fare i compiti, il bambino sta facendo un gioco che sicuramente lo interessa maggiormente, pertanto cercherà di evitare quell’impegno giornaliero, tendendo a procrastinare, dicendo di non avere scritto i compiti, di non avere il libro, facendo i “capricci”, piangendo. Allo stesso tempo, il genitore sperimenta un “cocktail” di emozioni, dall’ansia al senso di colpa, fino alla rabbia, che non lo aiuteranno a interrompere tale circolo. I “virus mentali”, più frequentemente riportati sono: “non riusciremo mai a finire tutto prima di uscire e quando torneremo sarà pure stanco e non li finirà”; “le insegnanti penseranno che non ci interessiamo a nostro figlio e che per noi la scuola non è importante”; “continuando così non lo aiuterò ad avere un futuro”; “non può mica fare come gli pare, non sono a sua disposizione tutto il giorno, i compiti si fanno quando lo dico io”.

A lungo andare, queste situazioni rischiano di logorare il rapporto genitori-figli e di compromettere il rapporto con lo studio.

Per interrompere tale circolo può essere importante incrementare l’autoefficacia dei figli e dei genitori. Lo psicologo canadese Albert Bandura nel 1986 ha definisce l’autoefficacia come la “fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Secondo lo stesso autore tale concetto si fonda su 4 tipologie di esperienze:

  1. Esperienze dirette: che possono essere di successo o insuccesso. Nel nostro caso, sarebbe importante incrementare le occasioni di successo nello svolgimento dei compiti. Uno strumento molto utile in tal senso è la pianificazione sia della giornata, in modo che sia facilmente prevedibile, sia delle attività che devono essere svolte, sia dei materiali necessari.
  2. Osservare le esperienze degli altri genitori: ci può aiutare a modificare i virus mentali, passando da “non posso farcela” a “se ci sono riusciti gli altri posso riuscirci anche io”.
  3. Persuasione verbale: sia attraverso apprezzamenti e rassicurazioni provenienti dall’esterno da persone ritenute autorevoli, sia attraverso le proprie convinzioni. Nel primo caso potrebbe aiutare un rinforzo da parte degli insegnanti: “Vedo che state lavorando sempre meglio, si vede che vi state impegnando”. Nel secondo: “Ce la faremo, con la calma e le giuste strategie andrà sempre meglio”.
  4. Gestione del vissuto emotivo, compresi gli stati fisiologici che accompagnano l’emozione. Nella gestione dei compiti, ciò può avvenire con il riconoscimento del proprio stato emotivo e dello stato emotivo dell’altro, l’accettazione e la gestione.

Più genitori e figli si sentiranno competenti, meglio affronteranno il momento dei compiti, più sperimenteranno successo ed emozioni positive più tale momento diventerà piacevole.

Soprattutto quando tutto questo si accompagna a storia personale di insuccesso scolastico o a una condizione di disturbo del neurosviluppo, può essere utile affidare tale compito a un tutor e/o a un percorso di psicoterapia che incrementi l’autoefficacia percepita, il riconoscimento, l’accettazione e la gestione delle emozioni.

Per approfondimenti:

Bandura A. (2000), Autoefficacia: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson.

Moè A. e Friso G. (2014), L’ora dei compiti. Come favorire atteggiamenti positivi, motivazione e autonomia nei propri figli, Trento, Erickson.

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Adulti e disturbi di apprendimento

di Stella Totino

Il ruolo del terapeuta nell’individuazione dei disturbi specifici di apprendimento (DSA) in pazienti adulti

I disturbi specifici di apprendimento (DSA) sono disturbi evolutivi che si manifestano durante l’età scolare e che, pur modificandosi durante lo sviluppo, accompagnano l’individuo nell’intero arco di vita. Le caratteristiche essenziali riguardano le difficoltà di lettura, scrittura e/o calcolo in persone con abilità cognitive nella norma.

Molto spesso, questa discrepanza, porta l’individuo a giungere alla diagnosi di DSA tardivamente.

Questo può generare false credenze che possono portare la persona a non esprimere il suo massimo potenziale, a non credere nelle proprie capacità, a essere insicuro e a sviluppare disturbi emotivi.

Talvolta, il campanello d’allarme, si può accendere proprio durante un percorso di psicoterapia, quando il paziente riporta le proprie sofferenze emotive, che non si esauriscono terminata la scuola, perché, se non adeguatamente gestite, limitano la persona nella propria quotidianità.

Alcune credenze e strategie di evitamento possono portare la persona a rinunciare a diverse esperienze di vita per evitare il fallimento: un paziente non scriveva bigliettini di auguri per paura di fare errori ortografici ed essere, quindi, umiliato e deriso. Non solo: veniva accusato dalla sua compagna di non scriverle neppure un bigliettino di auguri. Un’altra paziente non partecipava ai giochi di società con gli amici se sapeva che potevano esserci domande di matematica, per timore che potessero pensare che fosse stupida. Prima di giungere in terapia, tale timore era diventato invalidante: non chiedeva informazioni quando andava a iscriversi in palestra, quando entrava in un negozio o si era persa per strada e aveva bisogno di essere accompagnata dai familiari, che si sostituissero a lei nel prendere informazioni. Il tema che accomunava tali esperienze era il timore di essere giudicata come una persona non intelligente.

Sin da piccoli, la scuola e la società ci portano a credere che andare bene a scuola, saper leggere, scrivere e calcolare correttamente siano sinonimo di intelligenza: se chiediamo a un bambino chi è il compagno di classe più intelligente, molto probabilmente ci dirà il nome del bambino che ottiene voti più alti degli altri.

Con adolescenti e adulti che in terapia portano temi legati al timore di non essere capaci, di non farcela, che ci raccontano percorsi scolastici caratterizzati da frequenti insuccessi, occorre prestare attenzione ai racconti provenienti dal passato approfondendo se ricordano di aver fatto fatica a imparare le tabelline, i mesi dell’anno, i giorni della settimana, i verbi o se, per esempio, quando dovevano leggere a voce alta provavano a rifiutarsi o manifestavano forte disagio. Nel momento in cui terapeuta e paziente arrivano a ipotizzare un possibile disturbo specifico di apprendimento alla base delle sofferenze è molto utile esplorare le emozioni relative a questo momento che possono variare dal sollievo allo sconforto e proseguire con l’invio a un esperto nella valutazione di questi disturbi in età adulta.

Una corretta valutazione necessita di una conoscenza delle caratteristiche del disturbo, al fine di effettuare una approfondita storia clinica e l’uso di strumenti clinici adatti all’età di riferimento.

Giunti alla diagnosi occorrerà, per esempio, procedere con una ristrutturazione cognitiva, tecnica che in psicoterapia permette di mettere in discussione le convinzioni disfunzionali del paziente così strutturatesi.

Per approfondimenti

Consensus Conference (2011), Consensus conference sui DSA dell’Istituto Superiore di Sanità, Ufficio per le Linee Guida, https://www.aiditalia.org/Media/Documents/consensus/Cc_Disturbi _Apprendimento.pdf

Foto di cottonbro da Pexels

Motivazione e dislessia

di Emanuela Pidri

I dislessici hanno un diverso modo di apprendere ma imparano come tutti gli altri

Il grado di difficoltà di un bambino dislessico può essere influenzato da fattori emotivo-relazionali come la motivazione. L’assenza, anche parziale, della spinta motivazionale verso la lettura e verso la scrittura ostacola le capacità attentive e di memoria a breve e a lungo termine. Il bambino demotivato ha scarsa tolleranza verso le frustrazioni per cui, di fronte all’insuccesso, spesso tende a non impegnarsi per risolvere il problema ma reagisce con il più totale disinteresse.

Secondo lo psicologo canadese Albert Bandura, è fondamentale agire sull’autoefficacia, cioè sull’insieme di aspettative che l’individuo nutre nei confronti di se stesso. Il soggetto, infatti, si impegnerà in un’attività in cui pensa di poter riuscire dove ritiene che il suo impegno possa essere positivamente riconosciuto, mentre non dedicherà sforzi in qualcosa in cui è convinto di non poter riuscire. A svolgere un ruolo determinante in questo processo è il locus of control, cioè la tendenza di ognuno ad attribuire a fattori esterni o interni i propri successi o insuccessi. Il bambino che attribuisce i suoi insuccessi a locus interno, attribuendo i pochi successi a locus esterno, sarà altamente demotivato, in quanto convinto che il suo impegno non possa migliorare la sua condizione. Ecco perché, iniziare un percorso di potenziamento, proponendo attività a lui accessibili, risulta importante per accrescere la sua autostima e quindi la sua motivazione. Il bambino dislessico è un bambino che ha alle sue spalle una storia scolastica costellata da insuccessi, perché non riconosciuto in tempo e quindi considerato troppo a lungo svogliato, pigro, disattento. Spesso si sarà sentito dire che non si impegna abbastanza, che dovrebbe fare più esercizio e avrà osservato tutti i suoi compagni procedere bene in un attività che a lui proprio non riesce. Questo può comportare atteggiamenti di fuga non solo fisica, come darsi malato o chiedere continuamente di uscire dall’aula, ma anche cognitiva, cioè pensare ad altro durante la lezione, evitando il più possibile di ascoltare l’insegnante e rendersi invisibile. Spesso tutto ciò si traduce in comportamenti disturbanti per la classe e molti dei bambini dislessici vengono scambiati per iperattivi o bambini poco maturi, con il rischio di ritardarne la diagnosi e quindi l’inizio di specifici interventi mirati al recupero. Anche l’ansia altera molto le prestazioni dell’individuo, per cui il bambino dislessico, con scarse capacità di lettura, posto in una situazione ansiogena, avrà performances ancora inferiori alle sue reali potenzialità. L’insuccesso prolungato provoca scarsa autostima e, dalla mancanza di fiducia nelle proprie possibilità, scaturisce un disagio psicologico che può sfociare in un’elevata demotivazione all’apprendimento, in manifestazioni emotivo-affettive particolari (quali la forte inibizione, l’aggressività, gli atteggiamenti istrionici di disturbo alla classe) e, in alcuni casi, nella depressione. Anche in famiglia, la maggior parte dei bambini dislessici si trova a vivere una situazione difficile.

Per molti genitori la scuola è importante e viene prima di tutto il resto, con la conseguenza che di fronte a qualche difficoltà scolastica, si dimenticano tutte le altre abilità che potrebbe avere il bambino. Così inizia una storia fatta di punizioni, esercizi estenuanti per il recupero, talvolta continui cambi di istituto scolastico. Le difficoltà a scuola, l’incapacità degli altri di riconoscerle e di individuare stati d’animo a esse riconducibili, possono comportare grave emarginazione sociale e isolamento. Di fronte a un bambino con difficoltà di apprendimento diagnosticate, la scuola deve redigere un Piano Didattico Personalizzato, in cui vengono indicate le strategie di personalizzazione educativa e le misure compensative e dispensative agenti su autostima, iniziativa personale e fiducia in sé.  I dislessici hanno un diverso modo di apprendere ma imparano come tutti gli altri.

Per approfondimenti:

BANDURA A. (2007). Autoefficacia, teorie ed applicazioni. Fabbri, Milano

BIANCARDI A. E MILANO G. (1999). Quando un bambino non sa leggere. Vincere la dislessia e i disturbi dell’apprendimento. Rizzoli, Milano

CORNOLDI C. (1999). Le difficoltà di apprendimento a scuola. Il Mulino, Bologna

HUNTINGTON DD. E BENDER W.N. (1993). Adolescents with learning disabilities at risk? Emotional well being, depression, suicide. Journal of learning disabilities, 26 pp. 159-166

MEAZZINI P. (2002). La lettura negata ovvero la dislessia e i suoi miti. Guida al trattamento degli errori e delle difficoltà di lettura in cattivi lettori. Franco Angeli, Milano

STONE W. L E LA GRECA A. (1990). The social status of children with learning disabilities a reexamination. Journal of learning disabilities, 23 pp. 33-38

ZAPPATERRA T. (2012). La lettura non è un ostacolo. Scuola e DSA. Edizioni ETS, Pisa

ZOCCOLOTTI et al (2005). I disturbi evolutivi di lettura e scrittura. Carocci, Roma

Il mondo in prima persona

di Niccolò Varrucciu

Le capacità metacognitive nei disturbi dello spettro autistico

C’è un robusto corpus di ricerche che mostra sostanziali differenze cognitive tra persone affette da Disturbi dello Spettro Autistico (DSA) ad alto funzionamento e persone a sviluppo tipico. L’espressione “differenze cognitive” è preferita al più comune termine “deficit” perché si vuol evidenziare una diversità nei processi e non una mancanza di abilità.

Tre delle aree in cui si rilevano le differenze maggiori sono: il funzionamento esecutivo, i  processi di elaborazione delle informazioni orientati al dettaglio e la consapevolezza di sé, concetto declinabile in molte aree della vita della persona fra cui la metacognizione.

La Teoria della Mente (TdM) è la capacità d’inferire stati mentali come emozioni, intenzioni, desideri e credenze, e di utilizzare questi prodotti mentali per predire, interpretare e spiegare azioni e comportamenti. Perché le capacità metacognitive siano completamente efficienti, l’attribuzione di stati mentali deve riguardare se stessi (prima persona) e gli altri (terza persona), attività mediate da processi differenti e che implicano conoscenze diverse. Nello specifico, la TdM comprende la valutazione di prim’ordine (inferenza di stati mentali su altri) e di second’ordine (inferenza degli stati mentali altrui su una terza persona); tali inferenze possono essere effettuate partendo da una posizione egocentrica (in relazione al proprio sè) o allocentrica (indipendenti dal sé).
Questa complessità ha implicazioni di grande portata, compreso l’uso di questionari self-report nel lavoro clinico e di ricerca. Leggi tutto “Il mondo in prima persona”

Le emozioni nel bambino con Disturbo Specifico dell’Apprendimento

di Laura Pannunzi

Per non andare incontro a problematiche psicologiche di tipo “internalizzante” o “esternalizzante”, è fondamentale capire quale valore il bambino attribuisce al proprio stato d’animo

Ricevere una diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA), soprattutto nei primi anni di scuola, solitamente rappresenta un evento inaspettato e critico per i bambini e può esporli a difficoltà cognitive, emotive e motivazionali.
È il caso di Elena, dodici anni, che ha ricevuto diagnosi di DSA in quinta elementare. Sebbene gli interventi riabilitativi abbiano parzialmente ridotto i deficit sul piano accademico, Elena mostra difficoltà a frequentare la scuola, tende a evitare le verifiche e inizia a evidenziare un atteggiamento sempre più ritirato e schivo nei confronti dei compagni. Eppure Elena sa di aver studiato molto. Allora come mai tende a comportarsi così? Cosa può rendere ragione della sua condotta?
La letteratura scientifica riporta molte ricerche che mostrano le possibili correlazioni e comorbilità tra Disturbi Specifici dell’Apprendimento e disturbi emotivi, ma non vi sono ancora studi in grado di definire le relazioni di tipo causale tra disturbo e problematiche emotive specifiche.
All’interno della psicopatologia dell’età evolutiva, le problematiche internalizzanti” riguardano sintomi emozionali connessi ad ansia, paura, vergogna, bassa autostima, tristezza e depressione, mentre quelle “esternalizzanti” si riferiscono  a comportamenti caratterizzati da aggressività, distruttività, difficoltà attentive, impulsività, iperattività e azioni di tipo delinquenziale. Ma quali sono le ragioni per cui un bambino con DSA può andare incontro allo sviluppo di una problematica di tipo internalizzante rispetto ad una esternalizzante? Leggi tutto “Le emozioni nel bambino con Disturbo Specifico dell’Apprendimento”