Gli occhiali dei bambini

Verso una visione bambino-centrica

A cura di Elena Cirimbilla

“Mio figlio non vuole andare a scuola, dice che ha paura. Io ho cercato in tutti i modi di trasmettergli che la scuola è divertente e non deve aver paura, che è un posto bello, dove si imparano tante cose… ma non cambia nulla! Non può farmi tutte quelle storie al mattino, siamo troppo di corsa!”

Sarà semplice per il lettore immaginare la frustrazione e il dispiacere provati dal genitore che, nonostante gli sforzi, non riesce a “mandar via” la paura nel figlio, che continua ad opporsi all’idea di andare a scuola. E nemmeno suonerà strano pensare che abbia sperimentato rabbia, nel momento in cui si sarà innescata una lotta fra i due per uscire finalmente di casa. Chissà se magari, una volta entrato in questo circolo arriverà anche rimproverarlo, sperimentando poi, una volta calmo, senso di colpa.

Un’insalata di emozioni negative e contrastanti: frustrazione, tristezza, rabbia e senso di colpa…Ma cosa accade in questi momenti e che cosa può aiutare il genitore a sintonizzarsi al meglio sul proprio figlio?

La difficoltà del genitore è probabilmente quella di “mettersi nei panni” del bimbo, mettendo i suoi stessi occhiali e spostando la visione da adulto-centrica a una più bambino-centrica.

Sarebbe “facile” se l’adulto riuscisse a ricordare di quando era bambino, di quando aveva paura, di quanto era difficile leggersi dentro e capire “com’erano fatte” le emozioni che sperimentava: riuscirebbe certamente a indossare quegli occhiali da bambino e a connettersi con il proprio figlio. Ma non è semplice né tantomeno immediato, sull’onda dell’urgenza e della gestione della situazione “problematica”, mettere da parte le proprie emozioni e spostare il proprio focus sul bambino.

Ma se è vero che non è semplice è anche vero che, come tutte le cose difficili, è possibile fare esercizio: mettersi nei panni del bambino e “capire” davvero di cosa ha bisogno (e cosa no!) quando sperimenta una determinata emozione/situazione. Ad esempio, tornando all’estratto di conversazione iniziale, se l’adulto immaginasse di dover entrare ogni mattina in un bosco dove ci sono i lupi, per cui avesse (giustamente) paura di andare e qualcuno gli rispondesse: “Nessun problema, il bosco è molto divertente, è un posto bello e farai tante esperienze”, come si sentirebbe?

Probabilmente non si sentirebbe compreso e supportato. E, allo stesso tempo, probabilmente riuscirebbe a capire cosa non desidera suo figlio. Occorre però trovare una strategia, perché purtroppo nel bosco è necessario andarci, non è possibile evitarlo (l’evitamento è la strategia che con molta probabilità quell’adulto avrebbe messo in campo, come il bambino quando chiede di non andare a scuola). È il momento di chiedersi: cosa vorrebbe sentirsi dire quell’adulto spaventato?

Forse che si è dispiaciuti che provi questa paura, che qualcuno lo accompagnerà, o che ha le risorse per fare quell’esperienza. Certo non risolverebbe il problema, ma probabilmente aiuterebbe. Quell’adulto sarebbe sollevato nel percepire che l’altro comprende e rispetta la sua paura.

A questo punto, la maggior parte dei lettori avrà pensato che non è pensabile mettere a paragone un bosco con i lupi e la paura della scuola. E probabilmente avrà ragione. Ma qui, l’intento è quello di proporre “un trucco” che permetta di ribaltare la propria prospettiva e adottare una visione bambino-centrica. L’adulto potrà provare a mettersi nei panni del bambino, immaginando di provare la stessa emozione.

Cosa vorrebbe sentirsi dire? Vorrebbe un abbraccio? Una soluzione strategica?

Applicare questo trucco, con l’idea di comprendere e validare le emozioni del bambino permetterà di sentirsi genitori efficaci, comprensivi e sintonizzati e al contempo il bambino potrà percepirsi compreso e accettato nei suoi vissuti.

Si potrà partire quindi dal riconoscere l’emozione del bambino, comprenderne la motivazione e accettarla. Si tratta di un allenamento quotidiano, tenendo a mente che magari, la maestra che urla è al pari di un lupo in un bosco.

Riferimenti bibliografici

Di Pietro M. (2014). L’ABC delle mie emozioni 4-7 anni, corso di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT, Edizioni Erickson, Trento

Faber A., Mazlish E. (2020). Come parlare perché i bambini ti ascoltino e come ascoltare perché ti parlino. Mondadori

 

Foto di Anna Shvets: https://www.pexels.com/it-it/foto/carino-cappello-verde-sorridente-3876542/

Mamma controlla, papà aspetta

di Barbara Basile

Riconoscere e affrontare le dinamiche genitoriali

La madre è comunemente la principale figura di accudimento del bambino, soprattutto nei suoi primi anni di vita. Di conseguenza, la madre è la figura che trascorre più tempo con il bambino e che lo conosce meglio. Sa riconoscere il significato del suo pianto, ne identifica i bisogni e corrisponde le sue esigenze.

La mamma, vicina e presente, rischia così di diventare il “guardiano” di tutto ciò che riguarda il bambino, incluso l’avvicinarsi degli altri. Questo controllo, in parte naturale e in parte giustificato dalle esigenze ambientali, può portare sia al burnout della mamma – dopotutto, se guardi sempre tuo figlio, anche quando è il turno di qualcun altro che si prende cura di lui, ti sentirai presto esausto e esaurito – sia a un crescente conflitto tra i due genitori.

Accanto alle “mamma guardiana” (dall’inglese maternal gatekeeping), infatti, si delinea il “papà che aspetta”. Il papà in attesa del riconoscimento del proprio ruolo di padre e della possibilità di poterlo espletare. Quando il padre rientra a casa e cerca di inserirsi nel nucleo familiare non sempre trova lo spazio o il tempo per esplorare e conoscere i bisogni del piccolo. La mamma è sempre lì, pronta a fornire indicazioni, ad anticipare e spiegare cosa fare e come farlo al meglio, criticando o sbuffando alla prima cosa che non va come secondo lei dovrebbe andare, dalla temperatura del latte del biberon, al giusto abbinamento degli abitini indossati, all’elargizione di premi e punizioni: con diritto o meno, la madre è pronta a giudicare o inibire gli interventi del padre. A questa immagine si associano frasi come “quando saprà parlare…”, “quando lo capirà”, “quando saprà camminare…”. Quando, quando, quando. I vantaggi e i traguardi di cui potrà godere il padre vengono sempre posticipati al futuro, dilatando di anno in anno la possibilità di creare un legame con il figlio e correndo il rischio di non vederli mai arrivare.

Le ragioni per cui una madre si impegna nel gatekeeping variano. Le madri potrebbero avere difficoltà a rinunciare alla responsabilità della cura della prole, potrebbero voler convalidare il loro ruolo ed essere riconosciute per i sacrifici che fanno per le loro famiglie oppure potrebbero considerare il padre come incapace o addirittura un pericolo per i figli. Quest’ultimo punto di vista potrebbe essere basato su prove reali, sui comportamenti passati del padre o sui suoi fallimenti come uomo e padre.
La dinamica della “mamma guardiana” e del “papà che aspetta” si mantiene nel tempo, lasciando spazio a una madre che gira come una trottola attorno ai bisogni e alle necessità dei figli e a un padre assente. Questa dinamica, reiterata, può provocare conflitti e può accrescere la distanza tra i partner, logorandone il legame.

Se come genitori vi riconoscete in questa dinamica non cercatene la causa o l’origine. Per uscirne  non serve trovare il colpevole o individuare chi ha iniziato! Per lui il punto d’inizio potrebbe essere stato: “non mi lasciavi mai prendere in braccio il bambino”, mentre per lei forse era: “non mostravi alcun interesse per lui, non mi hai mai chiesto di poterlo cambiare”.  Seguire questa linea rischia di dare avvio a ulteriori discussioni interminabili, senza realmente offrire una soluzione. Il punto è che entrambi avete bisogno l’uno dell’altro nel percorso di genitorialità e della vostra coppia. Provate ad allontanarvi dal contenuto delle discussioni e spostatevi, invece, sui vostri bisogni. Come donna forse avresti bisogno di avere un partner che si mostri più coinvolto nella cura dei bambini e nella loro gestione quotidiana? E come uomo, invece, forse vorresti che la tua compagna ti consentisse di fare il papà? Provate ad essere più dolci l’uno per l’altro.

Prendiamo un esempio classico: il caricare la lavastoviglie. È il tipico stereotipo che fa sorridere, ma che divide le famiglie da quando hanno inventato la lavapiatti! Ciascuno vuole farla a proprio modo. Capita che quando un partner inserisce le stoviglie a modo suo, l’altro intervenga criticando o imponendo il proprio, più corretto. Come affrontare in modo più sereno questo  gesto di vita di coppia quotidiana?

La prima cosa da fare è prendere le distanze:

  • qual è lo scopo del caricare la lavastoviglie?  Che piatti, posate e bicchieri vengano puliti.
  • è possibile che questo avvenga in diversi modi? Certamente!
  • E ora… Qual è lo scopo dell’educare i figli? Che crescano e diventino adulti e che sappiano perseguire i valori e rispettare le regole che voi trovate importanti nella vita
  • È possibile che questo avvenga in modi diversi? Certamente!

Questo significa che dobbiamo lasciar andare tutto e far fare agli altri quello che gli pare? Oppure, che la lavastoviglie debba girare anche con un piatto e una postata, senza dire nulla in merito se non siamo d’accordo? Certamente no.

Significa, piuttosto, non alimentare una discussione infinita, cercando, invece, di restare nella relazione senza cadere in un circolo di accuse. In un attimo ci si trova a dire “ma cosa stai facendo ora?! Lasci partire la lavastoviglie senza niente dentro?”. Se l’altro partner ha avviato la lavastoviglie con cinque pezzi, forse aveva un buon motivo per farlo? Forse i piatti erano rimasti sporchi e oleosi oppure preferiva giocare con i bambini, invece di sprecare il proprio tempo lavando piatti e, magari, desiderava farti un piacere facendoti trovare tutto pulito al rientro a casa?

I bambini hanno bisogno che i padri abbiano il loro ruolo. I modi diversi di prendersi cura e di gestire le incombenze domestiche rappresentano un arricchimento peri bambini, senza dimenticare che pensare che ci sia una differenza nei modi di assolvere certi ruoli o compiti non implica necessariamente che questa differenza realmente esista!

Per approfondimenti
Nina Mouton (2020). Mild Ouderschap. Zelfs tijdens de woedeaanval in de supermarkt

Foto di Katie E da Pexels

Fare i compiti: bambini e genitori

di Stella Totino

Dai circoli viziosi ai circoli virtuosi: l’autoefficacia

Sin dalle prime fasi di apprendimento può capitare, per diversi motivi, che il momento dei compiti si trasformi in un vero e proprio incubo per genitori e figli. Il bambino che fatica a svolgere una determinata attività, esattamente come l’adulto, sarà meno attratto da quel compito perché lo porterà a non sentirsi capace.

Si possono presentare, sin dai primi giorni di scuola primaria, dei circoli viziosi che se non interrotti accompagneranno figli e genitori per tutto il lunghissimo percorso scolastico.

Vediamo cosa può succedere: è arrivato il momento di fare i compiti, bisogna sbrigarsi perché dopo bisogna andare in piscina, a basket, a calcio o semplicemente bisogna giocare. Nel momento in cui viene invitato dal genitore a prepararsi per fare i compiti, il bambino sta facendo un gioco che sicuramente lo interessa maggiormente, pertanto cercherà di evitare quell’impegno giornaliero, tendendo a procrastinare, dicendo di non avere scritto i compiti, di non avere il libro, facendo i “capricci”, piangendo. Allo stesso tempo, il genitore sperimenta un “cocktail” di emozioni, dall’ansia al senso di colpa, fino alla rabbia, che non lo aiuteranno a interrompere tale circolo. I “virus mentali”, più frequentemente riportati sono: “non riusciremo mai a finire tutto prima di uscire e quando torneremo sarà pure stanco e non li finirà”; “le insegnanti penseranno che non ci interessiamo a nostro figlio e che per noi la scuola non è importante”; “continuando così non lo aiuterò ad avere un futuro”; “non può mica fare come gli pare, non sono a sua disposizione tutto il giorno, i compiti si fanno quando lo dico io”.

A lungo andare, queste situazioni rischiano di logorare il rapporto genitori-figli e di compromettere il rapporto con lo studio.

Per interrompere tale circolo può essere importante incrementare l’autoefficacia dei figli e dei genitori. Lo psicologo canadese Albert Bandura nel 1986 ha definisce l’autoefficacia come la “fiducia che una persona ripone nella propria capacità di affrontare un compito specifico”. Secondo lo stesso autore tale concetto si fonda su 4 tipologie di esperienze:

  1. Esperienze dirette: che possono essere di successo o insuccesso. Nel nostro caso, sarebbe importante incrementare le occasioni di successo nello svolgimento dei compiti. Uno strumento molto utile in tal senso è la pianificazione sia della giornata, in modo che sia facilmente prevedibile, sia delle attività che devono essere svolte, sia dei materiali necessari.
  2. Osservare le esperienze degli altri genitori: ci può aiutare a modificare i virus mentali, passando da “non posso farcela” a “se ci sono riusciti gli altri posso riuscirci anche io”.
  3. Persuasione verbale: sia attraverso apprezzamenti e rassicurazioni provenienti dall’esterno da persone ritenute autorevoli, sia attraverso le proprie convinzioni. Nel primo caso potrebbe aiutare un rinforzo da parte degli insegnanti: “Vedo che state lavorando sempre meglio, si vede che vi state impegnando”. Nel secondo: “Ce la faremo, con la calma e le giuste strategie andrà sempre meglio”.
  4. Gestione del vissuto emotivo, compresi gli stati fisiologici che accompagnano l’emozione. Nella gestione dei compiti, ciò può avvenire con il riconoscimento del proprio stato emotivo e dello stato emotivo dell’altro, l’accettazione e la gestione.

Più genitori e figli si sentiranno competenti, meglio affronteranno il momento dei compiti, più sperimenteranno successo ed emozioni positive più tale momento diventerà piacevole.

Soprattutto quando tutto questo si accompagna a storia personale di insuccesso scolastico o a una condizione di disturbo del neurosviluppo, può essere utile affidare tale compito a un tutor e/o a un percorso di psicoterapia che incrementi l’autoefficacia percepita, il riconoscimento, l’accettazione e la gestione delle emozioni.

Per approfondimenti:

Bandura A. (2000), Autoefficacia: Teoria e applicazioni, Trento, Erickson.

Moè A. e Friso G. (2014), L’ora dei compiti. Come favorire atteggiamenti positivi, motivazione e autonomia nei propri figli, Trento, Erickson.

Foto di Gustavo Fring da Pexels

“Genitori e Poi” per rompere i tabù

di Federica Brindisino e Marta Clary

Un progetto per scardinare i pregiudizi sul tema della genitorialità, favorendo la cultura del benessere con un approccio innovativo

La gravidanza e il post parto rappresentano per la donna, per l’uomo e per la coppia un periodo delicato della vita che necessita di un adattamento continuo. È una fase in cui avvengono una serie di mutamenti di tipo fisico, mentale e pratico che causano delle conseguenze sia sul singolo individuo sia sulla relazione di coppia: si esperiscono emozioni positive ma si affrontano anche momenti carichi di tensione, pensieri ed emozioni spiacevoli, dubbi e insicurezze verso sé stessi, verso i propri affetti e verso il nascituro. Spesso è difficile esternare questi vissuti poiché intervengono emozioni quali vergogna e senso di colpa, ci si sente “sbagliati”, diversi da tutti quei genitori che si mostrano felici e soddisfatti per il semplice fatto di aver concepito un figlio.

Affinché questo periodo possa davvero essere vissuto come un’esperienza positiva, diventa necessario affrontare la genitorialità con consapevolezza. Per genitorialità consapevole si intende una conoscenza accurata e approfondita non solo dei cambiamenti fisici e biologici che riguardano la gravidanza e il parto, ma anche degli aspetti riguardanti l’umore, i cambiamenti dei ruoli all’interno della coppia e della famiglia di origine, la nuova riorganizzazione del lavoro, gli aspetti psicologici individuali e di coppia, e tanto altro ancora.

“Genitori e Poi” è un progetto che nasce dall’esperienza personale e professionale di due ex allieve delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva di Roma e Lecce, e che si concretizza con la vincita di un bando finanziato dalla Regione Puglia.

L’obiettivo è di sradicare i pregiudizi e i tabù socio-culturali che ancora ruotano attorno al tema della genitorialità e che possono rappresentare un freno per tante mamme e papà, sino ad avere un ruolo nello sviluppo psico-fisico del figlio quando interferiscono nel corretto svolgimento della gravidanza e del post parto. L’intento è di lavorare ogni giorno per cambiare il significato di “normale”, un concetto che non esiste nella vita vera, così come non esiste il genitore perfetto, ma piuttosto il genitore assalito da dubbi, incertezze e a volte anche dalle difficoltà. Il progetto agisce dunque a tutto campo, partendo dagli incontri di gruppo rivolti a neo o futuri genitori, singolarmente o in coppia, fino ad arrivare alla formazione specifica rivolta al personale sanitario, a psicologi e psicoterapeuti anche non del settore, ad associazioni, scuole, università, enti pubblici e privati.

Fra i temi affrontati durante i percorsi di accompagnamento alla gravidanza, alla nascita e alla genitorialità e nei programmi di formazione, vi sono: i timori e le ansie per un figlio che non arriva, i dubbi e le difficoltà durante l’attesa di un figlio, la sensazione di impotenza davanti al proprio corpo che cambia, la paura del parto, le emozioni che si addensano dopo il parto e la difficoltà nel gestirle, la delusione e la frustrazione per non essere quei genitori perfetti e felici che ci si immaginava, i cambiamenti inevitabili e inaspettati nelle coppie di neo genitori, come la sessualità e le difficoltà comunicative e di gestione dei ruoli, la gestione della carriera professionale dopo l’arrivo di un figlio, le difficoltà con la gestione del pianto e del sonno del neonato, l’allattamento, le modifiche dei rapporti sociali con amici e parenti, le molteplici sfaccettature che riguardano il ruolo del padre.

In questo senso, “Genitori e Poi” si propone come punto di riferimento per cambiare radicalmente prospettiva, migliorare il modo di vivere la genitorialità dalla decisione di diventare genitori al post nascita, riconoscere, affrontare e sconfiggere sentimenti quali ansia, paura, inadeguatezza, impotenza, avere a disposizione uno spazio libero da pregiudizi, giudizi e condizionamenti, che non intenda il supporto nel senso stretto di “cura” ma come strumento per migliorarsi, conoscersi meglio, ottimizzare le proprie possibilità di genitore e di individuo, promuovere la cultura del benessere psicofisico e della genitorialità consapevole, essere al servizio delle esigenze individuali e familiari, e supportare il mondo inesplorato dei papà, troppo spesso considerati figura marginale della coppia senza particolari bisogni, desideri, emozioni, diritti e doveri.

Tutte le sfumature della genitorialità fin qui elencate portano quindi a riflettere sul fatto che questa fase dell’esistenza, dal momento del concepimento in poi, non è sempre l’esperienza fantastica e felice che tutti si aspettano e desiderano, ma come tutte le fasi della vita può attraversare dei momenti bui.

Un professionista del periodo perinatale, attraverso la prevenzione e con un intervento precoce, può accompagnare le madri e i padri, singolarmente o in coppia, a capire cosa sta accadendo e superare le difficoltà esperite, così come ottimizzare il potenziale e prevenire eventuali scompensi. Lo scopo è quello di riuscire a vivere serenamente e autenticamente l’esperienza della gravidanza prima e della genitorialità poi, e gettare le basi per una relazione sana con il proprio bambino.

Il proposito è che ogni neo o futuro genitore possa sentirsi accolto nelle proprie individualità, compreso e sostenuto in assenza di giudizio, e spronato a crescere e a valorizzarsi per il bene proprio, della coppia e dei figli.

Per Approfondimenti:

www.genitoriepoi.it

Marcoli, A. (2009). E le mamme chi le aiuta? Milano: Mondadori Editore
Milgrom, J., Ericksen, J. et al. Diventiamo mamma e papà. Manuale pratico: dalla gravidanza al primo anno di vita del bambino. Trento: Edizioni Erikson
Quatraro, R. M., Grussu, P. (2018). Psicologia clinica perinatale. Dalla teoria alla pratica. Trento: Edizioni Erikson

Foto di Anna Shvets da Pexels

SITCC 2018 – La genitorialità nel processo di psicoterapia

di Sara Bernardelli

Domenica 23 settembre, nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, svoltosi nella sede del polo universitario Giorgio Zanotto di Verona, si è svolto  il simposio dal titolo: “La genitorialità nel processo di psicoterapia: ambiti, modelli e protocolli di intervento” con chair il Dott. Giuseppe Romano e discussant la Dott.ssa Monica Mercuriu.

Le tre relazioni presentate hanno affrontato diversi argomenti: la Dott.ssa Lorenza Isola, responsabile dell’equipe per l’età evolutiva APC e SPC di Roma, in collaborazione con la Dott.ssa Giordana Ercolani, ha presentato un lavoro dal titolo: “Basi teoriche ed applicazioni pratiche di principi e tecniche utili al lavoro clinico con la coppia genitoriale”; la Dott.ssa Sara Bernardelli, della Scuola di Psicoterapia Cognitiva-SPC di Verona ha presentato un lavoro dal titolo: “Davanti a lui sono impotente: un caso di supporto alla genitorialità con un bambino con difficoltà comportamentali” ed, infine, la Dott.ssa Ilaria Martelli Venturi e la Dott.ssa Teresa Fera, entrambe del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma, hanno presentato un lavoro dal titolo: “Gruppi Skill Training DBT sulla genitorialità”.

Il simposio ha permesso ai partecipanti di comprendere l’importanza del ruolo genitoriale nel trattamento psicoterapeutico dei bambini e degli adolescenti. Come sappiamo, il coinvolgimento dei genitori nel trattamento dei disturbi psicologici dei figli è di fondamentale importanza per garantire una maggiore efficacia dell’intervento oltre che per il mantenimento dei risultati ottenuti durante il percorso di psicoterapia e la riduzione delle possibilità di ricadute nel tempo. I diversi lavori presentati hanno offerto una panoramica degli interventi destinati alla componente genitoriale sia in affiancamento al trattamento di problematiche non specifiche, sia in relazione a disturbi e quadri nosografici ben definiti, sia in termini di programmi preventivo promozionali.

Nella prima relazione, la Dott.ssa Isola ha illustrato la modalità di lavoro sia con i genitori che con i giovani pazienti, sottolineando come il coinvolgimento dei genitori nel trattamento dei disturbi psicologici dei figli assume un rilevante potenziale positivo. Esso, infatti, ha una doppia utilità: aiutare i genitori nella costruzione di competenze utili ad affrontare la crescita dei propri figli e sostenere l’intervento terapeutico svolto nei confronti di questi ultimi.

Nella seconda relazione, è stato illustrato il lavoro con una mamma con un figlio con difficoltà comportamentali secondo l’approccio della REBT-Rational Emotive Behavior Therapy. Particolare attenzione è stata data ad illustrare il protocollo che viene utilizzato negli interventi rivolti al supporto della genitorialità, evidenziando il lavoro sulle idee disfunzionali del genitore che possono interferire in modo negativo sulla relazione genitore-bambino.

Infine, la terza relazione ha descritto l’esperienza dei gruppi multifamiliari all’interno del modello della DBT-Dialectical Behavior Therapy che vengono condotti con i genitori di giovani pazienti con Disturbo Borderline di Personalità. L’idea è di insegnare sia ai ragazzi che ai familiari le stesse abilità, al fine di modificare comportamenti problematici ma soprattutto ridurre il conflitto, che risulta essere sia un fattore di mantenimento che scatenante comportamenti disfunzionali. I gruppi DBT mirano a motivare, costruire, potenziare e generalizzare l’uso delle abilità di autoregolazione emotiva, di consapevolezza, di efficacia interpersonale e di tolleranza della sofferenza, sia dell’adolescente che dei suoi familiari.

Il simposio è stata un’occasione utile per comprendere la centralità del coinvolgimento genitoriale nel lavoro con i giovani pazienti e discutere di alcuni protocolli di intervento concreti che possono essere utilizzati in setting terapeutici diversi.

Urlare contro i figli è controproducente

di Giulia Panarelli

Come farsi ascoltare e rispettare dai propri figli?

Molti genitori si ritrovano spesso a urlare contro i figli disubbidienti, arroganti, sfaticati e in qualche caso anche a sculacciarli o schiaffeggiarli per poi magari pentirsene un attimo dopo, provando un grande senso di colpa, frustrazione e inefficacia. Rabbia genera rabbia, offesa genera offesa. Minacce e punizioni generano sfida, mancanza di rispetto e svalutazione; stima e fiducia reciproca vengono meno e si innesca così un vortice di rabbia da cui è difficile tirarsi fuori.

Esistono molti modelli genitoriali secondo cui “una sculacciata non ha mai fatto male a nessuno” o di pantofole volanti lanciate da madri furiose e “sono cresciuto bene lo stesso”, ma un clima familiare fatto di tensione, urla, insulti, rimproveri, minacce, punizioni, provocazioni, frasi umilianti, ribellioni, non ascolto, porte sbattute è controproducente e addirittura dannoso. Urlare contro i figli li rende aggressivi, irritabili, insicuri, li predispone ad adottare atteggiamenti da bulli, ad avere problemi di condotta; di fronte ai continui rimproveri i figli potrebbero sentirsi sbagliati e non amati dai propri genitori con ripercussioni sul loro benessere psichico.

È questo ciò che si vuole per i propri figli? È davvero questo il tipo di genitore che si vuole essere? Autoritario e temuto? Quando ci riflettono in terapia, i genitori si commuovono e rispondono di no, ma allora come si arriva a questo? Sicuramente molto dipende da alcuni probabili aspetti personali fatti di aggressività, impulsività oppure mancanza di fermezza, scarso senso di autoefficacia, incapacità di instaurare un dialogo, paura del confronto, elevato desiderio di conferma; oppure da modelli genitoriali ricevuti, aspettative su come dovrebbero essere un buon genitore e un buon figlio, interpretazione errata dei comportamenti del figlio letti come sfida o provocazione. Inoltre, possono esserci dei momenti di vita caratterizzati da forte stress e frustrazione, gravi problemi personali o di salute che possono peggiorare le reazioni, far aumentare l’irritabilità e far perdere la pazienza più facilmente. Urlare o dare schiaffoni sono frutto dell’esasperazione e dell’impotenza e quasi sempre sono modalità inefficaci per far comprendere ai figli i propri errori. Mortificato dalle urla, il bambino non si concentra sul contenuto del rimprovero, impara solo ad avere paura e reagisce opponendosi e attaccando. Il timore e la disistima verso il genitore creano un muro nella comunicazione e fanno chiudere in se stesso il ragazzo.
Cosa fare? Poche regole chiare, comunicazione efficace, rispetto.

Le regole devono essere poche, semplici, adeguate all’età e formulate in modo positivo. Per farsi ascoltare dai figli bisogna usare un tono fermo e calmo, quindi prima di far questo, la rabbia deve diminuire. Prendetevi tutti una pausa per recuperare la calma. I figli vi imitano, imparano di più dai vostri comportamenti che dalle parole, così si comportano con voi nel modo in cui voi fate con loro. Dunque, avvicinatevi a loro, chiedete scusa per i modi, ma spiegate come vi sentite e cosa non tollerate del loro comportamento. Poche parole che siano di conoscenza reciproca e non di convincimento. Trovate insieme nuove strategie, nuovi comportamenti più adatti, suggerite come superare il problema insieme.

Potete chiedere l’aiuto di un esperto e seguire un percorso di genitorialità (parent training) per capire cosa fa scatenare la vostra rabbia fino a farvi perdere il controllo; potete imparare a tollerare la frustrazione, accettare e gestire la ribellione dei vostri figli, imparare a riconoscere i bisogni dei vostri figli, sviluppare l’assertività e la fermezza, sviluppare la capacità di ascolto e di rinforzo emotivo e sviluppare la comunicazione efficace. Infine, è possibile definire gli obiettivi genitoriali e individuare quei comportamenti che aiutano a realizzarli, è importante che la coppia genitoriale proceda in modo coeso e coerente.

 Per approfondimenti:

Daniele Novara, Urlare non serve a nulla, Edizioni Bur

 

Stile genitoriale e crescita del bambino

di Pamela Calussi

Il 1 e 2 dicembre si è svolto a Roma, presso la sede dell’Associazione di Psicologia Cognitiva (APC) e della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC), un interessante corso dal titolo “Interventi a Supporto della Genitorialità”. Ad organizzarlo l’equipe per l’età evolutiva APC/SPC di Roma, con lo scopo di presentare la base teorica e l’applicazione pratica di principi e tecniche utili al lavoro clinico con la coppia genitoriale, vista l’ormai consolidata importanza che gli viene data nella pratica clinica, sia nell’ottica di interventi preventivi, sia in termini di sostegno al lavoro terapeutico svolto con i bambini.

Grande merito delle due giornate appena concluse è stato quello di affrontare il tema della genitorialità da diverse angolazioni cliniche e culturali, oltre ad aver fornito importanti spunti teorici ed applicativi utili al lavoro clinico con la coppia genitoriale.

Docenti del corso, la dott.ssa Lorenza Isola, Psicologa e Psicoterapeuta cognitivo comportamentale, didatta APC/SPC e Coordinatrice dell’Equipe Età Evolutiva APC-SPC, la dott.ssa Giordana Ercolani, Psicologa e Psicoterapeuta, membro dell’Equipe Età Evolutiva, il Prof. Roberto Baiocco, Professore Associato in Psicologia dello Sviluppo all’Università di Roma “Sapienza”, presso la quale tiene corsi di Psicologia della genitorialità e delle relazioni familiari, e la Dott.ssa Laura Di Giunta, Psicologa e Psicoterapeuta e Ricercatore presso l’Università “Sapienza” di Roma (Dipartimento di Psicologia).

La prima giornata si è aperta con l’intervento del dott. Baiocco, che ci ha parlato di “Omogenitorialità e benessere nei bambini”, e ci ha presentato lo stato dell’arte scientifico e della letteratura su questo tema, fornendoci numerosi spunti di riflessione sulle “same-sex parent-families” e su come impostare con loro il lavoro clinico di supporto alla genitorialità, in cui spesso ci si trova a dover affrontare anche vissuti di stigmatizzazione e violenza. L’intervento si è concluso spostando il focus su come intervenire per aiutare nel compito genitoriale le famiglie che scoprono invece l’omosessualità del proprio figlio. L’interessante intervento del dott. Baiocco è stato reso ancora più piacevole grazie alla presentazione di numerose vignette cliniche e di video della sua esperienza clinica e nel servizio di Consulenza “Sei Come Sei”, che dirige e che ha lo scopo di offrire uno spazio di consulenza e supporto psicologico rivolto ad adolescenti, giovani adulti, coppie e famiglie che si trovano ad affrontare problematiche inerenti l’orientamento sessuale e/o l’identità di genere.

La giornata si è conclusa con alcuni spunti teorici sulla genitorialità e sul lavoro clinico con il genitore offerti dalla dott.ssa Ercolani e dalla dott.ssa Isola. Si è parlato di stili, di comportamenti, di parenting positivo e maladattivo, il tutto tenendo conto del bagaglio personale e culturale che il genitore porta con sé all’interno del suo “lavoro” con il bambino: per poter lavorare affinché il genitore possa realmente sostenere il figlio occorre tener conto di numerosi aspetti, che non riguardano solamente cosa succede nella relazione madre/padre-figlio, ma anche e soprattutto il significato che essa assume e che dipende a sua volta da ciò che hanno imparato dalla relazione con i loro genitori.

La dott.ssa Laura Di Giunta, nella prima parte della seconda giornata, ci ha aiutato a comprendere come la ricerca sulla genitorialità da un punto di vista trans-culturale ci possa aiutare a capire e riflettere in modo adeguato all’interno del lavoro clinico, presentandoci numerosi risultati di ricerca tra cui quelli dello studio longitudinale “PAC-Parenting Across Culture” di cui è responsabile per l’Italia e di cui fanno parte diversi paesi in tutto il mondo tra cui Nord America, Cina, e Venezuela. L’intervento ci ha spinto a riflettere su come modificare la pratica clinica sulla base della cultura di appartenenza di chi abbiamo davanti: se a livello culturale un comportamento che a noi può sembrare maladattivo è invece accettato, non produrrà effetti negativi sul bambino, sottolineando dunque come non sia tanto il comportamento stesso a produrre effetti negativi sul bambino quanto la percezione e la valutazione che viene fatta di esso. Inoltre, un altro interessante spunto di riflessione datoci dalla dott.ssa Di Giunta ha riguardato la considerazione della reciprocità dell’influenza tra stile genitoriale e comportamenti/temperamento del bambino: quanto è il comportamento del genitore che influisce su quello del bambino o quanto è, invece, il comportamento che regola, di conseguenza, la risposta del genitore?

Nel pomeriggio è stato infine dato spazio alle esercitazioni pratiche attraverso la presentazione di due casi clinici. Le dott.sse Isola e Ercolani, con grandi capacità e chiarezza, ci hanno aiutato a mettere in pratica quanto appreso nelle due giornate, spingendoci al ragionamento e dandoci numerosi spunti applicativi per la nostra professione.

A conclusione delle giornate, grande merito vanno agli organizzatori, che hanno saputo individuare interventi e tematiche interessanti per il lavoro a supporto dei genitori, sottolineando l’importanza che esso riveste per il buon esito delle terapie con i bambini e adolescenti, e sapendo integrare i punti di vista dei partecipanti al corso che provenivano da approcci e orientamenti anche molto diversi.

Insegnare ai bambini a gestire le emozioni

di Barbara Basile

Crescendo, i bambini imparano a regolare le proprie emozioni e lo fanno soprattutto osservando i propri genitori: quali suggerimenti seguire per aiutarli al meglio in questo percorso?

Le risposte emotive nei bambini variano parecchio nella loro espressione, nella frequenza e intensità e nella capacità di regolarle. La capacità di gestire le emozioni non è innata, ma si apprende con la crescita, soprattutto osservando ciò che accade in famiglia. Sono i genitori, infatti, che aiutano il bambino a comprendere e orientare la tensione interna che si accompagna a un vissuto emotivo. Alcuni bambini sono, per natura, più sensibili o più facili da calmare di altri. In età scolare il bambino diventa più responsabile e consapevole del proprio funzionamento emotivo e all’intervento genitoriale si affianca quello scolastico. Nel corso dell’adolescenza le modificazioni a carico del sistema ormonale sfidano quanto fino ad allora appreso provocando un’apparente retrocessione nella capacità di gestire le emozioni. Leggi tutto “Insegnare ai bambini a gestire le emozioni”

Gli interventi di supporto alla genitorialità. Tra evidenza e clinica.

di Annalisa Bello

L’importanza degli interventi volti a supportare una genitorialità fragile in un incontro tra clinica e ricerca.

Martedi 28 Marzo, l’elegante e suggestiva cornice del Salone degli Affreschi del Palazzo Ateneo in Bari ha accolto lo stimolante seminario su “Gli interventi di supporto alla genitorialità. Tra evidenza e clinica”, organizzato dal Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” in collaborazione con l’Associazione Italiana di Psicoterapia Cognitiva (A.I.P.C.).

L’evento ha rivolto lo sguardo verso il tema della genitorialità da promuovere e sostenere all’interno di una cornice che ha contemplato il dialogo tra clinica e letteratura scientifica senza prescindere dai riferimenti teorici, innovativi e validi nella cura dell’infanzia come quelli che si rifanno alla teoria dell’attaccamento e al cognitivismo clinico.

Ad inaugurare la mattinata con la presentazione dell’evento ed i saluti, la Prof.ssa Rosalinda Cassibba, Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università Aldo Moro di Bari e il Dottor Michele Pellegrini, Psicologo e Psicoterapeuta, che si è fatto portavoce della la Dott.ssa Maria Grazia Foschino Barbaro, direttore della scuola di psicoterapia AIPC. Leggi tutto “Gli interventi di supporto alla genitorialità. Tra evidenza e clinica.”