di Barbara Basile
In questa terza parte accennerò sinteticamente alle singole ricerche, illustrate tramite poster o breve presentazione orale, che hanno maggiormente catturato il mio interesse, o per il tema trattato o per l’abilità del relatore di catturare l’attenzione dei partecipanti. Riporterò a grandi linee background, metodi e risultati del lavoro, in modo da fornirne una breve panoramica.
1. In uno studio condotto a Milwaukee (Wisconsin, USA) i ricercatori hanno portato un’apparecchiatura di Risonanza Magnetica (MRI) portatile in carcere, con lo scopo di studiare le risposte cerebrali a emozioni di paura/ansia in un gruppo di carcerati con psicopatia. Gli individui con disturbo antisociale, notoriamente poco empatici, sembrano avere una scarsa capacità di esprimere le emozioni. La letteratura degli ultimi anni ha cercato di distinguere diversi profili di personalità antisociale identificando almeno due tipi di psicopatia: la tipologia I sembra caratterizzata da un esordio che risale ai primi anni di vita dell’individuo, da cui si ipotizza un’origine di tipo innato della patologia. Soggetti antisociali di tipo I, inoltre, sono contraddistinti da bassi livelli di ansia. La psicopatia di II tipo, di contro, sembra svilupparsi in età più avanzata, solitamente in seguito all’esposizione ad esperienze traumatiche o ad ambienti particolarmente invalidanti e caotici. Questo tipo è caratterizzato da livelli di ansia maggiori e più pervasivi. In linea con questa letteratura, lo scopo di questo lavoro consisteva nell’indagare l’attività neurale in due gruppi di psicopatici (di tipo I e II), durante la somministrazione di stimoli paurosi (situazione ansiosa), per verificare se l’elaborazione della paura fosse mediata dai diversi livelli di ansia. Oltre all’attività cerebrale, sono stati registrati gli indici di conduttanza cutanea (come indice di attivazione emozionale). I risultati hanno mostrato che gli individui caratterizzati da una psicopatia “innata” (tipo I) presentavano un incremento di attività neurale nell’amigdala (notoriamente implicata nell’elaborazione di emozioni negative come la paura e l’ansia) e un maggior livello di sudorazione, durante la somministrazione degli stimoli ansiosi, rispetto agli psicopatici di II tipo. Gli autori ipotizzano che questi ultimi presentano risposte neuro-fisiologiche meno intense perché potrebbero aver sviluppato dei meccanismi di coping per gestire gli stati negativi che li rendono meno sensibili a stimoli avversivi.
2. In un altro studio, un gruppo di ricercatori dell’Università di Julich (Germania) ha studiato i correlati neurali del giudizio, considerandone diversi tipi di componenti. Da diversi anni si discute su quale sia il sistema neurale coinvolto nell’elaborazione del giudizio sociale. Alcuni autori credono che questo processo coinvolga il sistema dei neuroni a specchio (“mirror neurons’ system”), mentre secondo altri è implicato il network della mentalizzazione (“mentalizing”). Per cercare di risolvere il dibattito i ricercatori tedeschi hanno messo a confronto, indagandoli sperimentalmente tramite tecnica di fMRI, i network cerebrali coinvolti in tre tipi di scenari di giudizio (presentati in forma audio) in un gruppo di individui sani. Una condizione di controllo esponeva i partecipanti ad un giudizio “cognitivo” (i.e., “quanti anni ha X?”); una seconda condizione, definita di giudizio “emotivo”, riguardava il giudizio relativo allo stato emotivo provato da un’altra persona (i.e., ” quanto è felice X?”); ed infine, nella condizione di interesse per i ricercatori, ai volontari veniva proposto un giudizio di tipo “sociale” (i.e., “quanto è affidabile X?” o “quanto è affascinante X?”). I risultati fMRI hanno mostrato che mentre nella valutazione dello stato emotivo dell’altro (seconda condizione) vi era un incremento di attività neurale in aree come il giro frontale inferiore (infFG) e il polo temporale (TP), nella valutazione di una situazione sociale, così come durante un giudizio di tipo cognitivo (i.e., la stima dell’età di un’altra persona), si osservava una sovrapposizione di attivazione nella corteccia parietale inferiore (infPC). Infine, solamente nella valutazione sociale, risultavano attivate anche aree come il cingolo anteriore e posteriore (ACC e PCC) e la corteccia prefrontale dorso mediale (DMPFC). Gli autori concludono che esprimere delle valutazioni di tipo sociale (più complesse rispetto alla valutazione di uno stato emotivo) coinvolge aree comunemente implicate nel processo di mentalizzazione e nella Teoria della Mente, come la DMPFC, così come aree più “cognitive” come la corteccia parietale, coinvolta in stime più razionali/cognitive.
3. Un interessante lavoro condotto all’Università di Leuven (Belgio) ha indagato l’attività cerebrale durante un compito di lettura degli stati emotivi altrui in un gruppo di pazienti con autismo. I ricercatori hanno sottoposto i partecipanti ad un compito visivo di lettura delle emozioni corporee, con lo scopo di attivare il sistema dei neuroni a specchio (mirror neurons). Gli stimoli consistevano in una serie di puntini luminosi raffiguranti una figura umana che, mossi in modo sincrono, rappresentavano diverse espressioni emotive (i.e., tristezza, rabbia, gioia). Come ipotizzato dagli autori, i pazienti erano meno capaci di identificare gli stati emotivi presentati, rispetto ai volontari sani. Questa disabilità era corrisposta, a livello cerebrale, da una minore attivazione del solco temporale superiore (STS), notoriamente coinvolto nella lettura della mente altrui. In seguito, gli autori hanno indagato anche il livello di connettività funzionale, ovvero il grado di sincronizzazione di attività neurale tra aree diverse del cervello, rilevando che il STS (e solo questo) risultava meno “connesso” con aree come il giro frontale inferiore (infFG) e il lobulo posteriore inferiore (infPL) (entrambi coinvolti nella lettura della mente altrui), rispetto al grado di connettività rilevata nei soggetti di controllo. I belgi concludono che i dati sembrano supportare l’ipotesi che nell’autismo vi sia un coinvolgimento selettivo del STS, senza necessariamente coinvolgere altre aree che sono coinvolte nella Teoria della Mente (i.e., infFG, infPL).
4. In pazienti affetti da disturbo del comportamento alimentare, soprattutto da bulimia, è frequente osservare comportamenti di abbuffate in seguito al verificarsi di situazioni emotive negative (“emotional eating”). In uno studio condotto in California (USA) gli autori hanno indagato l’attività cerebrale durante l’esposizione a stimoli alimentari, in un gruppo pazienti con Bulimia Nervosa (BN) e in delle volontarie sane. Alle partecipanti sono stati mostrati degli stimoli appetibili (i.e., bicchiere con milkshake al cioccolato) e neutri (bicchiere di acqua), durante un’acquisizione fMRI. É stato osservato che le pazienti mostravano un’iperattivazione dell’insula, del putamen e dell’amigdala (con cui le due aree precedenti sono strettamente connesse) quando confrontate con gli stimoli appetibili. Inoltre, sempre nelle pazienti, tale iperattività neurale era positivamente correlata con gli indici di elevata affettività negativa, misurati tramite apposite misure psicometriche. In linea con la letteratura clinica precedente, gli autori confermano l’esistenza di un’associazione tra l’affettività negativa e un’iper-reattività a stimoli alimentari appetibili. Tale connessione viene rilevata anche a livello cerebrale, dove le pazienti con BN presentano una risposta anomala in alcune aree, definite “emotive”, del sistema limbico, in risposta alla visione di stimoli appetibili. Un’attività neurale esagerata potrebbe dunque spiegare, da un punto di vista neuroanatomico, l’associazione tra affettività negativa e abbuffate.
5. In un ultimo lavoro fMRI, un gruppo di ricercatori olandesi (Amsterdam, Paese Bassi) ha studiato le modificazioni nella performance e nell’attività neurale durante lo svolgimento di alcuni compiti cognitivi in un gruppo di pazienti in età evolutiva con disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), prima e dopo un trattamento cognitivo – comportamentale (CBT). In particolare, gli autori hanno indagato abilità neuropsicologiche, come la pianificazione, l’error monitoring e l’attenzione selettiva, che risultano particolarmente compromesse in questa patologia. I ricercatori hanno osservato che, dopo un trattamento CBT di 16 sedute, i pazienti mostravano un pattern di attività neurale simile a quello degli individui sani in tutti e tre i tipi di compiti. Gli autori concludono che è possibile osservare delle modifiche nel circuito fronto-striato e in quello limbico (entrambi notoriamente coinvolti nel DOC), nella direzione di una normalizzazione dell’attività neurale (e della performance), in seguito ad un efficace trattamento psicoterapico della patologia. I dati di questo lavoro sembrano supportare il ruolo del trattamento psicoterapico nel modificare i network cerebrali coinvolti nel disturbo ossessivo.