Quando una storia può aiutare a cambiare

di Francesca Romani e Giordana Ercolani

Ogni individuo nel corso della propria storia di vita può attraversare situazioni in grado di contribuire alla costruzione di credenze e regole su sé stesso e su gli altri. Questo processo inizia fin da bambini. Infatti è proprio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza che le esperienze quotidiane con i genitori, prima, e successivamente con i compagni ed altri adulti significativi (es. familiari, insegnanti, allenatori etc.) sono in grado di suggerire una versione del mondo che con il tempo potrebbe irrigidirsi e diventare la sola “lente” con cui leggere gli eventi, le persone e sé stessi. Dunque quando questa “lente” si è costruita sulla base di esperienze accompagnate, ad esempio, da sensazioni di intensa frustrazione, critica, inadeguatezza, rifiuto o esclusione con conseguenti emozioni di rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza, la sofferenza emotiva segue, solitamente, una traiettoria negativa che può condurre a profili psicopatologici più o meno precoci.

Nella psicoterapia Cognitivo-comportamentale (CBT) è consuetudine affrontare con il paziente proprio questo sistema di regole e credenze che caratterizza tipicamente il suo funzionamento psicologico, dedicando maggiore attenzione a quelle responsabili della sofferenza.

L’obiettivo è quello di ridurne la rigidità, favorire una defocalizzazione dall’ipotesi peggiore e affiancarvi punti di vista alternativi (Buonanno, Gragnani, 2021) con un successivo incremento della flessibilità psicologica responsabile di più alti livelli di benessere. Anche negli interventi con bambini e ragazzi si procede allo stesso modo; sebbene la giovane età può far credere che tale sistema non sia poi così disfunzionale, è esperienza comune per i terapeuti dell’età evolutiva imbattersi in idee già estremamente rigide e pervasive, inserite in quadri di sofferenza emotiva già ben strutturati.

In CBT tale processo di ampliamento del punto di vista e disponibilità a considerare una versione differente delle cose riguardanti se stessi e gli altri, prende il nome di ristrutturazione cognitiva.

Tante sono le tecniche e gli strumenti in grado di favorirla e tra questi si trovano anche le favole per bambini. Riprendendo l’esempio della “lente” usato poco fa, potremmo dire che una storia ha il potere di ridurne l’utilizzo e alimentare l’assunzione di una nuova prospettiva da cui guardarsi intorno per poi trarre conclusioni. Di fatto, nel caso delle favole, grazie al processo di identificazione con le situazioni e i personaggi, è possibile prima di tutto normalizzare la propria sofferenza; sapere infatti che anche altri soffrono come soffriamo noi ci fa sentire meno soli. Altresì la lettura di una storia, anche se di fantasia, può offrire la possibilità di rintracciare nelle vicende altrui, temi di sofferenza simili ai propri e avere così la possibilità di prendere in esame delle alternative che prima di allora non si erano considerate.

Pertanto, da un’esigenza clinica di questo tipo nasce la storia de “Il cappello Matteo” che siamo qui a condividere affinché possa essere di aiuto non solo al bambino per cui è stata scritta ma anche a tutti quelli che come lui, dopo una delusione, si sono ritrovati a pensare di non essere abbastanza di valore per ottenere l’affetto e la vicinanza degli altri, decidendo così di isolarsi e rinunciarvi per sempre.

 

Il cappello Matteo: clicca qui per scaricare la storia completa in formato pdf

Illustrazione di @disegniperlasalutementale

 

Riferimenti bibliografici
Buonanno C., Gragnani A. (2021). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva. In: Perdighe C., Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Novità sulla ristrutturazione cognitiva

di Andrea Paulis

Cosa avviene a livello cerebrale durante il questioning socratico?

Come è ben noto, le credenze negative su di sé, hanno un ruolo centrale in molti disturbi psicopatologici e la loro flessibilità è ritenuta un fattore predittivo degli outcome nella Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT). Tuttavia sono ancora poco noti i meccanismi neurobiologici e le aree cerebrali implicate nella ristrutturazione cognitiva di questo tipo di credenze.

Grazie a diverse ricerche in ambito psicologico, condotte con l’ausilio della risonanza magnetica funzionale (fMRI), si è notato che il Default Mode Network (DMN) – un circuito di aree cerebrali, composto principalmente da: corteccia cingolata posteriore, PCC; corteccia prefrontale mediale, mPFC; lobulo parietale inferiore, IPL – supporta una serie di processi mentali come l’autovalutazione negativa, il pensiero autoreferenziale, il monitoraggio dell’ambiente esterno, del corpo e dello stato emotivo.

Risulta quindi interessante stabilirne l’implicazione nel processo di ristrutturazione cognitiva; a tal proposito, il lavoro dello studioso statunitense Matthew L. Dixon ed altri colleghi, condotto su pazienti con disturbo da ansia sociale, ha permesso di rilevare una significativa attivazione del DMN quando i soggetti attuavano una reinterpretazione delle loro convinzioni negative sul sé anziché praticarne l’accettazione.

La letteratura più recente suggerisce che la rivalutazione delle convinzioni su di sé e l’apprendimento di nuove rappresentazioni (fattori fondamentali nella ristrutturazione cognitiva) possano dipendere dall’attività coordinata delle già citate reti corticali e del talamo dorsomediale (MD).

Al fine di chiarire il ruolo del MD, nel recente studio di Trevor Steward e colleghi, sono stati reclutati 42 soggetti che si sono sottoposti a risonanza magnetica funzionale 7-Tesla ad altissima risoluzione (UHF-7-T-fMRI), durante un questioning socratico mirato a ristrutturare cognitivamente le convinzioni negative su di sé.

I risultati mostrano come la ristrutturazione cognitiva sia correlata non solo all’attivazione corticale ma anche subcorticale di specifiche aree. Nel dettaglio, si nota come il questioning abbia stimolato l’attivazione del circuito fronto-striato-talamico, in particolar modo l’area subcorticale del MD, e della mPFC. Secondo gli studiosi sarebbe proprio il MD a svolgere un ruolo chiave, stimolando l’attività in ulteriori regioni corticali durante i processi di ordine superiore e trasmettendo informazioni sulle rappresentazioni rilevanti per il contesto alle regioni subcorticali.

Infine, è stata osservata una relazione tra la connettività mPFC-MD e le differenze individuali nella tendenza ad attuare ripetitivi processi di pensiero negativo: sembrerebbe che gli individui che presentano una eccessiva attivazione di questo “percorso neurale”, durante il questioning, siano meno disposti a riformulare cognitivamente le proprie convinzioni negative disfunzionali mostrandosi maggiormente inclini a elicitare pensieri negativi ripetitivi e rimuginio. Ciò suggerisce che particolari aree del MD possano rappresentare un eventuale target di stimolazione nel trattamento di diversi disturbi psicopatologici mediante l’uso di tecniche di neuromodulazione.

Tutte queste evidenze, pur lasciando ancora molti interrogativi, portano a ipotizzare che sono diverse le aree coinvolte in un compito di rivalutazione cognitiva e che il MD ne sincronizzi l’attività, consentendo così la produzione di autorappresentazioni complesse fondamentali affinché avvenga una ristrutturazione cognitiva delle credenze negative sul sé.

Per approfondimenti

Cash, R. F., Weigand, A., Zalesky, A., Siddiqi, S. H., Downar, J., Fitzgerald, P. B., & Fox, M. D. (2021). Using brain imaging to improve spatial targeting of transcranial magnetic stimulation for depression. Biological Psychiatry, 90(10), 689-700.

Davey, C. G., & Harrison, B. J. (2018). The brain’s center of gravity: how the default mode network helps us to understand the self. World Psychiatry, 17(3), 278.

Dixon, M. L., Moodie, C. A., Goldin, P. R., Farb, N., Heimberg, R. G., & Gross, J. J. (2020). Emotion regulation in social anxiety disorder: reappraisal and acceptance of negative self-beliefs. Biological Psychiatry: Cognitive Neuroscience and Neuroimaging, 5(1), 119-129.

Pergola, G., Danet, L., Pitel, A. L., Carlesimo, G. A., Segobin, S., Pariente, J., … & Barbeau, E. J. (2018). The regulatory role of the human mediodorsal thalamus. Trends in cognitive sciences, 22(11), 1011-1025.

Steward, T., Kung, P. H., Davey, C. G., Moffat, B. A., Glarin, R. K., Jamieson, A. J., … & Harrison, B. J. (2022). A thalamo-centric neural signature for restructuring negative self-beliefs. Molecular Psychiatry, 1-7.

Se non ora quando?

di Valentina Silvestre

Origine e trattamento della procrastinazione

Il lavoro di Cristina Salvatori sull’ultimo numero di Cognitivismo Clinico offre una sintesi critica dei contributi presenti in letteratura sul tema della procrastinazione.

Cos’è la procrastinazione? Il rimandare consapevolmente l’esecuzione di compiti.
Nella procrastinazione comportamentale si posticipa un compito per ricercare sensazioni nuove e forti o per evitare un fallimento temuto e proteggere l’autostima. La procrastinazione decisionale, invece, riguarda il rimandare decisioni ed è accompagnata da un atteggiamento pessimistico circa la possibilità di fare scelte opportune e soddisfacenti.
Diversi studi evidenziano la presenza di tratti ben distinti che predispongono il soggetto a procrastinare. Le persone con alti livelli di impulsività sono le più propense: la variabile tempo è sottovalutata e la preoccupazione per le conseguenze si manifesta solo quando queste sono molto vicine nel tempo. Altro tratto ricorrente sarebbe la sensation seeking, la ricerca di forti emozioni, generate dall’avvicinarsi della scadenza, da parte di individui che sperimentano facilmente noia. Si pone, poi, l’accento sul perfezionismo: il procrastinatore, spinto dal timore del giudizio e del rifiuto altrui, tende a svolgere il compito in maniera perfetta.

Il lavoro passa in rassegna anche ricerche su aspetti relazionali correlati al fenomeno: si parla di modalità passivo-aggressiva di affermare la propria autostima e di modalità manipolativa per controllare l’altro. Quest’ultimo aspetto, in particolare, sembra richiamare quelle personalità di tipo dipendente: pensare di non avere le risorse necessarie per agire, sperare nell’appoggio dell’altro e allontanare il timore di solitudine. La procrastinazione, inoltre, è associata anche a bias ed euristiche di diverso tipo quali senso di inadeguatezza, scarsa fiducia in se stessi rispetto alla propria prestazione e alle proprie risorse e l’effetto di tali pensieri è l’evitamento.
Ma perché si procrastina? Per spiegare l’origine della procrastinazione, Piers Steel, psicologo dell’università di Calgary, propone la seguente equazione: le decisioni vengono prese moltiplicando le aspettative che si hanno rispetto alla probabilità che un evento si verifichi per il valore attribuito a quell’evento. A questo si aggiunge l’importanza del fattore tempo: tanto più è grande il ritardo, tanto più diminuisce la motivazione. Si evidenzia, infatti, la cattiva gestione del tempo e la valutazione erronea delle risorse a disposizione: i procrastinatori alternano, così, periodi di lavoro intenso a momenti di sospensione.
Si è evidenziato il ruolo trasversale della procrastinazione nella genesi e nel mantenimento di alcuni disturbi. Nel Disturbo Borderline e Antisociale di Personalità, la scarsa capacità di integrare i propri stati porterebbe il soggetto ad agire senza una pianificazione né una gerarchia di rilevanza. La personalità narcisistica tende a proteggersi dalla possibilità di fallimento con la procrastinazione. Rispetto ai disturbi di asse I, emergono forti correlazioni con l’abuso di alcol e sostanze, dove l’assunzione di sostanze è la ricompensa allo sforzo richiesto dalla mole di lavoro dovuta alla procrastinazione. Nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo è vista come difesa rispetto al timore di cadere in errore e sentirsi in colpa. Nella depressione, si evidenzia una forte associazione tra pensieri automatici negativi relativi a sé in seguito alla procrastinazione.
Perché lavorare sulla procrastinazione? Cristina Salvatori sottolinea come il fenomeno contribuisca a una serie di problematiche fisiche e mentali. Non esistono protocolli di testata efficacia: la terapia cognitivo-comportamentale è spesso indicata come trattamento d’elezione. La ristrutturazione cognitiva, accompagnata da esperimenti comportamentali, rappresenta la forma di intervento più utilizzata: rendere l’individuo consapevole di credenze disfunzionali e del loro ruolo, promuovere un ritmo giornaliero delle attività con una definizione chiara degli obiettivi inibisce la procrastinazione.