Amore Tossico

di Benedetto Astiaso Garcia

 “La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza”. Pier Paolo Pasolini

L’amore nei rapporti di coppia, considerato come un processo di attaccamento fondato sulla reciprocità, ha alla sua base tanto il bisogno di protezione, quanto la propensione a prendersi cura dell’altro. Tale alternanza di ruoli, oltre a differenziare l’attaccamento adulto da quello complementare del bambino, diviene la condizione necessaria per non amare in maniera distorta, evitando così di costruire legami sentimentali infelici.

In questo processo di formazione, risulta decisiva la pervasiva influenza delle prime esperienze affettive, affiancata da una costante interazione tra l’organismo e l’ambiente. Essa diviene, pertanto, garante della propria capacità di amare e lasciarsi amare, favorendo la formazione di strutture cognitive responsabili della scelta del partner e dello sviluppo di relazioni sentimentali felici o distorte.

Data tale premessa, è evidente come alla base della scelta del partner vi sia un’innata tendenza a evitare ciò che appare diverso o incompatibile. Questo favorisce la trasmissione di caratteristiche genetiche del proprio gruppo di appartenenza attraverso un principio di somiglianza e familiarità, processo mediato dal mere exposure effect: quanto più siamo esposti a uno stimolo tanto più lo troviamo gradevole.

Nella relazione sentimentali adulte, infatti, proprio come nel processo di attaccamento, vengono elaborati modelli interni di Sé e dell’altro, finalizzati a fornire previsioni e aspettative sulla possibile reazione del partner ad una richiesta di cura e accudimento.

Il sistema di attaccamento nella vita di coppia si attiva attraverso un indicatore soggettivo ed esperienziale di “pericolo” nella relazione, generando vissuti emozionali di paura, tristezza, ansia, colpa, angoscia abbandonica, rabbia passiva e disprezzo verso Sé e verso l’altro. È proprio alla luce di tale attivazione emotiva che vengono agite strategie e comportamenti finalizzati al perseguire scopi sovrainvestiti e irrinunciabili.

Essere dipendenti in amore, per esempio, significa sovrainvestire di significato l’antiscopo dell’abbandono, della solitudine e della perdita di una guida esclusiva: in questo modo si asseconda la strutturazione di credenze patogene su di Sé, in termini di vulnerabilità e mancanza di autonomia, e sull’altro, considerato invece forte, salvifico e responsabile di cura. A tale sequenza di tipo cognitivo comportamentale non di rado si affiancano partner “contro-dipendenti” di tipo altruistico (“io ti salverò”) o narcisistico (“sono il tuo padrone”).

Possessività, gelosia, controllo, manipolazione, sottomissione, non coinvolgimento affettivo e anassertività rappresentano solamente alcune delle strategie di coping, ovvero modalità di adattamento, con le quali si fronteggiano situazioni stressanti; queste ultime, chiaramente, sono connesse alla scelta di partner che confermano un’immagine di Sé come non amabile, rifiutante e non degno di cura, matrici la cui origine risiede proprio nell’attaccamento primario.

Solo la mutua dipendenza di coppia, dunque, può garantire lo sviluppo qualitativo della relazione, conferendo a entrambi i partner il vicendevole ruolo dinamico di curato e curante.

L’ambiente sociale contemporaneo, individualista e atemporale, uccide la possibilità di un amore resiliente, favorendo di contro un effimero edonismo centrato sulla deresponsabilizzazione e sulla promessa di un eterno innamoramento, fase invece evoluzionisticamente destinata a essere circoscritta.

Ignorare la propria storia di sviluppo affettivo potrebbe significare continuare a reiterare errori sistematici nella scelta dei partner, destinati a innescare vissuti depressivi connessi al ciclico tradimento di un’illusiva fiducia verso una felice vita di coppia: “eterna sempre sorge la speranza come un fungo velenoso”, scriveva Charles Baudelaire.

Per approfondimenti:

Attili G., “Attaccamento e Amore”, Il Mulino, Bologna, 2004

Attili G., “Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007

Serve Aiuto? Faccio da solo, grazie!

di Emanuela Pidri

 Stile affettivo depressivo e psicopatologia grave

 Lo stile affettivo (modalità adulta di stabilire legami, compreso l’amore), essendo una forma matura di affettività, ha come caratteristica di avere maggiori possibilità di astrazione rispetto all’attaccamento infantile e tende nelle situazioni  normali  ad arricchirsi e articolarsi nel corso della vita. Lo stile affettivo è una modalità autoreferenziale di produrre pattern emotivi che si accordano con la continuità del proprio senso di sé. Pertanto, se da una parte definisce un approccio di relazione con l’altro, dall’altra questo approccio relazionale deve mantenere la coerenza con il modo in cui vive la persona. C’è una modalità dello sviluppo umano in cui il senso di solitudine sembra acquisire una centralità ed una prevalenza legata a specifiche esperienze di vita e di attaccamento. Lo stile depressivo è uno stile affettivo derivante dall’attaccamento evitante in cui, per il bambino, l’accesso alla figura di attaccamento è chiaramente poco o per nulla accessibile. La caratteristica centrale di questo stile è la sensazione di solitudine, di separazione dal resto del gruppo, dovuta all’esperienza di perdita, di abbandono, con il conseguente senso di auto-sufficienza sperimentata fin dall’infanzia, che porta a una posizione, nell’adulto, di “evitamento” dei rapporti affettivi. Le emozioni prevalentemente attivate sono la disperazione e la rabbia ed è intorno a queste due polarità che si costruisce un tema di significato personale. L’evitamento depressivo è collegato a un senso di non proponibilità interno, derivante dalla considerazione di sé come strutturalmente “non idoneo” ed è pertanto poco modificabile dal contesto esterno. Di qui il senso di inaiutabilità del depresso, di non potere e non dovere essere aiutato. L’inaiutabilità entra a far parte del sistema del sé, in quanto facilita un maggior controllo degli eventi esterni.  Ma cosa succede nelle relazioni affettive? Nei casi in cui il depresso si permette una relazione affettiva, la percezione della sua possibile perdita è immediata. Una delle strategie possibili è di evitare il coinvolgimento: “se non c’è attaccamento, non c’è separazione, meno investo nella relazione e minore sarà la sofferenza, inevitabile, per la perdita che ci sarà”. Ciò non significa che non ci possa essere l’avvicinamento all’altro, nella immediatezza della sua percezione, però successivamente vi è una ricostruzione cognitiva che riporta al ritiro e alla solitudine. Nelle forme gravi di psicopatologia (disturbi bipolari, schizofrenici, disturbi di personalità borderline, schizoide, evitante, antisociale) questo stile tende ad assumere forme e contenuti particolari. Già nelle forme “normali” si evince come alla base dello stile affettivo depressivo ci sia questa non idoneità, indegnità, non proponibilità (sentirsi fuori dal contesto sociale), sentita profondamente e continuativamente come un aspetto intrinseco del sé. Ma già qui sembra emergere una caratteristica emotiva, dovuta all’assenza o all’impossibilità di vivere emozioni piacevoli nel rapporto con persone significative. Nelle forme più gravi, come la psicosi o i disturbi di personalità, sono maggiormente compromesse le capacità di riconfigurazione dell’esperienza, di mentalizzazione e sequenzializzazione. Nell’organizzazione depressiva le forme sintomatologiche che prende questo senso di inaiutabilità e di autosufficienza, siano esse temi organizzati dal linguaggio come i deliri che modalità comportamentali e relazionali come i disturbi di personalità, tendono a strutturare questo evitamento di un confronto esterno, con modalità concrete, pervasive e continue: il senso di non poter ricorrere all’aiuto altrui porta ad auto-confermarsi il tema di solitudine e a limitare la possibilità di riscontri da parte di altri “affettivi”, vissuti come inattendibili.

 

Per approfondimenti:

Cutolo G. (1991). “L’organizzazione di personalità depressiva tra normalità, nevrosi, psicosi: un approccio cognitivista sistemico” su RASSEGNA DI STUDI PSICHIATRICI vol. LXXX Fasc. n.3 pag.344-348

Cutolo G., Coscarella C. (1991). “Appartenenza, separazione, affettività. Il Servizio Psichiatrico come base sicura” su ETRURIA MEDICA 1\91 pag. 109-113

Cutolo G. (2012). L’empatia: comprendere gli altri facendoci capire da loro. Neuroni specchio, mentalizzazione, attaccamento” su L’Altro, anno XV, n.1 genn.-apr.2012, pag.12-19

Guidano V.F. (2007) Psicoterapia cognitiva post-razionalista F.Angeli ed. Milano

Guidano V.F., Liotti, G.,  (1979). Elementi di Psicoterapia comportamentale, Bulzoni, Roma.

Guidano V.F., Liotti, G., (1983). Cognitive processes and emotional disorders, Guilford, New York 1983.

Nardi B., (2004). La depressione adolescenziale in Psicoterapia Cognitiva dell’età evolutiva, a cura di F. Lambruschi., Bollati Boringhieri, Torino

Reda, M. A. (1986). Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia. Roma: Carocci.

L’attaccamento? – Un modello che ci accompagna “dalla culla alla tomba”.

di Giuseppe Femia

Che adulto sei? Che bambino sei stato? Come ti relazioni agli altri?

Alle volte non conosciamo l’origine delle nostre emozioni, ignoriamo il motivo di taluni disagi vissuti all’interno della nostra sfera affettiva  e relazionale.

Queste domande potrebbero trovare risposta seguendo  la teoria postulata da J. Bowlby secondo cui siamo predisposti di un sistema innato di attaccamento che si sviluppa durante il primo anno di vita e si costituisce, per diventare un modello operativo di riferimento, in strutture di memoria che in qualche modo andranno a condizionare la nostra capacità di relazionarci agli altri (Bowlby J., 1980).

Attraverso l’ osservazione sperimentale di madre e bambino durante sessioni di interazione, separazione e riunione, mediante l’impiego di uno specchio unidirezionale (Strange Situation), sono stati individuati diversi stili di attaccamento (Ainsworth M. D., 2006): Leggi tutto “L’attaccamento? – Un modello che ci accompagna “dalla culla alla tomba”.”

“Anche se non l’ho portato nove mesi nella pancia, lo conosco meglio di te!”

di Martina Perini e Lavinia Lombardi

Chi non conosce il detto “pater patrimonio mater matrimonio”?

Il termine “patrimonio” viene dal latino patrimonium, composto da pater (padre) e munus (compito). In questa parola si enuclea il dovere del padre: provvedere al sostentamento della famiglia attraverso il suo lavoro e le sue risorse al fine di soddisfarne i bisogni. “Matrimonio”, dal latino matrimonium, è invece l’unione di mater (madre) e munus (dovere): nel diritto romano il matrimonio era il compito della donna, alla quale spettavano l’educazione dei figli e la gestione della famiglia. Per molti secoli, il ruolo educativo e affettivo del papà è stato spesso sottovalutato, depotenziato, lasciato in secondo piano.
Ma è davvero così irrisorio? Prendendo l’esempio tradizionale di nucleo familiare, in cui la madre è la figura di attaccamento primario, il padre ha l’importante compito di entrare nel rapporto simbiotico madre-figlio, aiutare il bambino a separarsi dalla figura materna per differenziarsi e costruire una propria identità e offrirgli l’esperienza della triangolazione, cioè di un incontro tra tre entità distinte: bambino, madre e padre. Leggi tutto ““Anche se non l’ho portato nove mesi nella pancia, lo conosco meglio di te!””

La Schema Therapy, uno sguardo ai bisogni e alle emozioni dell’età infantile

di Barbara Basile

Le esperienze negative legate alle figure di riferimento del bambino sono spesso l’origine di problematiche psicologiche nell’adulto

La “Schema Therapy” (ST) è un approccio di terapia integrato che negli ultimi anni ha ricevuto molta attenzione e consenso non solo negli USA, dove è nata, ma anche nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria, in Svizzera, in Israele, in Turchia e in Australia. Nasce principalmente con lo scopo di coprire i limiti della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) nel trattamento dei disturbi di personalità. In particolare, il suo fondatore, Jeffrey Young, si concentrò sulle problematiche emotive e interpersonali presentate dai pazienti, spesso legate a esperienze negative avvenute in età precoci.

Il modello integra elementi della TCC, della terapia della Gestalt e della Teoria dell’Attaccamento e impiega strategie di tipo esperienziale, emotivo e immaginativo, oltre alle “classiche” cognitivo-comportamentali. Leggi tutto “La Schema Therapy, uno sguardo ai bisogni e alle emozioni dell’età infantile”