Mio fratello ha il cancro!

di Emanuela Pidri

I vissuti emotivi dei fratelli dei piccoli pazienti oncologici

Per tutto il genere umano la morte non è più che un processo dentro di un altro processo che è la vita. È la conseguenza inevitabile della vita e, tuttavia, inevitabilità non significa accettazione, volontà né comprensione. Lo sviluppo della Psicologia Cognitiva ed Evolutiva ha permesso di definire il processo di acquisizione dei concetti di infermità  e morte nei bambini, così come le conseguenze che comportano i bambini oncologici,  a causa della gravità della propria condizione medica, sul nucleo familiare. Vivere con un bambino oncologico rappresenta una sfida, dal momento che costituisce sia una minaccia alla vita dell’individuo che ne soffre sia una perdita di un membro della famiglia da parte dell’intero nucleo familiare. La complessità della malattia si ripercuote anche sui fratelli, sensibili allo stato d’animo dei familiari. I fratelli dei piccoli pazienti oncologici sanno che sta succedendo qualcosa e se non hanno informazioni adeguate traggono conclusioni attingendo dalla propria fantasia. Posso pensare, ad esempio, che la persona cara li abbia abbandonati o che il loro cattivo comportamento sia la causa del cancro. Vivono sentimenti di solitudine, colpa e gelosia che possono intensificarsi quando il bambino non viene ascoltato e aiutato nel comprendere il cambio dell’attitudine paternale. I fratelli e le sorelle, soprattutto i più vicini in età al bambino canceroso, soffrono dell’atmosfera che regna nella famiglia, della disorganizzazione della vita quotidiana, della separazione, delle limitazioni del comportamento, dell’indisponibilità dei genitori. I fratelli, come i bambini oncologici, percepiscono vari timori: hanno paura di poter avere il cancro; possono aver paura di visitare il fratello in ospedale, di vederlo malato o che soffre; hanno paura che non gli si stia dicendo la verità; hanno paura di doversi separare dai genitori; soprattutto hanno paura della morte del fratello. Possono sperimentare la stessa ansia dei genitori seppur non conoscano quello che sta succedendo, si preoccupano anche di andare a scuola e affrontare domande alle quali non si può rispondere o delle quali non conoscono la risposta. I fratelli si arrabbiano perché la vita si è notevolmente alterata e hanno la consapevolezza che niente tornerà ad essere uguale a prima del cancro. Spesso si sentono colpevoli della loro stessa ira o solo per gioire della salute che il fratello malato non ha sperimentando il senso di colpa del sopravvissuto. I fratelli, inoltre, si sentono tristi quando si accorgono che il piccolo paziente è realmente malato e necessiterà di un trattamento intenso e lungo. Tanto i pazienti come i fratelli esprimono questi sentimenti in relazione con la loro età, temperamento e modo di affrontare le situazioni difficili, assumendo un ruolo di pseudo- adulto per sopprimere l’assenza dei genitori. Inoltre, le reazioni di fronte alla morte di un fratello sono varie: dalla non risposta apparente fino alla presenza di problemi somatici, aggressività, difficoltà scolastiche, alterazioni alimentari, alterazioni del ciclo sonno-veglia con presenza di incubi notturni. L’attenzione psicologica deve essere rivolta non solo ai bambini oncologici ma anche ai membri della famiglia, con particolare attenzione ai fratelli. Tale attenzione dovrebbe adattarsi ai distinti momenti della malattia, dalla diagnosi all’ospedalizzazione, dal ritorno a casa e a scuola alla sopravvivenza a lungo termine, o alla ricaduta, alla morte e al lutto. Comprendere che l’attenzione da dedicare al bambino e alla sua famiglia deve essere un continuum dalla diagnosi fino alla cura o alla morte è, forse, la base sulla quale si deve costruire un modo di lavorare che veda tutti i clinici collaborare tra loro nell’ottica di un approccio integrato che prenda in carico le varie sfaccettature del problema nel rispetto della sofferenza di tutti i membri del nucleo familiare.

Per approfondimenti:
Die Trill M., “Psico-oncología”. ADES Ediciones S.C., Madrid, 2003; pp.619-627.

Ferrari A, Dama E, Pession A, Rondelli R, Pascucci C, Locatelli F, et al. “Adolescents with cancer in Italy: entry into the national cooperative paediatric oncology Group AEIOP trials”. Eur. J Cáncer 2009;45(3):328-34.

Lansdown R. & Goldman A.: Annotation: “The psychological care of children with malignant disease”. J. Clin. Psychol. Psychiat., 1988, 29 (5), 555-567.

Maurice-Stam H, Oort FJ, Last BF, Grootenhuis MA. “Emotional functioning of parents of children with cancer: the first five years of continuous remission after the end of treatment”. Psychooncology. 2008;17(5):448-459.

 
O.J.Z. Sahler, “El nino y la muerte”. Version espanola de M.A. Fernandez Alvorez,  Editorial Alhambra S.A., Madrid, 1983; edición original: “The child and death”. C.V.  Moiby Company, University of Rochester, New York, 1978. Pp.1-25.

 
Palanca MI, Ortiz P. “La muerte del niño: procesos de afrontamiento en el paciente, la familia y el equipo médico”. An Esp Pediatr 2000; 53: 257-60

Non riesco a smettere!

di Sabina Marianelli

Il potere delle abitudini: come si formano, come si cambiano

Qual è la prima cosa che avete fatto quando vi siete alzati questa mattina? Vi siete buttati sotto la doccia, avete afferrato una merendina per fare colazione o avete messo su la caffettiera? E subito dopo? Vi siete lavati i denti, avete controllato la posta elettronica o avete infilato le scarpe? Vi siete allacciati prima la scarpa destra o la sinistra?
Nel 1892 William James scriveva che la nostra vita è solo un ammasso di abitudini pratiche e molte di quelle che ci appaiono come decisioni spesso non sono altro che automatismi. Un’abitudine da sola può apparire poco significativa, ma messa insieme a tutte le altre avrà un impatto enorme sulla nostra salute, produttività, sicurezza economica e felicità: è questo il tema che affronta il testo del giornalista del New York Times Charles Duhigg nel suo libro best seller “Il potere delle abitudini” (The power of habit), che ha venduto oltre un milione di copie.

Il testo è incentrato sul circuito dell’abitudine, meccanismo comportamentale con un preciso substrato neurale: prima c’è un segnale, una sorta di interruttore che dice al nostro cervello di entrare in modalità automatica e quale abitudine usare; poi c’è la routine fisica, emotiva o mentale, seguita, in ultimo, dalla gratificazione, in base alla quale il nostro cervello decide se vale la pena di memorizzare una certa routine.

Perché il cervello usa le abitudini? Perché cerca modi per risparmiare energia.
Il circuito segnale-routine-gratificazione diventa sempre più automatico, segnale e gratificazione si intrecciano fino a indurre un forte senso di aspettativa e craving, ossia bisogno: quando si forma un’abitudine, il cervello non partecipa più al processo decisionale.

I ricercatori del MIT iniziarono a lavorare sulle abitudini negli anni ’90, concentrando la loro attenzione sullo studio di una porzione antica del cervello: i nuclei della base, che controllano i comportamenti automatici come la respirazione, la deglutizione, la reazione alla sorpresa nonché il ricordare e agire secondo modelli. Nella vita di tutti i giorni ci sono abitudini che ci servono a risparmiare tempo e le cosiddette cattive abitudini, che spesso ci sforziamo di cambiare senza grandi successi, come il fumare, il mangiare cibo spazzatura o il non fare attività fisica.

Alcuni di noi sono alla ricerca della formula magica per cambiare le abitudini disfunzionali ma la cattiva notizia è questa formula non esiste: possiamo, però, comprendere il modello di funzionamento delle abitudini, applicando lo schema del circolo dell’abitudine. Secondo il modello è necessario:

  • identificare la routine
  • sperimentare le gratificazioni
  • isolare il segnale
  • elaborare un progetto

La routine è il comportamento, ciò che vogliamo cambiare, quindi è abbastanza facile da identificare. Più complicato è capire quale segnale lo attiva e, per farlo, è necessario sperimentare le gratificazioni, che, come sappiamo, sono molto potenti, poiché soddisfano bisogni. Se durante il lavoro vi ritrovate sempre ad andare al bar a una certa ora per mangiare un dolcetto in compagnia (supponiamo che questa sia la routine che si voglia cambiare), il modo per fare esperimenti sulle gratificazioni può essere quello di provare a fare cose diverse nei giorni: un giorno fare una passeggiata, per vedere se è di una pausa che necessitiamo, un altro giorno provando a mangiare il dolcetto alla scrivania anziché in compagnia, per testare se è per fame che lo facciamo, il giorno dopo ancora provando a mangiare una mela in compagnia al fine di testare se è di uno scambio sociale che abbiamo bisogno. Dopo ogni esperimento sarebbe importante, al fine di promuovere consapevolezza e attenzione al momento presente, appuntare pensieri ed emozioni del momento, e dopo circa 15 minuti chiedersi se il bisogno della routine c’è ancora. Stesso accurato lavoro di consapevolezza va fatto nell’identificare il segnale che fa scaturire la routine, supportati, ad esempio, dal modello ABC (evento-pensiero-emozione/azione) o dallo strumento della catena comportamentale: quale era lo stato emotivo? A cosa si stava pensando in quel momento? Cosa era successo poco prima? Con chi ci si trovava? Le risposte a queste domande permetteranno alla fine di identificare il pattern comportamentale trovando il punto del circolo dove sarà possibile intervenire.

Questo modello può essere un punto di partenza per modificare le abitudini, che necessita, naturalmente, di altri ingredienti: motivazione e impegno.

Gli effetti dei traumi infantili

di Alessandra Mancini

L’impatto delle esperienze traumatiche infantili sullo sviluppo neurobiologico e cognitivo

Le esperienze traumatiche in età infantile rappresentano, come è noto, un fattore di rischio che può predire l’insorgenza di disturbi psicologici in età adulta. Questo tema è stato approfondito ad Amsterdam al convegno della Società Internazionale di Schema Therapy. Durante una delle keynote, la professoressa Kim Felmingham dell’Università di Melbourne, specializzata in Disturbo Postraumatico da Stress (PTSD), ha citato numerosi studi che rivelano come il trauma infantile abbia un impatto significativo sullo sviluppo neurobiologico, sui processi psicologici e sul funzionamento ormonale e cognitivo.

A livello cerebrale, il modello neurobiologico prevalente del PTSD suggerisce la compromissione delle funzioni di inibizione esercitate dalla corteccia prefrontale (la parte evolutivamente più recente del cervello dei mammiferi) sulle regioni dello striato (una parte più profonda del cervello, che si occupa di elaborare l’informazione emotiva). Inoltre, evidenze raccolte tramite la risonanza magnetica funzionale (fMRI, una tecnica in grado di rappresentare per immagini l’attività delle aree più profonde del cervello) mostrano l’iperattività della regione dell’amigdala (l’area del cervello associata all’elaborazione di stimoli emotivi come la paura). A livello funzionale, questa alterazione viene rispecchiata in una iperattività del sistema di rilevamento delle minacce, che può provocare reazioni di allerta spropositate e ricordi traumatici altamente intrusivi. Nel complesso, tale quadro risulta nella difficoltà a prevenire la naturale estinzione delle risposte di paura, favorendo il mantenimento del disturbo.

Quali sono dunque le tecniche terapeutiche efficaci per il trattamento del PTSD? Alcuni studi fMRI hanno mostrato come la tecnica cognitivo comportamentale dell’“esposizione” (che consiste proprio nel confrontarsi con lo stimolo che suscita paura) e la tecnica dell’Eye-movement desentization and reprocessing (EMDR) siano efficaci nell’incrementare l’inibizione esercitata dalla corteccia prefrontale sull’amigdala e nel ridurre l’iperattività dell’amigdala stessa.
Un ulteriore aspetto del PTSD consiste nell’intrusività dei ricordi traumatici. Tali ricordi sono, infatti, generalmente frammentari, intensamente emotigeni e facilmente elicitati da stimoli ambientali (ad esempio suoni molto forti e improvvisi). Come sottolineato da Felmingham, questo aspetto può trovare una spiegazione a livello ormonale, poiché durante il trauma vengono rilasciati ormoni dello stress come noroadrenalina e cortisolo. L’arousal (attivazione psicofisiologica) durante la formazione della memoria porta ad un iper-consolidamento degli aspetti sensoriali dei ricordi traumatici e ad una contestualizzazione inferiore degli stessi, risultando in tracce mnestiche più emotigene e facilmente accessibili. Tecniche terapeutiche come quelle dell’esposizione immaginativa, accompagnata dalla ristrutturazione cognitiva (un protocollo elaborato da Ehlers e Clark dell’Università di Oxford), sono volte proprio a promuovere una narrazione coerente del trauma, volta a de-enfatizzare gli aspetti sensoriali e a facilitare l’integrazione dei ricordi traumatici nella memoria autobiografica e stanno ottenendo numerose prove d’efficacia.
Infine, l’intervento della professoressa Felmingham ha sottolineato il ruolo di periodi sensibili critici nello sviluppo dell’individuo, in grado di amplificare gli effetti stessi del trauma a livello cerebrale ed emotivo. Ad esempio, il PTSD accompagnato da dissociazione, che sembra associato all’esposizione ripetuta a eventi traumatici in età infantile e che è stato recentemente riconosciuto come un sottotipo specifico di PTSD nella quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico e dei Disturbi Mentali (DSM-5), è caratterizzato da un quadro di attivazione cerebrale differente (se non opposta) a quella descritta in precedenza, con l’iperattività delle regioni corticali prefrontali e scarsa o assente risposta dell’amigdala agli stimoli di minaccia. A livello clinico, i pazienti con questo sottotipo di PTSD sembrano non rispondere alle tecniche di esposizione e hanno bisogno di trattamenti più lunghi, volti allo sviluppo delle capacità di riconoscimento e di regolazione emotiva. Infine, Felmingham ha mostrato interessanti dati in fase di pubblicazione, che suggeriscono che l’esposizione al trauma in età infantile porti a conseguenze cerebrali diverse dall’esposizione in età adulta. In particolare, uno studio svolto con il collega Richard Bryant dell’Università UNSW di Sydney ha mostrato come, a parità di gravità dei sintomi, il trauma avvenuto in età infantile porti a una maggiore attivazione di aree come l’amigdala e la corteccia dorsolaterale prefrontale in risposta a stimoli attivanti, rispetto al trauma subito in età adulta. Questi dati non sorprendono se si pensa che il cervello in età infantile è in fase di maturazione. In particolare, le strutture neurali implicate nel trauma hanno picchi di maturazione (quindi di vulnerabilità al trauma) differenti. Ad esempio, l’ippocampo ha un picco di vulnerabilità intorno ai 2-4 anni, l’amigdala in preadolescenza (10-12 anni) e la corteccia prefrontale in tarda adolescenza (14-17 anni). L’esposizione al trauma durante questi picchi, conclude Felmingham, ha un effetto potenzialmente amplificante.

Per approfondimenti:

Felmingham, K.L. (2017). The Neurobiology of Posttraumatic Stress Disorder: Recent Advances and Clinical Implications. Australian Clinical Psychologist, 3(1) Article no. 005

Fattori genetici e malattia mentale

di Barbara Basile e Francesco Mancini

“Il mio disturbo psicologico è genetico e sarò costretto a conviverci per sempre?”

Nell’ambito della psicopatologia, sono parecchi gli studi che hanno cercato di identificare nei fattori congeniti le possibili cause o i precursori dello sviluppo di un disturbo mentale. Parallelamente, nella pratica psicoterapica, capita spesso che i pazienti lamentino che il cambiamento “è impossibile perché il loro disturbo è scritto nei loro geni!”. Ma è davvero così? Quali sono i metodi di indagine nell’ambito degli studi sui geni?
La genetica studia i geni, l’ereditarietà e la variabilità genetica negli organismi, e lo fa intervenendo su tre diversi livelli di analisi. Il primo, nonché il più diffuso, riguarda lo studio della trascrizione del DNA; il secondo, meno comune, indaga il processo successivo della trascrizione del RNA; e il terzo, il più attendibile e rigoroso, studia la trascrizione delle proteine, che rappresenta l’ultimo anello che congiunge il genotipo al fenotipo e il passaggio dai geni alle proteine. Non è un passaggio necessario ma risente dei fattori epigenetici.
Cerchiamo di capire cosa avviene in questi tre diversi livelli di analisi. Lo studio del DNA riguarda l’analisi dei polimorfismi e delle mutazioni genetiche (più rare). L’analisi dei polimorfismi può indirizzarsi allo studio dell’alterazione di un solo nucleotide (SNP, single nucleotide polymorphism) oppure alle ripetizioni di brevi sequenze di nucleotidi presenti sullo stesso cromosoma (VNTR, variable number of tandem repeats). Nell’ambito della psicopatologia, la maggior parte delle ricerche si è concentrata sullo studio dei gemelli, di bambini adottati e sul linkage, che riguarda lo studio di alleli specifici in famiglie in cui diversi componenti sono affetti da un stesso disturbo, con lo scopo di confrontarli con quelli degli altri familiari. Un quarto tipo di analisi, il Genome-Wide Association Study (GWAS), si avvale di metodi che studiano un “gene candidato”, una metodologia di studio di tipo confirmatorio rispetto al ruolo di uno o pochissimi geni designati; oppure il genoma-wide, un metodo esplorativo molto costoso, che permette di confrontare l’intero genoma di diversi individui affetti da una patologia verso individui sani, per determinarne eventuali variazioni geniche. Un grande limite nello studio del DNA consiste nell’impossibilità di esaminare il ruolo di aspetti ambientali sulla modulazione dell’espressione genica.
Un metodo di studio più approfondito, ma infrequente, indaga il processo della trascrizione del RNA. Questo segue la fase di trascrizione del DNA e si può avvalere di metodi come il Q-PCR, il MICROARRAY e il sequenziamento del RNA. Infine, il metodo più accurato e attendibile, ma anche più complesso e meno utilizzato nello studio del genoma, riguarda la codifica delle proteine.
A fianco delle ricerche sulla ereditarietà di alcuni disturbi psichici, negli ultimi anni si è fatta strada l’epigenetica, il cui nome indica letteralmente “sopra, o in aggiunta, a ciò che riguarda la genetica”. Questa disciplina studia i processi che incidono sull’espressione del genoma e controllano la sua funzione ed espressione (il fenotipo), indagando i fattori ambientali che possono intervenire sul processo di trascrizione del DNA. L’epigenetica studia come i geni, o le informazioni memorizzate nel DNA, interagiscono e si esprimono nel singolo individuo tenendo conto delle specifiche variabili ambientali a cui questi è sottoposto durante la propria esistenza. Tali variabili riguardano le abitudini alimentari, il contesto sociale, lo status socio-economico, il fumo, l’uso di sostanze, il tipo di cure parentali ricevute, le esperienze traumatiche e tante altre. Nell’ambito della comprensione della ereditarietà (o meno) dei disturbi psichici, l’epigenetica fornisce un contributo essenziale poiché l’analisi degli effetti ambientali sull’espressione genica è un passaggio imprescindibile per una accurata individuazione delle eventuali componenti ereditarie che possono intervenire nella determinazione di un disturbo.

Quei bravi ragazzi

di Carlo Buonanno

Che relazione c’è tra la psicopatia e l’eroismo?

Antonio Spavone, ‘O malommo, è stato uno tra i più temuti e rispettati boss della Camorra.
Nel 1966, Spavone è a Firenze, detenuto nel carcere delle Murate. Il 4 novembre l’Arno rompe gli argini e copre la città di melma. In pochi sanno che, prima che gli angeli del fango facessero il loro ingresso sulla scena internazionale, ‘O malommo sta per guadagnarsi la grazia dal Presidente Saragat. Mentre i detenuti cercano scampo dalle acque che invadono l’edificio, Spavone trova il tempo di salvare tre carcerati, due agenti di custodia e la figlia del direttore. Nel caos alimentato dalla paura, il pericoloso criminale eviterà anche lo stupro di due detenute e di una guardia carceraria. Niente fiction ma autentici atti di eroismo.
Che relazione c’è tra la psicopatia e l’eroismo?
In una recente ricerca, è stato preso in esame il ruolo dell’orgoglio come promotore di comportamenti prosociali in soggetti psicopatici. L’orgoglio rappresenta un’alternativa alla colpa nella promozione della socializzazione. Un dato osservato già da Freud negli anni venti, quando il padre della psicanalisi suggeriva l’esistenza di un Super-Io che punisce i comportamenti inappropriati con l’induzione di colpa e un Io che invece ricompensa con l’orgoglio i comportamenti adeguati. A metà anni novanta Lykken teorizza come, in soggetti con propensione alla psicopatia, l’esposizione a un ambiente che favorisce le esperienze di orgoglio partecipa al mantenimento di una rappresentazione di sé positiva. Sentirsi buoni e competenti poi aiuta a incanalare le propensioni negative in modalità adeguate e più adattive. Tuttavia, l’orgoglio non sarebbe un costrutto unitario. Ne esisterebbero almeno due tipi, un orgoglio autentico e un orgoglio superbo (vanità). Il primo, adattivo, è orientato al merito e caratterizzato da correlati cognitivi del tipo “Ho messo in piedi la squadra, perché mi sono allenato”. Il secondo, invece, è un fenomeno più vicino al narcisismo maligno, con i corrispettivi correlati cognitivi del tipo “Ho messo in piedi la squadra perché ho talento”. Un altro costrutto, ampiamente descritto nella letteratura sull’antisocialità, è la fearless dominance, l’assenza di paura che, insieme all’orgoglio, rappresenterebbe per gli autori della ricerca l’ingrediente fondamentale dell’eroismo.
I risultati hanno però deluso le aspettative. L’ipotesi principale, secondo la quale l’orgoglio inibisce i comportamenti antisociali e promuove atti di eroismo, è stata solo parzialmente dimostrata. Nei soggetti con alti livelli di fearless dominance, l’orgoglio autentico può potenziare l’associazione tra la fearless dominance e i comportamenti pro-sociali (leadership adattiva), una relazione che però non si estende all’eroismo. Con una buona dose di incredulità, inoltre, è l’orgoglio superbo, quello cattivo, a moderare la relazione tra l’impulsività e i comportamenti antisociali, ma in una maniera protettiva.
Insomma, c’è speranza per quei bravi ragazzi e un ambiente che inoculi massicce dosi di orgoglio sembra in parte funzionare per farli sentire bravi davvero. Resta da capire se poi questo sia sufficiente a sostenere da solo il senso di giustizia. Chissà cosa ne pensano i detrattori delle moderne crime series alla Gomorra, quelli che inneggiano alla censura e che denunciano il rischio di contagio. A scanso di equivoci, ‘O malommo è stato eroe per un giorno. Sanguinario boss della camorra per tutta la vita.

 

Per approfondimenti:

Thomas H. Costello, Ansley Unterberger1, Ashley L. Watts1 and Scott O. Lilienfeld (2018) Psychopathy and Pride: Testing Lykken’s Hypothesis Regarding the Implications of Fearlessness for Prosocial and Antisocial Behavior. Frontiers in Psychology, 20;9:185. doi:10.3389/fpsyg.2018.00185

L’intervento sul disturbo d’ansia sociale tramite l’Imagery Rescripting

di Giovanbattista Andreoli
curato da Elena Bilotta

Rispetto ad altri modelli di intervento, la terapia cognitivo-comportamentale mostra una particolare efficacia nel trattamento del disturbo d’ansia sociale (DAS). La letteratura scientifica concernente i modelli cognitivi alla base del medesimo disturbo evidenzia come fattore chiave la persistente intrusione di immagini negative quando individui con questa psicopatologia prendono parte a situazioni sociali reali o immaginate. Tali immagini consistono in rappresentazioni mentali che spesso evidenziano aspetti del proprio sé come inadeguati. Le immagini possono essere descritte in maniera talmente valida ed accurata che l’individuo può percepire pericoli laddove non sussistano, attivando contemporaneamente forti emozioni negative. Basando il proprio approccio su questi ricordi autobiografici, l’Imagery Rescripting (IR) è una tecnica relativamente recente che in combinazione con l’intervento della ristrutturazione cognitiva si è già mostrata efficace nel migliorare la sintomatologia nelle persone con DAS.
Tre sono i passi in cui l’IR si struttura: 1) il paziente richiama la memoria negativa narrandola in prima persona e descrivendo l’evento così come è accaduto; 2)l’immagine viene richiamata osservandola dalla prospettiva presente e il paziente è invitato a compiere delle rivalutazioni seguendo il suo punto di vista attuale; 3) il paziente assume nuovamente la prospettiva originaria dell’evento, ma incorporando le osservazioni elaborate durante la seconda fase.
Non esistono numerosi studi in grado di valutare l’applicazione della medesima tecnica senza la combinazione con la ristrutturazione cognitiva. Per tale ragione, Reimer&Moscovitch (2015) hanno condotto uno studio per misurarne l’efficacia secondo tale modalità. Venticinque partecipanti, tutti con diagnosi principale di DAS, sono stati divisi in due gruppi: al primo gruppo veniva somministrata una seduta di intervento IR senza ristrutturazione cognitiva, mentre al secondo gruppo non veniva somministrato alcun intervento.
I risultati hanno messo in luce come i soggetti che hanno avuto modo di sperimentare la IR riportano una sostanziale riduzione dei sintomi di  DAS, con un richiamo delle proprie memorie autobiografiche più positivo. Inoltre, i medesimi soggetti riportano marcati cambiamenti nel contenuto e nell’accuratezza delle proprie credenze principali legate alle memorie autobiografiche che possiedono.

Tali esiti mostrano come l’intervento a singola sessione di IR senza alcuna combinazione con la ristrutturazione cognitiva sia possibile ed efficace per persone con DAS. A questo punto ci si potrebbe chiedere perché non implementare un intervento come la IR, più breve e meno costoso in termini temporali ed economici, sostituendo così trattamenti più complessi attualmente utilizzati nell’intervento sull’ansia sociale. Le risposte possono essere molteplici. La prima riguarda l’efficacia dell’intervento sul campione considerato: solo il 23% dei soggetti dello studio ha raggiunto guarigione completa. Secondo, non esistono indicazioni precise riguardo al momento dell’intervento in cui precisamente debba essere amministrata la IR, o con quale tipo di pazienti. Terzo, è necessario determinare e definire meglio le competenze del terapeuta nel gestire una modalità di intervento adeguata.

I clinici dovrebbero dunque essere sempre attenti a consolidare con la pratica clinica e la ricerca nuovi protocolli d’intervento emergenti prima di sostituirli a trattamenti certamente più complessi ma con maggiore evidenza scientifica.

 

Per approfondimenti:
Reimer, S. G., &Moscovitch, D. A. (2015). The impact of imagery rescripting on memory appraisals and core beliefs in social anxiety disorder. Behaviour Research and Therapy, 75, 48-59.

 

La vita oltre il dolore cronico

                                                                                                     di Sonia di Munno

Interventi con le tecniche ACT sul dolore fisico cronico

Il dolore cronico è un grave problema di salute con un grande impatto emotivo e fisico sul funzionamento sociale dei pazienti. Quando nessuna terapia medica, chirurgica o farmacologica è in grado di rimuovere il dolore, si può solo cercare di affrontarlo con le sue correlate disabilità. In generale, il sollievo dal dolore è un obiettivo irrealistico e i trattamenti dovrebbero concentrarsi sul miglioramento della qualità della vita. L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) sottolinea la necessità dell’accettazione del dolore al fine di migliorare la vita della persona che e inoltre si focalizza sull’aumentare la flessibilità psicologica come obiettivo finale del trattamento. Nel contesto specifico del dolore cronico, aumentare la flessibilità psicologica significherebbe accettare le sensazioni dolorose, i sentimenti e i pensieri correlati al dolore e focalizzare l’attenzione sulle opportunità delle situazioni attuali, piuttosto che rimuginare sul passato perduto o su un catastrofico futuro, e orientare il comportamento alla realizzazione degli obiettivi importanti piuttosto che sul controllo del dolore. Nel 2016, Veehof, Trompetter e altri, hanno condotto uno studio di meta-analisi per indagare l’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e la mindfulness per trattare i pazienti con dolore cronico. In questa meta analisi è emerso che ci sono stati, nei vari esperimenti, una serie di risultati positivi specialmente nel lungo termine. L’aumento del numero di studi sull’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e consapevolezza per il trattamento di individui con dolore cronico ha permesso una valutazione più solida dei loro effetti sulla salute fisica e mentale dei pazienti. Venticinque studi randomizzati e controllati sono stati inclusi in questa meta-analisi. Sono stati valutati 1.285 pazienti adulti compresi tra i 35 e i 60 anni, per la maggior parte donne. I pazienti soffrivano di dolore cronico senza ulteriori specificazioni o muscoloscheletrico o con fibromialgia o con dolore specifico cronico (lombalgia cronica, mal di testa cronico) o con artrite reumatoide. Questi pazienti sono stati sottoposti alla Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia cognitiva basata sulla mindfulness, al protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), per la riduzione dello stress mediante la consapevolezza, all’ACT, alla Cognitive-Behaviour Therapy (CBT), la terapia Cognitivo Comportamentale, o a nessuna terapia. Sono stati presi in considerazione gli effetti sull’intensità del dolore, sulla depressione, sull’ansia, sull’interferenza del dolore nella vita quotidiana, sulla disabilità dovuta al dolore e sulla qualità della vita. Nel post trattamento sono emersi effetti moderati per ansia ed effetti molto significativi sull’interferenza del dolore nella vita del paziente: ciò è congruente con i modelli del trattamento basati sull’accettazione e consapevolezza (MBCT, MBSR, ACT), poiché l’interferenza del dolore, al contrario dell’intensità del dolore, è un indicatore più coerente con l’obiettivo degli interventi basati sull’accettazione e consapevolezza, che presuppongono di continuare ad andare avanti con la vita anche con il dolore. La disabilità causata dal dolore cronico, sperimentata dai pazienti, dipende anche dal grado in cui i pazienti permettono alle sensazioni del dolore di interferire con la loro vita quotidiana. La maggiore accettazione delle sensazioni dolorose, invece di combatterle, può essere correlata a una maggiore diminuzione delle interferenza del dolore nella continuazione della vita. Da due a sei mesi dopo il trattamento, l’effect size per depressione, ansia e qualità della vita erano moderati, mentre l’effect size per l’interferenza del dolore era grande. Questi effetti nel follow up, indicano che i pazienti, anche in presenza di dolore persistente, riescono nel lungo termine ad applicare i principi dei trattamenti basati sulla consapevolezza e accettazione nella loro vita quotidiana. Questi interventi, possono avere effetti indiretti sull’intensità del dolore poiché una maggiore accettazione può tamponare le sensazioni dolorose vissute come eventi stressanti da evitare assolutamente. Nel complesso, si può riassumere che individui con dolore cronico rispondono abbastanza bene a interventi basati sull’accettazione e consapevolezza e che gli effetti benefici vengono mantenuti a lungo dopo il trattamento.

Per approfondimenti:

Veehof M.M., H. R. Trompetter, E. T. Bohlmeijer and K. M. G. Schreurs; Acceptance and mindfulness-based interventions for the treatment of chronic pain: a meta-analytic review; 2016; Cognitive Behaviour Therapy, VOL.45, NO.1, 5–31; http://dx.doi.org/10.1080/16506073.2015.1098724

Prevenire l’ideazione suicidaria

di Niccolò Varrucciu

 La stimolazione cerebrale come nuovo trattamento per intervenire sui rischi del disturbo depressivo

Il tasso di prevalenza lifetime del disturbo depressivo si aggira intorno al 16%; fra i sintomi principali si annovera purtroppo l’ideazione suicidaria. In questa popolazione (depressione maggiore o disturbo bipolare) il tasso di suicidio varia fra il 15% e il 20%, rappresentando un pericolo tutt’altro che infrequente.
Il suicidio è la dodicesima causa di morte nel mondo, con cifre che si aggirano intorno alle 800.000 persone annue. È fra le tre principali cause di morte tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari.
Secondo l’Organizzazione Mondiale di Sanità, questi numeri sono destinati a crescere in modo drammatico, con una previsione di 1,5 milioni di suicidi entro il 2020.
Questi numeri, di grande impatto, possono aiutare a capire la gravità del fenomeno.
Fink e Kellner hanno sostenuto il ruolo della terapia elettroconvulsivante (ECT) nei pazienti con disturbi dell’umore e ideazione suicidaria.
Altre ricerche hanno evidenziato il ruolo del litio nella riduzione del rischio di suicidio in pazienti con disturbi dell’umore. Tuttavia, entrambi i trattamenti sono associati a effetti collaterali significativi, come amnesia anterograda e problemi renali. Alcuni risultati sono stati ottenuti con trattamenti sperimentali, come quelli con ketamina. Tuttavia, dato che il numero di suicidi a livello mondiale rimane superiore a 800.000 all’anno e che il suicidio è la seconda causa di morte nelle persone di età compresa tra 15 e 29 anni, è estremamente necessario trovare opzioni rapide per il trattamento del suicidio che affianchino le psico-farmaco-terapie che nel tempo hanno trattato questa annosa problematica.
Da alcuni anni, nel trattamento delle psicopatologie si sta affacciando la stimolazione cerebrale, in molti casi con buoni risultati.
La stimolazione magnetica transcranica ripetitiva (rTMS) è un trattamento basato sull’evidenza per pazienti con depressione maggiore resistente al trattamento.
Sebbene presumibilmente non sia efficace come l’ECT, l’rTMS sembra essere più accettabile per molti pazienti perché meno invasivo, non richiede anestesia, comporta meno stigma e non è associato ad effetti cognitivi avversi.
Uno studio CAMH pubblicato recentemente su The Journal of Clinical Psychiatry che ha preso in esame un campione di adulti con depressione resistente e ideazione suicidaria trattati con stimolazione magnetica transcranica bilaterale, unilaterale ripetitiva (rTMS ) e placebo (Sham rTMS). Per depressione resistente al trattamento s’intende la condizione in cui le persone non manifestano un notevole miglioramento dei sintomi dopo aver provato almeno due diversi farmaci antidepressivi.
I risultati sono stati confortanti: il 40% delle persone trattate con rTMS bilaterale ha riferito di non aver più avuto pensieri suicidari a fine studio, in confronto al 27% di quelli trattati con rTMS unilaterale e il 19% di quelli trattati con placebo, con una differenza statisticamente significativa fra rTMS bilaterale e placebo.
La rTMS bilaterale è stata più efficace delle altre metodologie anche nella prevenzione di pensieri suicidari in persone che all’inizio dello studio non li presentavano.
Rispetto al substrato neuroanatomico di questo trattamento, gli studi sembrano individuare il lobo frontale come punto core del trattamento dell’ideazione suicidaria.
Studi precedenti, effettuati su persone con depressione e ideazione suicidaria, hanno dimostrato come questa regione possa essere collegata con l’impulsività e le difficoltà di regolazione delle emozioni.
È interessante notare come le diminuzioni del pensiero suicidario non fossero strettamente legate alle riduzioni della gravità dei sintomi depressivi, a conferma della trasversalità di questo tipo di pensieri in numerosi quadri clinici, come Disturbo Post-Traumatico da Stress, Disturbo Bipolare, Schizofrenia, Disturbo Borderline di Personalità ecc. Questi risultati sembrerebbero individuare l’rTMS bilaterale come un valido trattamento per ridurre rapidamente l’ideazione suicidaria in pazienti con depressione resistente, anche se sono necessari ulteriori studi che analizzino gli altri quadri clinici caratterizzati da questo tipo di pensieri.

Per approfondimenti:

Weissman CR, Blumberger DM, Brown PE, Isserles M, Rajji TK, Downar J, Mulsant  BH, Fitzgerald PB, Daskalakis ZJ. Bilateral Repetitive Transcranial Magnetic Stimulation Decreases Suicidal Ideation in Depression. J Clin Psychiatry. 2018 Apr 17;79(3). pii: 17m11692. doi: 10.4088/JCP.17m11692.

 

Perfezionismo = successo terapeutico?

di Daniela Fagliarone

Effetti del perfezionismo dei terapeuti sui pazienti

Il perfezionismo è stato definito come un’eccessiva dipendenza della valutazione di sé dalla ricerca di standard personali elevati e auto-imposti in almeno un dominio importante per la persona, nonostante le conseguenze avverse. È stato riconosciuto come esso contribuisca allo sviluppo e al mantenimento di varie psicopatologie: è infatti correlato con bassa autostima, elevata sensibilità alla critica, depressione, disturbi d’ansia e alimentari, difficoltà interpersonali, disperazione e rischio di suicidio e, se non viene riconosciuto e trattato in terapia, può limitare il successo terapeutico. Cosa accade però quando ad essere perfezionista è il terapeuta? Le ricerche suggeriscono che il perfezionismo nei professionisti della salute mentale sia comune e dannoso per la guarigione del paziente, ma non esistono molti dati empirici del suo impatto, sull’esito delle terapie e sul rischio di drop-out. Vickie Presley e colleghi, ricercatori all’Università di Birmingham, hanno indagato questo legame chiedendosi in particolare se c’è una relazione significativa tra le dimensioni del perfezionismo nei terapeuti cognitivo comportamentali e i risultati del trattamento sui clienti nei punteggi di depressione e ansia e sugli effettivi drop-out dalla terapia. I risultati confermano questa ipotesi: in particolare, è emerso che i migliori risultati per i pazienti con sintomi depressivi erano associati al fatto di avere un terapeuta organizzato, che predispone materiali appropriati e di informazione da consegnare al paziente. Punteggi alti nella sottoscala “perseguimento dell’eccellenza” e “elevati standard per gli altri” del test di valutazione del perfezionismo dei terapeuti, però, erano associati a esiti peggiori nei loro pazienti depressi, perché la relazione terapeutica potrebbe essere danneggiata da queste attitudini che rischierebbero di demotivare il paziente, proponendo obiettivi irrealistici o prescrivendo compiti a casa troppo difficili. Al contrario, terapeuti che avevano riportato “bassa pressione genitoriale verso il successo” ottenevano i migliori risultati clinici con questi pazienti, probabilmente perché uno stile meno richiedente e critico a livello interpersonale è con loro più efficace. Per i disturbi di ansia, invece, i migliori risultati erano associati con quei terapeuti che avevano minori “preoccupazioni rispetto agli errori” e che non esageravano nella programmazione della seduta (farlo troppo può ridurre la collaborazione in terapia, inibire il paziente nell’esprimere i propri bisogni e far percepire lo psicoterapeuta come rigido e controllante). Chi ha elevati sintomi ansiosi già di suo può tendere, inoltre, a pianificare eccessivamente come strategia di coping, di fronteggiamento,  e questo può colludere con un terapeuta che mostra livelli troppo elevati di pianificazione, fungendo da ulteriore fattore di mantenimento dei sintomi e limitando il successo terapeutico. Altri pazienti ansiosi, invece, possono rifiutare del tutto la pianificazione per il timore di fallire e quindi possono trovare molta difficoltà a lavorare con uno psicologo con tali caratteristiche. Infine, la ricerca ha mostrato come bassi livelli di drop-out fossero associati a psicoterapeuti che non avevano elevati standard sugli altri e che non ruminavano sui propri errori ma anche con quelli che cercavano l’eccellenza in quello che facevano. In conclusione, si può affermare che le dimensioni interpersonali del perfezionismo sono importanti e identificare il proprio schema può aiutare lo psicoterapeuta a massimizzare i risultati clinici.


Per Approfondimenti:

Presley V.L., Jones C. A. & Newton E.K. (2017). Are perfectionist therapists perfect? The relationship between therapist perfectionism an client outcomes in cognitive behavioural therapy. Behavioural and cognitive psychotherapy, 45(3), pp. 225-237