I Paradossi della Psicopatologia: spiegazione e soluzione del paradosso nevrotico

a cura di Vittoria Zaccari

Francesco Mancini e Amelia Gangemi, nel libro “I Paradossi della Psicopatologia”, edito recentemente da Raffaello Cortina, affrontano una delle questioni cruciali e ben note a chi è interessato alla comprensione delle sofferenze psicopatologiche: la persistenza paradossale della sofferenza nonostante il cambiamento per il paziente appaia non solo opportuno, ma anche possibile e alla sua portata. Gli autori presentano una soluzione basata sull’idea che le motivazioni orientino automaticamente i processi cognitivi per ridurre il rischio di errori cruciali, rafforzando così le rappresentazioni alla base della sofferenza e contribuendo alla sua persistenza.

Perché continuiamo a soffrire? Come può una persona mantenere una condotta dannosa per sé, nonostante abbia accesso a tutte le informazioni necessarie, disponga delle capacità cognitive adeguate e abbia scopi che suggerirebbero la necessità di un possibile e opportuno cambiamento?

Questi interrogativi, centrali nella storia della psicopatologia, richiamano il concetto di paradosso nevrotico: una condizione in cui la sofferenza psicologica persiste nonostante esistano concrete possibilità di cambiamento.

Francesco Mancini e Amelia Gangemi centrano la loro trattazione sulla spiegazione del paradosso nevrotico offrendo una prospettiva alternativa alla psicopatologia attraverso una riflessione epistemologica che passa in rassegna diverse ipotesi e prospettive teoriche alla base della sofferenza psicopatologica e si pone, attraverso un procedere critico, analitico e riflessivo di analizzare diversi approcci che tentano di spiegare la persistenza della psicopatologia, proponendo soluzioni al paradosso nevrotico al fine di comprendere la psicopatologia, o almeno una parte significativa di essa.

Gli autori hanno identificato diversi limiti e proposto alternative per comprendere perché gli esseri umani sperimentano la sofferenza e continuano a persistere in essa, indagando il motivo per cui i pazienti non cambiano verso un percorso più sano, meno doloroso e più funzionale ai propri scopi, nonostante le informazioni a loro disposizione lo consentirebbero.

Superando i concetti disposizionali e i deficit, secondo gli autori più descrittivi che esplicativi, la loro prospettiva teorica ha identificato il filo conduttore, e quindi la soluzione al paradosso nevrotico, nell’idea che i processi cognitivi siano regolati esclusivamente dalle motivazioni.

La lettura può essere ben compresa attraverso “lenti” cognitiviste ingenue che richiamano in gioco l’importanza delle motivazioni come determinanti prossimi della sofferenza nella psicopatologia superando la concettualizzazione del cognitivismo clinico tradizionale, che attribuisce a credenze disfunzionali e a processi cognitivi irrazionali il ruolo di determinanti psicologici prossimi della psicopatologia o il ricorso a concetti disposizionali o a deficit cognitivi che presentano,  secondo la prospettiva epistemologica degli autori,  numerose critiche, sostenendo dunque l’importanza delle motivazioni nella sofferenza emotiva e la loro paradossale persistenza nella psicopatologia.

Tali premesse rivelano come gli autori affrontino un problema cruciale per la comprensione e il trattamento psicoterapeutico dei disturbi mentali: la sofferenza attribuibile alle motivazioni piuttosto che a danni neurali o deficit. Questa prospettiva illumina i “paradossi” nella psicopatologia, che ha condotto gli autori ad offrire una spiegazione della persistenza paradossale di investimenti fallimentari che caratterizzano i disturbi mentali.

Secondo gli autori il paradosso nevrotico sorge dalla possibilità e dall’opportunità apparente di un cambiamento che rimane inattuato: “Errare humanum est, perseverare autem insanum”. L’aforisma per gli autori coglie l’essenza del paradosso nevrotico vale a dire la persistenza di linee di condotta – definite anche SuperInvestimenti   o “Effetto Cannocchiale” e atteggiamenti cognitivi prudenziali.

Gli autori ci tengono a sottolineare come nel dominio della psicopatologia appare congruo parlare di persistenza paradossale, operando un distinguo con i disturbi in cui il cambiamento autonomo non è nelle possibilità del paziente, come plausibilmente accade nei disturbi del neurosviluppo o nei quadri neurologici.

Il libro si dipana attraverso tre distinte parti, con il paradosso nevrotico come fulcro centrale della trattazione.

Nella prima parte introduttiva, gli autori definiscono il disturbo mentale e il ruolo della sofferenza emotiva e della compromissione della realizzazione personale. Essi enfatizzano come nella comprensione dei disturbi mentali vi sia un accordo condiviso sul concetto di rigidità come resistenza al cambiamento versus la flessibilità vista come possibilità di cambiamento e dunque salute mentale. Tuttavia, la resistenza al cambiamento e la flessibilità sono per gli autori termini descrittivi, utili solo per fini diagnostici e predittivi, ma senza nessun potere esplicativo del paradosso. Pertanto, puntano ad analizzare più approfonditamente le cause della rigidità e della resistenza al cambiamento.

Il libro si sviluppa ulteriormente in due sezioni distinte. La seconda parte, intitolata “pars destruens”, è dedicata è dedicata alla critica delle possibili soluzioni al paradosso nevrotico. Vengono esaminate criticamente alcune delle risposte più note, come il vantaggio secondario e analizzano le ipotesi esistenti e le loro limitazioni, sottolineando come molte di esse non riescano a spiegare adeguatamente la persistenza della sofferenza psicologica.

Nella terza parte, chiamata “pars construens”, gli autori espongono le loro tesi e delineano i presupposti fondamentali che sostengono il loro approccio teorico.

La tesi generale che propongono si basa su alcuni assunti generali.

In primo luogo, gli autori assumono che il piano privilegiato di spiegazione di molti disturbi sia mentale, dove sono rappresentati ed elaborati i significati personali, vale a dire le credenze e gli scopi del paziente versus altri disturbi il cui piano ottimale di spiegazione è considerato come non mentale, ma neurologico o neuropsicologico. Secondo gli autori in questi ultimi casi il paradosso è risolto poiché viene a mancare una delle sue condizioni, vale a dire il potere di cambiare la propria condizione (ad esempio come nel paziente affetto da malattia di Parkinson cambiare i propri sintomi).

Gli autori sottolineano che il piano personale sia da preferire in quei disturbi che sono caratterizzati soprattutto da emozioni qualitativamente appropriate, ma significative per intensità e durata.

In contrasto con la prospettiva processualista sostengono che i contenuti mentali sono indispensabili per comprendere la sofferenza emotiva e che i processi cognitivi sono normalmente regolati dai contenuti della mente, cioè da scopi e credenze in linea con la Motivated Cognition.

Concetto cardine del libro può essere ben compreso nella critica che gli autori pongono al “partizionismo” contestando l’idea che la mente sia composta di parti in interazione fra loro ma indipendenti, ciascuna regolata da propri specifici principi. A tal riguardo riprendono la tradizionale e scontata distinzione fra cognizione/ragione ed emozione/passione posizione ben espressa nella metafora dell’Auriga di Platone, il quale cercava di spiegare la più evidente delle irrazionalità pratiche riscontrabili nella condotta individuale: le akrasie, quei conflitti in cui, pur riconoscendo ciò che è buono, giusto e opportuno e desiderando perseguirlo, ci si dedica invece a ciò che danneggia. Gli autori suggeriscono l’opportunità di una rappresentazione della mente come un sistema strutturalmente e funzionalmente integrato. In particolare, ritengono che la tradizionale distinzione fra cognitivo ed emotivo sia da superare, suggerendo in modo forte che ogni evento emotivo sia anche cognitivo e che gli atti cognitivi non siano davvero neutri, cioè privi di connotazioni motivazionali ed emotive.

Un altro assunto, di particolare importanza per la loro tesi, è che i processi cognitivi siano orientati dalle motivazioni in modo sistematico, e non occasionale, rispettando il principio del pedmin (Primary Error Detection and Minimization). I processi cognitivi, secondo gli autori, al pari del comportamento, sono al servizio delle motivazioni che guiderebbero in modo automatico, non previsto e non intenzionale, a prevenire gli errori che in un dato momento apparirebbero più costosi. Il ricorso al pedmin inoltre, per gli autori, consentirebbe di legare le motivazioni ai processi cognitivi coinvolti nella minimizzazione di errori cruciali per l’individuo senza cadere nei paradossi della teoria standard dell’autoinganno che richiama la partizione funzionale fra coscienza secondaria e coscienza primaria o inconscio cognitivo per dar conto di come le motivazioni agiscano sui processi cognitivi e sulle credenze. Gli autori sostengono e propongono come soluzione che si arriva a credere qualcosa nonostante le informazioni disponibili e le capacità cognitive dell’individuo giustificherebbero credenze opposte illuminando come motivazioni possano influire su ciò che si accetta o si rifiuta di credere, senza cadere nell’autoinganno.

Il nocciolo della loro tesi è che gli investimenti sottesi da forti motivazioni e accompagnati da intensa emotività orientino i processi cognitivi in accordo con il principio del pedmin, vale a dire in modo da evitare di abbandonare erroneamente le credenze che sostengono l’investimento e di assumere erroneamente credenze che sostengono investimenti alternativi. Di conseguenza è più probabile che l’investimento persista, pur se fallimentare e anche se le informazioni disponibili alla persona giustificherebbero un cambiamento.

Inoltre, gli autori focalizzano tali argomentazioni sull’innesco dei processi ricorsivi che rafforzano l’investimento iniziale, facilitati dall’alta motivazione alla base dell’investimento stesso.

La loro tesi è che nei disturbi mentali, o meglio in alcuni di essi, il valore degli investimenti critici sia elevato per la tipologia degli scopi coinvolti e per alcune credenze. Gli scopi in questione, secondo gli autori, sono scopi ad alto valore in tutti perché definiscono il senso della propria identità e della propria esistenza e vengono definiti come scopi prescrittivi o normativi. Questi scopi definiscono ciò che per la persona deve accadere o non accadere, ovvero il livello di frustrazione accettabile, rafforzandone la motivazione. Dunque, gli scopi prescrittivi contribuirebbero al valore di un investimento, soprattutto perché ne definiscono i livelli di compromissione accettabili e dunque le condizioni alle quali si può ridurre o rinunciare a un investimento.

In maniera associata, gli autori sottolineano l’importanza delle valutazioni negative delle emozioni connesse con la compromissione o la minaccia di compromissione dell’investimento stesso, chiamando in gioco l’importante ruolo del problema secondario, che segnala lo stato dei propri investimenti e svolge un ruolo importante nel potenziamento degli investimenti stessi. Infatti, la motivazione al successo dell’investimento aumenta perché si aggiunge ad essa anche lo scopo di disattivare quell’emozione. Gli autori a tal riguardo parlano di “effetto cannocchiale”: maggiore è la motivazione, maggiore è l’investimento.

Infine, gli autori hanno posto attenzione anche ad alcuni fattori transdiagnostici di vulnerabilità alla psicopatologia, come il nevroticismo (inteso come iperreattività alle emozioni o disregolazione delle stesse) e la sfiducia epistemica, intesi come fattori di vulnerabilità che agevolano i disturbi mentali poiché influenzano le cause della persistenza paradossale degli investimenti fallimentari.

La tesi proposta viene ampiamente esemplificata e descritta attraverso diversi casi clinici presentati in diverse sezioni del libro. Questi esempi clinici offrono un interessante spunto di riflessione, permettendo di comprendere più a fondo il paradosso nevrotico.

Sulla scia delle riflessioni e della tesi proposta, gli autori concludono l’opera ponendo l’attenzione alle implicazioni terapeutiche.

Secondo la loro tesi proposta, uscire dai processi ricorsivi che alimentano il paradosso, presuppone la riduzione della motivazione alla base degli investimenti, dunque, l’uscita ottimale dai processi ricorsivi avverrebbe per mezzo dell’accettazione e dunque attraverso la riduzione della motivazione o della rinuncia all’investimento fallimentare. Gli autori considerano l’accettazione uno stato mentale caratterizzato dal riconoscimento che un determinato assetto della realtà, rilevante per l’individuo e di solito negativo, sia congruo con ciò che la persona assume sia giusto che accada o per lo meno non sia in contrasto con esso.

Inoltre, si soffermano sul ruolo cruciale nel trattamento della riduzione degli scopi prescrittivi che porterebbe ad una maggiore accettazione delle minacce da prevenire, dei fallimenti e delle perdite che si cerca di contenere.

Secondo gli autori, la definizione dello stato mentale di chi accetta consiste nel riconoscimento della congruenza, o almeno di una minore incongruenza, fra scopi prescrittivi e la rappresentazione della realtà, in particolare delle proprie emozioni e del rischio di fidarsi degli altri; pertanto, illustrano l’importanza di aiutare il paziente a ridurre “l’effetto cannocchiale” focalizzando la sua motivazione anche su scopi alternativi esistenzialmente importanti.  In questo modo si ridurrebbe il valore relativo dell’investimento fallimentare grazie al confronto con scopi più significativi essenziali per il suo benessere esistenziale.

“I Paradossi della Psicopatologia” è un’opera complessa e articolata che sfida le convenzioni tradizionali della psicopatologia. Rappresenta un contributo fondamentale per la comprensione della sofferenza psicologica e della sua persistenza.  Gli autori offrono una prospettiva innovativa che privilegia le motivazioni come chiave per comprendere la persistenza della sofferenza psicologica fornendo preziose suggestioni per il trattamento terapeutico. Il libro rappresenta una lettura indispensabile per chiunque sia interessato a una comprensione più profonda e integrata della psicopatologia, suggerendo nuove vie per il trattamento e la terapia.

Per approfondimenti

Mancini, F.  Gangemi, A. (2024), I paradossi della psicopatologia, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Un libro sulla Psicoterapia Cognitiva

di Ivan Pavesi

Claudia Perdighe e Andrea Gragnani guidano il lettore nel comprendere e curare i disturbi mentali 

È stato pubblicato, per Raffaello Cortina Editore, il testo “Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali”, a cura di Claudia Perdighe e Andrea Gragnani. Il libro si compone di diversi capitoli, organizzati in tre parti e in circa mille pagine.

Recensirlo interamente è un’impresa per menti più precise e coraggiose della mia. Mi limiterò, invece, a dire quella che secondo me è la struttura portante del libro, facendo sì che sia questa a rendere evidenti i vantaggi implicati dalla prospettiva teorica adottata.

La prima parte si occupa della teoria che permette di comprendere la sofferenza psicopatologica; la seconda parte si occupa delle tecniche volte alla promozione del cambiamento; la terza parte espone i quadri psicopatologici, mostrando come la teoria li spieghi al fine di programmare l’intervento psicoterapeutico.

È un’opera di grande respiro, che richiede consistente impegno di tempo e attenzione per la lettura.

In psicoterapia cognitiva, occuparsi di teoria significa organizzare le conoscenze in funzione di una domanda: perché il paziente soffre? Per dare una risposta a questa domanda bisogna avere una teoria della mente e, nello specifico, una teoria della mente in sofferenza.

Gli autori, un gruppo di pratica e di ricerca coeso, hanno scelto di rivolgersi alla teoria scopistica (goal-directed systems) e alla psicologia del senso comune (folk psychology), che prende il nome di Teoria della Mente (ToM).

Brevemente, la teoria scopistica si occupa di come un sistema raggiunge i propri scopi, date certe conoscenze e in forza delle quali organizza, off-line o on-line, un piano d’azione.

 Il comportamento psicopatologico, una specifica tipologia di piano d’azione, rientra in questa definizione. Un approccio scopistico consente quindi di comprendere qual è il rapporto che si instaura tra scopi e piani d’azione che flettono verso la psicopatologia.

Per quanto riguarda la ToM, poiché comunemente ci spieghiamo il comportamento delle persone in termini di “ciò che desiderano” e “ciò che sanno”, appare ragionevole avvantaggiarsi di questo “strumento” che è patrimonio comune tanto dello psicoterapeuta quanto del paziente.

L’altro vantaggio pratico è che la ToM non è solo uno strumento che usiamo nel chiuso della nostra mente per capire gli altri ma è anche una effettiva interfaccia che usiamo quotidianamente nelle interazioni: “pensavo volessi andare insieme a me”, “non credevo fosse importante per te” etc. E quindi la ToM è anche l’interfaccia tra clinico e paziente.

Cosa succede quando la mente va in sofferenza?

In base alla teoria scopistica, la sofferenza si verifica nel momento in cui uno scopo è percepito come minacciato o compromesso. Quindi la sofferenza risponde a un criterio di FIFA (Fear of Intolerable Frustration of Attainability). Detto più banalmente, i nostri pazienti hanno “fifa” di qualcosa e questo già di per sé è piuttosto rilevante. Citando lo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, “bisogna avere rispetto per le fife dei pazienti” poiché esse indicano, come abbiamo visto, la minaccia o la compromissione di qualcosa che desideriamo o, addirittura, un danno rispetto a qualcosa che pensiamo raggiunto: quindi la nostra mente si comporta come se fosse in trincea.

Se comunemente investire in uno scopo richiede che per il raggiungimento di esso si indirizzino le proprie risorse cognitive (es. “come faccio a conquistare X? Potrei proporre un’uscita al cinema; pensare di vestirmi in modo da fare colpo, nel caso in cui ciò fosse per X rilevante, e fare commenti senza senso nella speranza che X vi veda un significato profondo, come succede spesso nelle recensioni dei film che si leggono sul giornale”), questo è ancora più vero quando percepiamo una minaccia o compromissione dello scopo: tendiamo a evitare di commettere quegli errori di valutazione che ci avvicinerebbero alla compromissione e iniziamo a notare tutti quei segni che ci informano della sua vicinanza, poiché sottovalutare la minaccia ha un costo maggiore e, per conseguenza, tendiamo ad adottare una condotta prudenziale. Riprendendo la metafora della mente in trincea, sotto assedio faremmo di tutto per evitare di morire.

Questo orientamento dei processi cognitivi, volto a scongiurare ciò che la fifa segnala, declina specifici stili inferenziali. Nei disturbi ansiosi, avremo uno stile inferenziale Better Safe Than Sorry (“meglio prudenti che dolenti”); nel disturbo ossessivo-compulsivo lo stile RH (Rock Hudson); in quello depressivo il Wishful Thinking (pensiero desiderante o pia illusione).

Tale fifa sarà tanto maggiore quanto più ciò che essa segnala sarà vissuto come inaccettabile. Infatti, più avremo investito in uno scopo (sunk costs), più ci sembrerà inaccettabile rinunciarci; più non mettiamo in conto di doverci rinunciare, cioè più ci sembra consequenziale e giusto il raggiungerlo (belief in a just world), più investiremo nella sua protezione: costi quel che costi. Ed ancora, più pensiamo che aver perso un bene conseguito sia non consequenziale o ingiusto e più accettarne la perdita sarà inconcepibile. L’alternativa sarebbe infatti vivere in un mondo senza prevedibilità o senza giustizia, almeno per le cose che ci premono.

L’ossatura del libro sembra essere questa. Ed è da questa che discende tanto uno specifico modello di formulazione del caso quanto una specifica teoria della tecnica psicoterapeutica e, poi, l’applicazione di queste a specifici disturbi.

Una parte che merita a mio avviso attenzione è quella dedicata alla promozione del benessere. L’importanza di questa parte ci viene detta chiaramente dalla scopistica e dalla ricerca in psicologia: quando uno scopo è attivo, e quindi le risorse ad esso destinate sono reclutate, si verifica una defocalizzazione funzionale degli altri scopi e tale meccanismo è amplificato in stato di minaccia.

Nel libro, gli autori spiegano questa scelta così: “è stato dato spazio a tutti quegli interventi cognitivo-comportamentali esplicitamente orientati a costruire condotte funzionali e ad aiutare il paziente a investire su scopi e valori per lui significativi, nonostante il disturbo” (p.371). Infatti, proprio perché la focalizzazione sulla minaccia sottrae risorse e tende a impoverire il piano esistenziale del paziente, appare più che ragionevole “proporre interventi che promuovono il ‘buon funzionamento’ (nelle sue diverse accezioni, da resilienza a benessere), cioè la costruzione di condotte antagoniste alla patologia e che sono di prevenzione ad ampio spettro dalla ricaduta” (p. 344).

Sono diverse le cose entusiasmanti di questo libro. Da un lato la teoria stessa che viene utilizzata per capire la sofferenza umana, che è una teoria che permette di darci conto anche della quotidianità. Dall’altro lato l’esposizione di tecniche “riformulate” in coerenza con la concezione scopistica della sofferenza e quindi, attraverso il passaggio della formulazione del caso, orientate al target di intervento. Non ci sono “protocolli seriali” da seguire bona fide ma un ragionamento clinico che si dipana in base alla formulazione del caso e che consente di assemblare l’intervento: dell’astrazione scopistica al paziente concreto. I quadri psicopatologici che seguono queste due parti sono informati da questa logica della spiegazione. Questi quadri, importanti per la specializzazione della teoria e la specifica spiegazione del funzionamento resa disponibile dall’esperienza del gruppo di autori, possono essere considerati come degli esercizi con soluzione. E l’ultimo capitolo, sui disturbi di personalità, può considerarsi come una serie di esercizi con soluzioni parziali.
Penso che uno degli aspetti rilevanti di questo libro sia proprio questo: offrire la possibilità di imparare a ragionare clinicamente.

Per approfondimenti

Friedrich J. (1993). Primary error detection and minimization (PEDMIN) strategies in social cognition: A reinterpretation of confirmation bias phenomena. Psychological Review, 100(2), 298–319. https://doi.org/10.1037/0033-295X.100.2.298

Premack, Woodruff (1978). Does the chimpanzee have a theory of mind? Behavioral and Brain Sciences, 1(4), 515–526 https://doi.org/10.1017/S0140525X00076512

Beck J (2021). Cognitive Behavior Therapy. Basics and Beyound. 3rd edition. Guilford Press

Beck A, Grant P, Inverso E, Brinen A, Perivoliotis D (2021). Recovery-Oriented Cognitive Therapy for Serious Mental Health Conditions. Guilford Press

Gli scrupoli di un uomo devoto

di Manuel Petrucci

Il disturbo ossessivo-compulsivo nel racconto di un vescovo del ’600

La letteratura, la storia e la filosofia hanno offerto, nei secoli, descrizioni mirabili della vita mentale umana, precedendo, o anche talvolta superando in raffinatezza, lo studio scientifico che ne fanno la psicologia e la psichiatria.

Nel caso del senso di colpa, emozione che occupa certamente un posto di rilievo nella psicopatologia, è celebre la figura shakespeariana di Lady Macbeth che cerca di lavare via simbolicamente l’orrore dei delitti che ha istigato, tanto che gli studi moderni hanno denominato “Macbeth effect” l’evidenza che la colpa può aumentare il senso di contaminazione e i comportamenti di lavaggio. Il Dostoevskij di Delitto e castigo e il Poe de Il cuore rivelatore ci hanno successivamente lasciato un affresco dei tormenti angosciosi, corrosivi, persino allucinatori a cui può andare incontro chi ha mano macchiata di sangue per omicidio. Il meno conosciuto Jeremy Taylor, vescovo della Chiesa di Inghilterra nell’era Cromwell (XVII secolo), in un suo trattato teologico ci ha invece fornito un sorprendente ritratto di come anche una trasgressione morale molto più blanda di un omicidio, o soltanto il dubbio di una simile trasgressione, possa essere per alcune persone una fonte di preoccupazione tale da motivare sforzi estenuanti per scongiurarla, o per porvi rimedio. È il caso di chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che Taylor definisce come “scrupolo”:

“A scruple is a great trouble of mind proceeding from a little motive, and a great indisposition, by which the conscience though sufficiently determined by proper arguments, dares not proceed to action, or if it doe, it cannot rest. That it is a great trouble, is a daily experiment and a sad sight. […] They repent when they have not sinned, and accuse themselves without form or matter; their virtues make them tremble, and in their innocence they are afraid; they at no hand would sin, and know not on which hand to avoid it: and if they venture in, as the flying Persians over the river Strymon, the ice will not bear them, or they cannot stand for slipping, and think every step a danger, and every progression a crime, and believe themselves drowned when they are yet ashore. Scruple is a little stone in the foot, if you set it upon the ground it hurts you, if you hold it up you cannot go forward; it is a trouble where the trouble is over, a doubt when doubts are resolved”.

(Uno scrupolo è un grande disagio della mente che si origina da un motivo trascurabile, e da un grande malessere, per cui la coscienza, pur essendo supportata da validi argomenti, non osa procedere all’azione, o, se lo fa, non riesce poi a trovare pace. È un grande disagio, esperito ogni giorno, triste a vedersi. […] Gli scrupolosi si pentono quando non hanno peccato, e accusano se stessi senza alcun fondamento; tremano nella virtù, temono nell’innocenza; si interrogano su come evitare il peccato, anche se non peccherebbero per alcuna ragione; se osano avventurarsi, come accadde ai Persiani in fuga sul fiume Strimone, il ghiaccio si sgretolerà o li farà scivolare, ogni passo sarà un pericolo, ogni progressione un crimine, e si crederanno annegati pur trovandosi a riva. Lo scrupolo è un sassolino nella scarpa, posizionato sotto fa male per il contatto con il suolo, posizionato sopra impedisce l’andatura. È un problema quando il problema è superato, un dubbio quando il dubbio è risolto).

Emergono, da questa descrizione, alcune tra le caratteristiche più salienti del DOC: la pervasività dei timori di colpa, la sofferenza a cui danno vita, l’impossibilità di pervenire a una definitiva rassicurazione nonostante i tentativi e i proper arguments. Questi elementi sono ancora più evidenti nell’esempio riportato da Taylor in un successivo passaggio: 

“William of Oseney was a devout man, and read two or three Books of Religion and devotion very often, and being pleased with the entertainment of his time, resolved to spend so many hours every day in reading them, as he had read over those books several times; that is, three hours every day. In a short time he had read over the books three times more, and began to think that his resolution might be expounded… and that now he was to spend six hours every day in reading those books, because he had now read them over six times. He presently considered that in half so long time more by the proportion of this scruple he must be tied to twelve hours every day, and therefore that this scruple was unreasonable; that he intended no such thing when he made his resolution, and therefore that he could not be tied… he remembered also that now that profit of those good books was received already and grew less, and now became changed into a trouble and an inconvenience. . . and yet after all this heap of prudent and religious considerations, his thoughts revolved in a restless circle, and made him fear he knew not what. He was sure he was not obliged, and yet durst not trust it… Well! being weary of his trouble, he tells his story, receives advice to proceed according to the sense of his reason, not to the murmurs of his scruple; he applies himself accordingly. But then he enters into new fears; for he rests in this, that he is not obliged to multiply his readings, but begins to think that he must doe some equal good thing in commutation of the duty… He does so; but as he is doing it, he starts, and begins to think that every commutation being intended for ease, is in some sense or other a lessening of his duty… and then also fears, that in judging concerning the matter of his commutation he shall be remiss and partial… What shall the man doe? After a great tumbling of thoughts and sorrows he begins to believe that this scrupulousness of conscience is a temptation, and a punishment of his sins, and then he heaps up all that ever he did, and all that he did not, and all that he might have done, and seeking for remedy grows infinitely worse, till God at last pitying the innocence and trouble of the man made the evil to sink down with its own weight, and like a sorrow that breaks the sleep, at last growing big, loads the spirits, and bringing back the sleep that it had driven away, cures it self by the greatness of its own affliction”.

(William di Oseney, un uomo devoto, leggeva di frequente due o tre libri di religione, con tale diletto che si propose di trascorrere nella lettura ogni giorno il numero di ore corrispondente al numero di volte che aveva letto i libri. In breve tempo ebbe letto i libri tre volte in più, ed estese quindi il suo proposito di lettura a sei ore al giorno, dato che aveva letto i libri sei volte ormai. Iniziò a realizzare che seguendo le proporzioni dello scrupolo si sarebbe trovato nella metà del tempo speso fino ad allora a dover leggere dodici ore al giorno, e lo scrupolo gli parve dunque irragionevole. Non aveva intenzione di arrivare a questo con la sua risoluzione, e pertanto non poteva esserne vincolato. Ritenne inoltre che il beneficio dell’aver letto quei libri fosse ormai tratto, e fosse anzi diminuito al punto da diventare un cruccio e un inconveniente. Eppure, dopo questa serie di considerazioni prudenti e religiose, i suoi pensieri vorticavano in un circolo senza requie. Era sicuro di non essere vincolato, eppure non osava crederci. Divenuto cosciente del suo disagio, raccontò la vicenda, e ricevette consiglio di procedere seguendo il senso della sua ragione, non i capricci dello scrupolo. Si dispose dunque ad agire in tale direzione, quando entrò in nuove paure: poteva non essere obbligato a intensificare le sue letture, ma avrebbe dovuto fare una buona azione di egual misura, in corrispondenza del debito. Fece dunque così, ma iniziò a pensare che ogni buona azione compiuta fosse votata al sollievo, e potesse quindi intendersi in qualche modo come un alleggerimento del suo dovere. Si spaventò allora di essere giudicato negligente e manchevole nella sua commutazione. Cosa avrebbe dovuto fare? Dopo un gran turbinio di pensieri e inquietudini cominciò a credere che la scrupolosità della sua coscienza fosse una tentazione, e una punizione per i suoi peccati. Ripercorse allora tutto ciò che aveva fatto nella vita, tutto ciò che non aveva mai fatto, tutto ciò che avrebbe potuto fare, e nella ricerca del rimedio la situazione peggiorava infinitamente, finché Dio, impietosito dall’innocenza e dalla sofferenza dell’uomo, fece sprofondare il male con il suo stesso peso, curando la grandezza dell’afflizione, riportando il sonno laddove era stato spezzato da quel dolore, che ingigantitosi aveva oppresso lo spirito).

La necessità di violare un proposito, nonostante fosse stato formulato autonomamente e per puro diletto, e non implicasse alcun danno per altri, ha innescato una spirale di timori legati alla possibilità di essere giudicato inadempiente, e per questo punito. È chiaro come le strategie adottate per risolvere il problema, affidate al sense of reason, abbiano generato nuovi timori e nuove ruminazioni, fino a portare al tentativo estremo di passare al vaglio l’intera esistenza, vissuta e potenziale. Il finale diventa ironico se pensiamo che quello stesso Dio di cui William teme il giudizio ha in realtà uno sguardo compassionevole sul suo dolore, alleviandolo. 

Se le manifestazioni del DOC conservano le proprie peculiarità attraverso i secoli, ciò che è cambiata è la conoscenza del funzionamento di questo disturbo e gli strumenti terapeutici efficaci di cui disponiamo. La cura al giorno d’oggi non ha bisogno quindi di chiamare in causa interventi divini, ma se è vero che Dio ci aiuta quando siamo i primi ad aiutare noi stessi… Ecco un motivo in più per andare in terapia! 

Per approfondimenti:
Estratto da Jeremy Taylor, Ductor dubitantium, or the rule of conscience (London: Royston, 1660, 2 voll.), citato in Hunter, R., & Macalpine, I., Three hundred years of psychiatry, 1535-1860 (London: Oxford University Press, 1963, p. 163-165) [Traduzione: MP]

Le istituzioni ponte di affetti

di Roberto Petrini
Perché competere è cosi importante per determinare la nostra identità e il nostro successo individuale?
Lo psicologo britannico John Bowlby, partendo dalle intuizioni di Konrad Lorenz, comprese per primo come agisce la disposizione innata a cercare cura e conforto quando ci troviamo in una situazione di pericolo, malattia o solitudine; per ricevere aiuto ci orientiamo verso chi consideriamo più forte e saggio. Bowlby è consapevole di come il sistema che descrive influenzi anche gli altri sistemi motivazionali come la cooperazione e la costruzione delle relazioni interpersonali.
Molte delle nostre motivazioni ci spingono a costruire legami interpersonali e ci guidano poi nella costruzione di significati che useremo per adattarci all’ambiente. Le relazioni interpersonali positive come i farmaci sono in grado di regolare i nostri neurotrasmettitori nei punti strategici del nostro cervello. Relazioni basate sulla fiducia, tolleranza e rispetto fanno crescere la disponibilità della serotonina, mentre le relazioni aggressive e competitive ostacolano la disponibilità di questo neurotrasmettitore.
 Per sentirci “nutriti affettivamente”, dobbiamo per forza riferirci a un gruppo, dove grazie alla condivisione, si realizzano dei legami positivi e grazie a questi un clima di fiducia e ottimismo. Il principio consumistico opera anche nei gruppi, le economie di cambiamento incoraggiano le rotture a svantaggio della riconciliazione, del ricongiungimento e mediazione dei conflitti.
Nel gruppo, se domina l’atteggiamento competitivo, spesso non si forma nessun vincolo sentimentale e i sentimenti ostili alla fine arrecheranno dei danni.Il clima agonistico ci farà essere rapidi nelle nostre valutazioni, rigidi e rigorosi, attenti ai segnali di pericolo; proveremo rabbia, paura, invidia, disprezzo e saremo orgogliosi. Questo tipo di pensiero ci porterà a considerare solo le nostre ragioni e quelle dei nostri compagni di scontro, ma non ci metterà in condizione di decentrarci e quindi in grado di cogliere le ragioni dell’altro; alimenterà il sospetto e la polarizzazione dei pareri.
I vincitori alla fine si trasformano in vinti: per legge di natura, “la fiumana del progresso”, descritta da Giovanni Verga, alla fine travolge tutti. Mastro don Gesualdo, dopo aver conquistato potere e rispetto, è schiacciato dall’aridità degli affetti di chi lo circonda, dalla solitudine.
I beni primari, nella maggior parte delle società, non sono scarsi. Allora perché competere è cosi importante per determinare la nostra identità e il nostro successo individuale? Non è più vantaggioso collaborare per raggiungere obiettivi comuni per poi dividersi e condividere gioie e risultati? Come fare adesso che la fiducia e la generosità dei singoli è stata logorata da decenni di condizioni disoneste?
Le istituzioni ponte di affetti come l’oratorio, la sede di partito, la società sportiva, il circolo, le associazioni creano un collegamento di fiducia e affetti tra le persone, aumentano tolleranza e visione ottimistica del mondo. I gruppi che generano relazioni emotive ci discostano dal pensiero individualista, pongono un obiettivo sentito come comune, che avvicina le persone e crea legami e valori condivisi. Spesso siamo più felici quando ci mettiamo da parte e andiamo verso qualcun altro, oltre noi stessi, verso un gruppo dove viene soddisfatto il nostro bisogno di dare e ricevere nutrimento affettivo.
Il grado di fiducia tra le persone, le reti relazionali che si creano e la disponibilità a cooperare determinano la motivazione individuale a vedere e poi a salire su quel ponte che ci collega gli uni agli altri.

Assente giustificato

di Roberto Lorenzini
18 ottobre 2019

Erano i primi giorni dello scorso giugno quando all’inizio del periodo estivo iniziavo per tempo a prepararmi a partecipare in questo ottobre a due eventi in cui mi erano stati affidati dei compiti: l’incontro di Assisi degli allievi della galassia delle scuole Mancini, in cui avevo il ruolo della formazione continua dei docenti, e l’apertura dell’anno accademico della Sigmund Freud University, propaggine accademica dell’arcipelago di Studi Cognitivi di Sandra Sassaroli. Le due grandi corazzate che ai loro eventi raccolgono più colleghi della stessa SITCC. Avevo portato con me il materiale per prepararmi bene e non rischiare brutte figure, o, meglio per dirla vera, per avere quel successo per quanto effimero e più rivolto alla simpatia che alla solidità e serietà dei contenuti, ma tant’è, tutto fa brodo pur di essere visto e dunque sentirsi esistere per un attimo. Lo stesso miope e insaziabile narcisismo con annessa illusione di immortalità di cui avevamo scritto con Gianni Liotti nel suo ultimo articolo mi portava in quei giorni a scrivere una riflessione semiseria sull’avanzare dell’età e il conseguente mutamento degli scopi esistenziali che a rileggerlo ora (la metto al termine in corsivo, mi fa dire “così t’impari a gigioneggiare con le cose serie ed in particolare con il dolore e la morte, ti sta bene”). Nel frattempo infatti le cose sono radicalmente cambiate e, come direbbe Buzzati, all’inizio una leggera pesantezza di stomaco, una cosa da nulla, mi hanno trasformato grazie a due operazioni urgenti con prolungate anestesie che hanno ulteriormente opacizzato il mezzo cervello funzionante e una settimana in terapia intensiva in un paziente circondato di badanti ed avviato alla chemioterapia. Tempo per riflettere ne ho avuto molto e se ne avrò la forza e il tempo vorremmo scrivere con mia moglie Brunella come si presenta la medicina tradizionale occidentale oggi in cui è scomparso il rapporto medico paziente e tutto potrebbe rapidamente essere sostituito da algoritmi di intelligenza artificiali improntati sui protocolli EBM. Il paziente può trascorrere un intero ricovero senza mai essere fisicamente toccato se non dal personale addetto alle pulizie. Ne scriveremo più meditatamente ma certamente una formazione alla compassione, nel senso di Gilbert/Petrocchi, migliorerebbe la qualità della vita e della morte dei pazienti ma anche e soprattutto degli operatori riducendo il burn out: ma sarebbe un discorso troppo lungo che riguarderebbe anche il successo delle medicine alternative.

Mi voglio concentrare per il momento a ringraziare Sandra e Francesco che reputo essere stati i miei genitori scientifici insieme a zio Semerari. Furono loro a salvarmi dall’abbandonare la psichiatria per qualche altra specializzazione quando nei primi anni ’80 ero, forse persino troppo ingenuamente, in crisi di rigetto della psicoanalisi alla scuola di specializzazione della Università Cattolica di Roma.

Furono per me, insieme ad Antonio Semerari, una vera e propria apparizione che mi diede nuovo entusiasmo e l’impressione finalmente di capirci qualcosa.

Poi con il tempo la vita, i cambiamenti e le maturazioni che avvengono per le terapie e le esperienze e non certo solamente per questioni teoriche hanno allontanato Sandra e Francesco e mi sono ritrovato figlio di genitori separati con i vantaggi che ciò talvolta comporta come poter frequentare le nuove case di entrambi e arricchirmi di prospettive diverse ma conciliabili per la comune passione per la ricerca, l’onestà intellettuale, la voglia di una modellistica complessiva del funzionamento umano, una intelligenza esplosivamente creativa nel generare ipotesi unita ad un rigore implacabile nell’eliminare gli errori ( un po’ come fa l’evoluzione).

Negli anni molti sono stati i “pontieri”, tra questi anch’io, che hanno cercato di sanare la frattura tra i due convinti da un lato che fosse un bene per il cognitivismo italiano e per loro stessi perché non va dimenticato che tutti questi rapporti, come il mio con loro grondano di sincero affetto che si esprime secondo i diversi caratteri di ciascuno ma è comunque solido.

Avendo questo strano lasciapassare che mi consentiva di frequentare entrambe le famiglie (sono stato nel direttivo SITC due volte una in rappresentanza di Sandra e l’altra di Francesco), a volte, scherzando, facendomi sospettare di spionaggio, ho seguito per anni dal di dentro le vicende delle due scuole ed ho visto cose meravigliose (che voi umani…) che marcano un primato assoluto delle due scuole nell’ambito italiano della formazione alla psicoterapia.

Oggi, ed è questo l’obiettivo di questo scritto, mi sono fatto persuaso che la divisione tra i due non sia affatto un male e non semplicemente perché la concorrenza stimola a far meglio ma perché, avendo una radice profonda comune si tratta in realtà di una inconsapevole sinergia, magari negata ma evidente da dietro le quinte. E qui vengono in mente non solo Gianni e Vittorio ma soprattutto il passaggio della borraccia tra Coppi e Bartali a pochi metri dal traguardo di montagna nel tour del 1952 dove il primo a vincere fu il ciclismo. La partita tra Francesco e Sandra non è un gioco a somma zero ma genera continuamente un enorme plus valore di cui tutti ci avvantaggiamo.

Prima di copiare il brano scritto improvvidamente a giugno e inviare contemporaneamente a Sandra e Francesco perché ne facciano l’uso che riterranno opportuno mi chiedo a cosa servano queste poche righe e credo che siano un chiedere scusa per la buca datagli (ho comunque saputo da loro che gli eventi sono stati uno strepitoso successo come già l’ultimo incontro di Riccione), un ringraziamento per quanto mi hanno sempre dato e, innegabilmente (del resto bisogna pure un po’ accettarsi per come si è), un modo per esserci ancora.

Tutta vita

8/06/19

Tempi gloriosi ed esaltanti ci attendono laggiù oltre la prossima curva di cui non si intuisce ancora il verso e consiglia già di rallentare.

Il tran tran risaputo che intreccia annoiato i giorni a farne settimane e poi mesi e infine anni, d’un tratto sarà scalzato da una novità ingiustificatamente inaspettata prima incerta e dubbiosa poi, ad ogni esame, sempre più concreta, evidente e ineludibile nonostante i primi capricciosi scalpiccii. Internet, prima ancora dei dottori, ne definirà i contorni e i tempi e per quanto non si possa mai dire esattamente inizierà a delinearsi una risposta alla antica domanda su di che morte si dovrà morire. Da quel momento, attenzione!! sarà davvero tutta vita. Basta con le domande esistenziali, con la definizione delle priorità, con le scelte e i dubbi. I percorsi e i tempi saranno scanditi dai protocolli EBM internazionali rivisti e reinterpretati dal nostro cuoco di fiducia. Ci sarà sempre qualcosa da fare, questioni di cui occuparsi più o meno in fretta. Parlo per esperienza diretta essendoci già passato al tempo intenso della prima malattia con obiettivi incalzanti a breve scadenza che non necessitavano di avere un perché e le decisioni affidate ad organismi superiori inaccessibili e sapienti che operavano per il mio bene. Da parte mia, inoltre, la tanto rimproverata nella quotidianità, assenza e anestesia sensitiva ed emotiva rappresentava un pregio non infastidendo l’operatore che sa il fatto suo e il mio meglio di me. La meravigliosa sensazione di non essere rimproverato nel rispondere “assente” all’appello.

E’ umano che ognuno abbia le sue preferenze circa il panorama che si svelerà dopo la prossima imminente curva ma sarà comunque per tutti un elevarsi dalla prosa alla poesia, dall’ordinario allo straordinario, dalla commedia al dramma e qualunque sia   il canovaccio predisposto dagli autori si farà sul serio, senza rete, senza prove, “buona la prima”. Forse inaspettata e talmente sconosciuta da rischiare di passare inosservata potrà far transitorio capolino un briciolo di autenticità? Ma non è detto . . . si può restare col costume di scena fino all’ultimo. Non immagino troppi indugi su rimpianti o rimorsi, i bilanci truccati continuamente ricorretti saranno già stati consegnati insieme ai libri contabili al tribunale per la definitiva archiviazione e tutta l’attenzione sarà sull’unica avventura ancora sconosciuta, la terra inesplorata da cui non arrivano notizie certe favorendo così il proliferare di leggende, fantasie e narrazioni più o meno bizzarre a riempire l’ignoto. Ogni giorno sarà unico, pieno del suo presente istante per istante fatto di mindfulness articolare, intestinale, algica. L’eccitazione per l’attesa dell’imprevisto sarà un cocktail forte di cui si era perso il sapore: un terzo di paura, un terzo di orgoglio ed uno di curiosità, come quando da piccoli si partiva per una gita domenicale e la sua forza si diluirà nella quieta soddisfazione per l’ultima spunta sull’agenda dell’esistenza che finalmente lascia liberi dai compiti e di dai doveri come l’ultimo giorno di scuola davanti ai quadri tra gli spintoni degli amici prima delle vacanze estive che li disperderanno.

L’adrenalina tornerà a tendere i muscoli inflacciditi ed affannare il respiro, poco importa se non sarà per l’attesa di vedere se verrà all’incontro in pantaloni o in gonna lasciando presagire intenzioni diverse e percorsi alternativi per raggiungere all’esito scontato e condiviso e l’attesa palpitante sarà per l’immagine confusa “vedo e non vedo” non di una trasparenza del vestitino controluce ma della scintigrafia ossea o della TAC total body. Poco importa, davvero, se le parole che si spizzeranno sulla mail non riguarderanno la data e il luogo del prossimo incontro ma dell’ennesimo illusorio consulto. L’attesa trepidante di un valore ematico sarà simile alla proclamazione del voto di laurea di un figlio o al suo primo apparire sullo schermo dell’ecografo tanti anni fa nella pancia della madre. L’importante è avere un progetto da realizzare, una battaglia da combattere, dei traguardi da raggiungere per ammazzare il tempo. Non fa molta differenza che si tratti di conquistare l’amata, asciugare le ali ad un figlio, passare alla storia o tornare a mangiare al tavolino, cambiare il pannolone o contenere le metastasi. La guerra non è forse un esperienza indimenticabile e in qualche modo bella anche se, come dice il poeta, fa male, e i reduci non è forse vero che stentano a riadattarsi ad una vita normale come chi torna ad una vita sessuale coniugale d’ordinanza dopo una full immersion di video pornografici. Insomma sono certo che ne vedremo delle belle se sapremo godercele come distesi su un prato d’estate la notte dell’Assunta ad aspettare gli ultimi colpi dei fuochi d’artificio che sono sempre i più inaspettati e rimbombano il torace.

Sono inoltre quasi certo e comunque fortemente speranzoso che tutta questa botta rinnovata di vita, di interesse, di slancio, di passione risveglierà almeno in parte la sonnolenza dei sensi che progressivamente segrega i vecchi dal contatto con la realtà. Di tale allontanamento siamo in parte consapevoli quando la vista e l’udito ci rimandano informazioni sempre meno nitide, impastate e ci abituiamo, per non essere fastidiosi, all’approssimazione, ad esserci senza capire, senza avere più voce in capitolo. In verità, anche gli altri sensi si predispongono al letargo ma in modo meno evidente e consolatoriamente attribuibile all’esterno: i pomodori non hanno più il sapore di una volta, il glicine profuma di meno così come le lucciole e le gracidanti rane sono scomparse. I polpastrelli non distinguono più il trapassare della pelle in mucosa e l’insorgere della morbida peluria sulla pelle di seta. Olfatto, gusto e tatto sono anch’essi attutiti, miopi, intontiti ma non esistono occhiali o protesi a sostenerli, ne specialisti cui rivolgere rabbiose lamentele in verità destinate al padreterno.

Compresane l’esaltante bellezza è lecito chiedersi quanto durerà questa nuova stagione che ci aspetta oltre la curva appena intravista giù in fondo. Dal punto di vista soggettivo del vecchio, la cui principale caratteristica è la lentezza di tutti i processi metabolici, tempi di reazione, percettivi, elaborativi e motori sarà un tempo breve essendo grande l’unità di misura soggettiva. Per gli accompagnatori un tempo infinito che li farà sentire colpevoli quando gioiranno del suo termine.

Omaggio alla figura di Giovanni Liotti

di Giuseppe Femia

 Maestro che ha segnato la formazione di molti psicoterapeuti moderni, con le sue “pillole” di conoscenza

Una vignetta realizzata con la dott.ssa Eleonora Piccini, durante una lezione di Giovanni Liotti nella sede SPC di Grosseto

 

                                     Un occhiale da sole, Rayban, vintage e moderno al contempo,
e un sigaro, che rimanda al passato,
immagine quasi simbolica
del suo pensiero:
una lente cognitivista con un’allure quasi analitica! Le sue lezioni non conoscevano noia: le tigri con i denti a sciabola,
la teoria poli-vagale, il trauma, la tristezza contenuta nella perdita,
l´accettazione dell´impotenza.
E poi il ritorno verso pensieri e teoremi lontani da “Janet” revisionato a “Montale” come alleato.
La forza dell’attaccamento, le opere della coscienza.
Una sintesi, un’integrazione di pensieri.
In molti lo ricorderemo come una mente affascinante, stimolante e referente di un pensiero evoluto, in movimento, uno psicoterapeuta e non solo

 

Ci sono cose che volano,
Uccelli, ore, calabroni,
Ma di loro non m’importa.
Poi ci sono le cose
che restano…
Emily Dickinson

Socio fondatore della psicoterapia cognitiva comportamentale in Italia, con la sua attività Giovanni Liotti ha determinato un cambiamento radicale nella Psicoterapia e sollecitato un’innovazione nei costrutti e nei metodi di cura.
I suoi studi hanno ribadito l’importanza di studiare la specificità di ciascun disturbo psicopatologico, concentrandosi sulla valorizzazione dell’essere umano, della sua struttura cognitiva e della sua storia, come base su cui ritagliare una risposta terapeutica adeguata, mirata e soprattutto orientata alla reale richiesta d’aiuto.
Il suo pensiero ha contribuito alla costruzione di una cornice teorica di riferimento di stampo cognitivista, il cui punto di forza è la capacità di offrire interventi differenziati e “versatili” rispetto alla natura e al funzionamento peculiare di ogni disturbo, contrariamente ad altri approcci, in cui le strategie di intervento rimangono spesso ancorate a riferimenti teorici ideali e ortodossi, nonostante la diversità della sofferenza
presentata dal paziente e, spesso, a detrimento dell´efficacia psicoterapica.
I suoi approfondimenti di ricerca si sono concentrati non solo
sull’integrazione fra le evidenze empiriche della teoria dell´attaccamento e la pratica clinica, ma soprattutto sulla natura intersoggettiva e interpersonale della coscienza e dei disturbi psichici, mettendo in evidenza la connessione fra le esperienze traumatiche e i disordini della Personalità, fotografando la “vulnerabilità storica” dei diversi disagi psicopatologici.
Il suo lavoro è stato mirato a chiarire l’eziopatogenesi dei fenomeni dissociativi dell´identità e della coscienza e l’origine delle rappresentazioni multiple di Sé, implicate nei disturbi gravi della Personalità.
La sua collaborazione diretta e personale con Vittorio Guidano e con John Bowlby ha segnato il costrutto della psicoterapia cognitiva evoluzionistica, oltre che evidenziare l’importanza del fenomeno della “disorganizzazione” del legame di attaccamento in quanto evento traumatico relazionale e precoce da cui si sviluppa un “modello operativo interno” non integrato.
La sua teoria illustra gli esiti psicopatologici delle vicende traumatiche in contesti ad alto rischio, con genitori spaventati/spaventanti, in nuclei familiari dove si ripetono schemi disfunzionali da generazione in generazione, in cui il caregiver si mostra maltrattante o trascurante rispetto ai bisogni emotivi del bambino, oppure direttamente ed esplicitamente violento.
Tali esperienze, proprio in quanto traumatiche, non consentirebbero l’elaborazione di un modello relazionale “organizzato” di riferimento, unitario, ma al contrario andrebbero a elicitare il delinearsi di un modello relazionale connotato da tre diverse configurazioni di “Sé con l’altro” disorientate e disorientanti:


1 Persecutore:
“Sono responsabile della rabbia altrui”.
2 Vittima: “Ho paura delle aggressioni e della violenza da parte degli altri”.
3 Salvatore: “Devo prendermi cura degli altri che soffrono come me”.

Tale configurazione prevede un’alternanza fra le tre diverse rappresentazioni capace di indurre confusione rispetto alla propria Identità, sino a renderla fragile e vulnerabile, innescando circuiti e/o circoli relazionali di tipo disfunzionale e di natura psicopatologica.
Questo tipo di teorizzazione, così come da lui postulata, rimane un riferimento utile nella pratica clinica e nella comprensione delle relazioni caotiche e drammatiche dei pazienti Borderline e dei disordini gravi della Personalità in cui si riscontra una continua oscillazione fra posizioni di forza esibita, di ruoli sadici da “persecutore”, in conflitto con vissuti di debolezza, pensieri di torto/ingiustizia subita, mediante cui ci si identifica con la “vittima”, alternando fantasie “salvifiche” verso gli altri visti come fragili e bisognosi.

Con le sue “pillole”, Giovanni Liotti ha lasciato un bagaglio teorico spendibile negli interventi di Psicoterapia, come configurazione paradigmatica del disagio affettivo e relazionale che questi pazienti avvertono e riportano come problema nucleare.
In ultimo, ma non di minore importanza, con il concetto di “mente relazionale”, il suo pensiero ha certamente contribuito a porre l´attenzione sui fenomeni del processo psicoterapeutico, sull’importanza della relazione tra terapeuta e paziente come fattore cruciale di cura, osservando questo tipo di fenomeno da una prospettiva cognitivo evoluzionista, in termini di scopi, credenze e stati mentali, ribadendo come la consapevolezza di se stessi e la risoluzione dei fenomeni dei trauma “irrisolti” possano svilupparsi  a pieno solo in un terreno interpersonale di confronto e riflessione.
Partendo dal presupposto secondo cui non esistono mente e coscienza al di fuori della relazione sociale e tenendo in considerazione le teorie di Michael Gazzaniga e Michael Tomasello, Giovanni Liotti ha evidenziato come non possa esistere cognizione senza inter-relazione e come, per tali ragioni, non potrebbe sussistere una tecnica terapeutica al di fuori della relazione fra medico e paziente.
Proprio partendo dall’osservazione di questo processo di interazione, bisogna trovare i fattori che spingono al cambiamento: i metodi e gli strumenti capaci di incrementare la risoluzione dei problemi presentati e della sofferenza psicologica che ne deriva.


Per approfondimenti:

Liotti G. (1994) Disorganizzazione
dell´attaccamento e predisposizione allo sviluppo di disturbi disfunzionali della coscienza
. In Ammanniti M.; Stern D. (a cura di) Attaccamento e psicoanalisi. Laterza, Bari, pp.219-233.

Liotti G. (1992). La dimensione interpersonale della coscienza. Carrocci Editore, Roma.

Liotti G. (1999). Il nucleo del disturbo borderline di personalità: un´ipotesi integrativa. Psicoterapia 16, pp.53-65.

Liotti G. (2001). Le opere della coscienza. Psicopatologia e psicoterapia nella prospettiva cognitiva-evoluzionistica. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Intervista a Francesco Mancini

di Cecilia Lombardo

Ho l’onore e il piacere di intervistare Francesco Mancini, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva SPC e dell’Associazione Psicologia Cognitiva, didatta SITCC, neuropsichiatra e psicoterapeuta, Professore Associato al’Università G. Marconi, autore di numerose ricerche sul Disturbo Ossessivo Compulsivo e sui sottesi processi cognitivi ed emotivi. Uno dei massimi esperti a livello internazionale del DOC, unisce la raffinatezza e l’eleganza di un pensiero “Italian style” con il massimo del rigore scientifico.

C.L. Ben ritrovato a Grosseto! Congratulazioni per l’uscita del libro “La mente ossessiva” di cui sei il curatore oltre che il principale autore. Intanto una nota personale: da dove nasce questa grande passione per il Disturbo Ossessivo Compulsivo?

F.M. Le ragioni del mio interesse sono, in definitiva, quelle che hanno motivato tanti studiosi fin dal 1600. Innanzitutto, il DOC è una entità psicopatologica ben definita. La sintomatologia ossessiva si presenta con caratteristiche molto simili in tutti i pazienti, indipendentemente che si tratti di washers, checkers, con ossessioni di ordine e simmetria o pensieri proibiti. In secondo luogo è facilmente riconoscibile. Da tener presente che non sempre è così nella psicopatologia. Ad esempio nei disturbi di personalità uno dei grandi problemi è la definizione stessa dei singoli disturbi. In terzo luogo, il DOC si presenta in persone che nella stragrande maggioranza dei casi sono palesemente intelligenti, potenzialmente ben funzionanti, spesso colte, e quindi la apparente assurdità dei sintomi lascia profondamente perplessi. Come è possibile che una persona ben informata, intelligente, spesso geniale, come ad esempio Darwin (si, Darwin era affetto da una grave forma di DOC), possa dar credito a minacce assurde come quelle proposte dalle ossessioni, ad esempio, che ci si possa contagiare l’AIDS toccando la porta di un bar? Per giunta il paziente stesso si rende conto della esagerazione implausibile dei suoi stessi timori, perché, dunque non riesce a frenare le compulsioni? Perché non basta un lavaggio ma serve di ripeterli fino allo stremo? Insomma nel DOC sembrano concentrarsi ed esasperarsi tutte le sfide che si pongono a chi vuole spiegare la condotta individuale. Infatti, a ben vedere, la persistenza di credenze debolmente giustificate e la incapacità di far prevalere il proprio miglior giudizio, le ritroviamo nella vita di tutti noi, quante persone credono a superstizioni palesemente infondate (“non ci credo ma non si sa mai”) e quanti non riescono a far prevalere lo scopo, per loro più importante, di mantenere una dieta? In breve, l’osservazione dei pazienti suggerisce che la sintomatologia ossessiva abbia un senso, non sia cioè la conseguenza dello stravolgimento di una mente, ma allo stesso tempo appare insensata, oltre la capacità di comprensione. La sfida che mi ha sempre affascinato è riuscire a comprendere la sintomatologia ossessiva con gli stessi strumenti concettuali che abitualmente tutti utilizziamo per comprendere le emozioni, i pensieri e le condotte degli altri e di noi stessi. Il problema, dunque, è: quali rappresentazioni e quali scopi danno ragione del DOC?

C.L. Colpisce l’accuratezza e la completezza del lavoro, che affronta il problema in tutte le sfaccettature teoriche e cliniche, con uno stile avvincente, che guida il clinico nei meandri della mente ossessiva e adotta continuamente la prospettiva interna del paziente. Dimmi la verità: quali sono le parti che ti affascinano di più del DOC da studiare come scienziato e da trattare come terapeuta e quelle di cui invece ti sei dovuto occupare per limitare la tua “Not just right experience”?

F.M Come ho detto qui sopra, la parte per me più affascinante è la spiegazione del DOC, il renderlo accessibile ai normali strumenti di comprensione del senso comune. Come dire identificare i determinanti psicologici prossimi delle emozioni, dello stile di pensiero e delle condotte ossessive. È indubbio tuttavia che il DOC, soprattutto in questo momento storico, pone domande cruciali. Che rapporto esiste tra la mente ossessiva e il cervello ossessivo? È conseguenza di un danno neurologico? Quale è l’influenza della ereditarietà? Quale invece il ruolo delle esperienze precoci? Deriva da una interazione di fattori biologici, psicologici, sociali e relazionali? E se si, come è questa interazione? Domande che riguardano tutti i disturbi mentali e, in definitiva, la natura stessa della mente e dunque dell’uomo. La tesi del libro è che i determinanti prossimi del DOC siano scopi e credenze del paziente e i determinanti remoti siano specifiche esperienze negative. Una tesi, quindi, netta e lontana da modelli neurologici o biopsicosociali ma ben sostenuta dalla ricerca sperimentale.

C.L. Sebbene sia stato mio maestro dai tempi della specializzazione, sono lieta di condurre quest’intervista on line per timore di dire o fare qualche imperdonabile sciocchezza e di vedermi puntata contro un’espressione critica e sprezzante. Scherzi a parte, argomenti contro ogni dubbio come il timore di colpa sia l’antiscopo che guida genesi e mantenimento del DOC e di come questo timore trovi terreno fertile in un’educazione rigida e severa avuta nell’infanzia. Si teme di arrecare danno ad altri per non dover incorrere in un aspro rimprovero o nel disprezzo, vissuti come la peggiore catastrofe. Può capitare, da terapeuti, di irritarsi, se non di arrabbiarsi, quando i pazienti non fanno quanto prescritto per il loro bene. Come si può uscire da questa empasse in cui un terapeuta ben intenzionato ripropone un modello di accudimento antico e disfunzionale?

F.M. Quando i pazienti ossessivi non fanno quanto prescritto per il loro bene, di solito, non è per oppositività ma perché troppo difficile per loro. Da tener presente che loro stessi, quando sono in seduta con lo psicoterapeuta, dunque lontani dagli stimoli critici, tendono a sottovalutare le difficoltà che poi incontreranno di fronte alle situazioni attivanti. Da considerare che molte difficoltà nella relazione con il paziente ossessivo hanno una ragione paradossale e cioè il fatto che tendono a prendersi loro l’intera responsabilità della terapia ostacolando, contro le loro stesse intenzioni, l’azione della psicoterapeuta. Ad esempio, in prima seduta, preoccupati di trascurare dettagli che potrebbero rivelarsi cruciali, arrivano con chiaro in mente quello che devono riferire e come, finendo a confondere lo psicoterapeuta con particolari inutili e a ostacolarlo nel tentativo di seguire lo schema che si sono prefissati. Importante, quindi, non interpretare come opposizione quello che, al contrario, è la conseguenza di una esagerata assunzione di responsabilità.

C.L. Sull’onda della precedente domanda ti chiedo come nella pratica clinica si coniugano l’Esposizione con Prevenzione della Risposta, una tecnica d’assalto molto efficace che richiede metodo, rigore, fatica con l’opportunità che il paziente “impari a disobbedire” tollerando il senso di colpa e diventando quindi più flessibile e meno esigente nei confronti di sé stesso.

F.M. ERP sul senso di colpa

C.L. Ricordo molto bene la tua prima lezione del primo anno di scuola di specializzazione in cui, citando Shakespeare, spiegavi come gli esseri umani soffrano per due principali motivi: orgoglio ferito e amore non corrisposto, ovvero siano molto sensibili alle lesioni al valore personale e a quelle inferte da esperienze di amore/attaccamento dolorose. Se il destino di un futuro ossessivo si gioca nei vissuti critici dell’infanzia, come vedi quegli approcci, che, applicati al DOC, lavorano primariamente sui ricordi emblematici del passato, come fa l’EMDR?

F.M. Il lavoro sulle memorie dolorose è agli inizi. Noi stessi ci muoviamo da qualche anno in questa direzione, un capitolo è dedicato a questo punto, ma mi sembra una tendenza ben più generale. Ad esempio, una dei più importanti studiosi del DOC, Paul Salkovskis, ha recentemente pubblicato una ricerca in cui hanno ottenuto interessanti risultati con la Imagery With Rescriprting, una tecnica proveniente dalla Analisi Transazionale, che lavora proprio su memorie dolorose. In realtà, in questa ricerca le memorie erano di episodi relativamente recenti, non della infanzia. La EMDR, a mio avviso, merita un caveat che è ben rappresentato da un aneddoto. Poche settimane fa ho visitato per la prima volta una paziente che si era rivolta a me per un consulto, in particolare voleva un parere su una proposta di psicoterapia che aveva ricevuto da una collega la quale, dopo aver ascoltato i suoi sintomi, le aveva detto che, poiché soffriva di tutti quei sintomi, certamente aveva subito un trauma nella infanzia e che quindi avrebbero lavorato per rintracciare il trauma e su quello poi avrebbero applicato la EMDR. Come dire, siccome c’è una tecnica efficace per i traumi allora ci deve essere un trauma. A me sembra che la EMDR sia una ottimo intervento per il Disturbo Post Traumatico da Stress, estenderla ad altri disturbi rischia di subordinare la conoscenza del paziente alla tecnica mentre si dovrebbe fare il contrario, subordinare la scelta della tecnica alla conoscenza del paziente.

C.L. La scuola (SPC) e l’associazione (APC) che dirigi sono una fucina di aggiornamento, di ricerca, di clinica e di didattica nell’ambito dei disturbi mentali. Ora che hai appena portato a termine il progetto “La mente ossessiva”, di cosa ti stai occupando?

F.M. Ti ringrazio molto per l’apprezzamento. Il gruppo di ricerca della SPC-APC è piuttosto numeroso e dunque è orientato in direzioni diverse. Si va da studi di neurofisiologia del disgusto e del senso di colpa a studi sulla construal level theory, a ricerche sulla gestione delle emozioni, a ricerche sulle memorie dolorose nei pazienti DOC. E’ chiaro che le ricerche più importanti sono sulla efficacia di interventi innovativi nel DOC. Da notare che la maggior parte di queste ricerche è sperimentale. La nostra strategia è di ricorrere il meno possibile a ricerche correlazionali e soprattutto a ricerche correlazionali che usano questionari self report. Personalmente mi sta dedicando soprattutto ad approfondire la conoscenza del senso di colpa

C.L. Mi sento molto ignorante, fammi una faccia sprezzante.

F.M. Puoi scegliere fra due tipi di disprezzo che hanno anche delle espressioni facciali un po’ diverse. Un primo disprezzo è freddo, distaccato, comunica una impressione squalificante ed è indirizzato a persone che si reputano incapaci, inadeguate, non alla altezza. Il secondo disprezzo è caldo, aggressivo, con una espressione che accomuna disgusto e rabbia. Lo si prova per il traditore, l’imbroglione, il profittatore, il perverso, in breve per l’immorale. Nei pazienti DOC sembra esservi una sensibilità spiccata a questo secondo tipo di disprezzo.

C.L. Me la cavo malissimo con entrambe le facce, mi trattengo dal googlare compulsivamente “construal level theory”, ma quasi quasi ricontatto la mia terapeuta…

Grazie infinite per la disponibilità!

Il "gene della follia": un mito da sfatare

di Maurizio Brasini

Nella sua pluri-decennale esperienza di ricerca epidemiologica sulle psicosi, Richard Bentall riferisce di essere partito da uno sforzo di approfondimento della mole di studi sui fattori bio-genetici, per approdare a considerare sempre più l’importanza delle determinanti ambientali, che lui definisce “fattori di rischio sociale“, una svolta che lo stesso Bentall racconta, nel corso della sua relazione al “II Rome Workshop on Experimental Psychopathology” (Roma, 20-21 marzo 2015), essere stata per lui inattesa. Vediamo brevemente come e perché. La schizofrenia (e con essa i distrubi di area psicotica in generale) è stata da sempre considerata una malattia “organica” con una rilevante componente ereditaria. Secondo Bentall questa idea è sopravvissuta fino ai giorni nostri in modo assiomatico, a dispetto di qualunque prova empirica. Bentall sostiene che nonostante i decenni di massicci investimenti nella ricerca delle determinanti genetiche della schizofrenia si siano dimostrati infruttuosi, a mantenere in piedi questa convinzione abbia contribuito una concezione errata eppure consolidata dei meccanismi stessi dell’ereditarietà genetica.

Per visionare i video delle relazioni
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Il principale e più diffuso errore è considerare che l’ereditarietà di una determinata manifestazione patologica sia data dal rapporto tra la variabilità attribuibile ai geni e la variabilità totale. L’errore logico di questa impostazione è semplice: si assume che la somma dei due effetti faccia il totale, e di conseguenza si presume che un alto livello di ereditarietà riduca proporzionalmente le influenze dell’ambiente su un determinato esito patologico. E’ sulla base di questa assunzione che vengono diffuse informazioni secondo le quali la supposta ereditarietà della schizofrenia sarebbe pari all’80%. (schizophreniaresearch.org).

Bentall dimostra con alcuni chiari esempi come questa concezione sia fuorviante. Innanzitutto, un ragionamento simile dovrebbe riguardare le popolazioni e quindi non andrebbe applicato ai singoli individui. Ma, soprattutto, è facilmente dimostrabile che alti livelli di ereditarietà non implicano una riduzione dell’impatto delle cause ambientali (e viceversa). Bentall fa l’esempio di una popolazione ipotetica composta esclusivamente da accaniti fumatori; utilizzando il modello del rapporto gene/ambiente per valutare l’ereditarietà, con la variabilità ambientale ridotta quasi a zero (tutti tabagisti), la prevedibile epidemica diffusione del carcinoma polmonare in questa ipotetica popolazione di fumatori andrebbe attribuita quasi interamente alla genetica anziché all’effetto nocivo del tabacco. Un ulteriore difetto di questo modello esplicativo “additivo” è che non si tiene in considerazione la correlazione tra fattori genetici e ambientali; sempre utilizzando l’esempio del fumo, Bentall propone di immaginare cosa accadrebbe se la tendenza a sviluppare una dipendenza dalla nicotina fosse influenzata geneticamente: a quali cause dovremmo ascrivere lo sviluppo di un tumore al polmone nei fumatori, genetiche o ambientali? Su queste premesse Bentall nota che stime di elevata ereditarietà mascherano rilevanti effetti ambientali quando esiste una correlazione tra variabili genetiche ed ambientati, il che è verosimilmente il caso delle psicosi. Un ultimo errore concettuale che Bentall evidenzia riguarda la nostra idea naif della trasmissione genetica, quella secondo la quale dovrà pur esistere un gene che determina la psicosi così come un gene stabilisce il colore dei fiori dei piselli di mendeliana memoria. Ebbene questa concezione, alla luce di oltre un secolo di straordinari progressi nel campo della genetica, si è rivelata fondamentalmente inesatta, e la vecchia regola “un gene una funzione” è oggigiorno considerata “dogmatica” dai genetisti in primis, anche per caratteristiche molto più puntuali del disagio mentale. Per quanto riguarda i fattori di rischio genetici della schizofrenia, gli studi sul genoma umano sembrano indicare l’esistenza di alcune migliaia (sì, migliaia!) di geni correlati in modo blando seppure statisticamente significativo con la schizofrenia. Prese nel loro insieme, queste migliaia di geni rendono conto di circa il 30% della varianza per la schizofrenia. Migliaia di geni potenzialmente “a rischio” significa che ognuno di noi verosimilmente ne erediterà un “pacchetto” in numero variabile, pescando a caso dal mazzo del patrimonio genetico dei propri genitori; in termini epidemiologici, significa che il rischio genetico di psicosi è distribuito in modo ampio e variabile in tutta la popolazione umana. E’ come dire che siamo tutti dotati di un po’ di geni della follia (chi più e chi meno); dopo di che, saranno soprattutto i nostri percorsi evolutivi a stabilire se questi geni manifesteranno o meno il loro potenziale. E’ appena il caso di accennare qui che, facendo riferimento ad un’ampia mole di ricerche epidemiologiche, tra i fattori che incidono in questi percorsi evolutivi Bentall individua principalmente elementi di svantaggio e di marginalizzazione sociale, nonché le interazioni traumatiche, specie quelle subite in età precoce. Nelle sue considerazioni conclusive, Richard Bentall sfata un ulteriore mito: che considerare la psicosi come una malattia ad origine bio-genetica renda questa condizione più accettabile e più “trattabile” clinicamente. Al contrario, la ricerca dimostra che questa convinzione comporti un atteggiamento più negativo e un maggiore stigma nei confronti dei pazienti psicotici.

Dopo un mese dalla sua scomparsa, rileggendo sabbie…

di Elena Prunetti

È un mese che Franco è morto.

E’ sempre più vivido il ricordo del suo rapporto con la vita e le sue passioni.Sabbie

Vien facile immaginarlo nella solitaria scalata della duna che ci ha descritto in modo limpido e forte. (Clicca qui per scaricare il testo SABBIE)

Questa volta non sentirà le nostre voci provenienti dal campo che gli chiedono un consiglio, un aiuto, un sorriso o solo un po’ di compagnia.

La tristezza si alterna alla rabbia ben descritta da una sua studentessa che il giorno dopo l ultimo saluto ci disse: “ma quando si e’ allontanato dal campo per assaporare la felicità della sabbia, solo con se stesso, non ha pensato ai suoi amici che lo stavano aspettando?…li ha lasciati soli…”

Crediamo che Franco, se ci potesse dire qualcosa, oggi ci ricorderebbe che possiamo accettare questa sua assenza e dobbiamo continuare ad impegnarci in quello che crediamo vivendo con passione e gioendo di quello che la vita ci offre perché’ si può fare, e lui lo ha insegnato a noi con la sua vita e anche nel modo con cui ci ha lasciati.

Lo ricordiamo

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