Disturbo d’ansia sociale nei bambini

di Elena Cirimbilla

Strutturare l’intervento sul bisogno del singolo: uno studio sul DAS in età evolutiva

Il disturbo d’ansia sociale (DAS) o fobia sociale è caratterizzato da una marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile esame degli altri e nelle quali teme di mostrare sintomi che verranno valutati negativamente. Nei bambini, l’ansia si manifesta sia nell’interazione con l’adulto sia con i pari e può essere caratterizzata da pianti, scoppi di collera, ritiro, immobilizzazione o impossibilità a parlare in situazioni sociali.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), in genere applicata in protocolli che si focalizzano su riduzione dell’ansia, esposizioni e sviluppo di nuove abilità, risulta essere il trattamento più efficace nei disturbi d’ansia in età evolutiva. Nonostante ciò, è stato dimostrato che la fobia sociale, uno dei disturbi d’ansia più comuni tra i bambini e gli adolescenti, sembra rispondere meno degli altri a questo tipo di CBT.

A partire da queste considerazioni, si è sviluppato il recente studio di Liesbeth G. E. Telman e colleghi che hanno applicato al DAS un protocollo suddiviso secondo due linee di trattamento: una procedura di intervento CBT divisa in moduli, tesa all’adattamento secondo le necessità e i bisogni del singolo individuo, e una parte a integrazione, con interventi di mindfulness.

Lo studio è stato realizzato su dieci giovani di età compresa tra gli 8 e i 17 anni con Disturbo d’Ansia Sociale. Oltre alle misure adottate per la diagnosi e per la rilevazione dei sintomi d’ansia, gli autori hanno previsto anche la valutazione della flessibilità dei terapeuti, caratteristica indispensabile per costruire un intervento personalizzato e adattato al singolo paziente. Elemento interessante della ricerca, infatti, è l’opportunità dei terapeuti di poter scegliere tra dieci diversi moduli, strutturando l’intervento sulla base delle componenti individuali da trattare. È stato possibile decidere il numero di sedute, le caratteristiche dei compiti assegnati e i moduli sui quali concentrarsi, includendo e favorendo gli elementi che avrebbero potuto incrementare l’efficacia del trattamento, come ad esempio la ristrutturazione cognitiva, il trattamento espositivo, le abilità di coping e/o gli esercizi di mindfulness.

Lo studio ha condotto a risultati interessanti. Innanzitutto, dopo una media di undici sedute, il 50% del campione non risultava più rispondere ai criteri per il DAS al re-test e l’80% al follow-up. Gli autori sottolineano come la brevità dell’intervento, inferiore rispetto alla media di molti studi, possa essere imputabile alla possibilità di concentrarsi solo sugli elementi (e quindi moduli) ritenuti necessari per ogni singolo caso. In secondo luogo, i giovani sembrano aver beneficiato dell’accostamento della mindfulness agli elementi base della CBT, proposto nel 50% dei casi. Secondo gli autori, si tratta del primo studio in cui è stato aggiunto un intervento mindfulness a una CBT divisa in moduli in età evolutiva.

I risultati presentati favoriscono importanti riflessioni cliniche: la possibilità di muoversi all’interno dei protocolli della CBT tradizionale e scegliere in modo flessibile le aree sulle quali concentrarsi nel trattamento, integrando, quando utili, interventi di terza generazione, ha permesso di adattare e personalizzare l’intervento. Un protocollo modulare e flessibile permette così al terapeuta di strutturare un trattamento che “osservi” realmente le necessità personali e che consenta di trattare il bisogno individuale anziché il disturbo nella sua accezione di etichetta diagnostica.

Per approfondimenti

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

Liesbeth G. E. Telman, Francisca J. A. Van Steensel, Ariënne J. C. Verveen, Susan M. Bögels & Marija Maric (2020): Modular CBT for Youth Social Anxiety Disorder: A Case Series Examining Initial Effectiveness, Evidence-Based Practice in Child and Adolescent Mental Health, DOI: 10.1080/23794925.2020.1727791

Bambini silenziosi

di Monica Mercuriu

Aspetti controversi del mutismo selettivo

Il mutismo selettivo è un disturbo legato all’ansia, caratterizzato dall’incapacità del bambino di parlare in determinate situazioni, le cui cause non sono ritardo mentale, deficit neurologico, linguistico o uditivo.

Questo tipo di disturbo è caratterizzato dall’uso appropriato della lingua parlata in alcune situazioni, con una totale e persistente assenza dell’uso del linguaggio altrove; molto spesso il bambino parla liberamente a casa mentre è muto a scuola e in altri contesti sociali.

Nel 1934, lo psichiatra infantile svizzero Moritz Tramer descrisse il caso di un bambino di otto anni che si rifiutava di parlare in determinate situazioni e introdusse l’espressione “mutismo elettivo”, che intendeva sottolineare la mancanza di contatto verbale, come una scelta consapevole delle persone affette da questo disturbo.
Negli anni ’90 si sono sviluppate in letteratura molte teorie al riguardo, alcune delle quali sottolineavano un atteggiamento di insubordinazione e di testardaggine delle persone con mutismo elettivo, o mettevano in evidenza la presenza  di un comportamento manipolatorio e di controllo da parte di genitori con stile di parenting iperprotettivo.

Nelle ultime edizioni del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV, DSM-IV-TR e DSM-5), l’espressione “mutismo elettivo” è stata sostituita da “mutismo selettivo” per evidenziare come il fenomeno del mutismo, che consiste nella selettività del parlato che si applica solo ad alcuni (selezionati) e non a tutti gli ambienti sociali, non può essere combinata con la manipolazione consapevole dell’ambiente agita. Inoltre, è stato rimosso dalla sezione dedicata ai “Disordini dell’infanzia e dell’adolescenza” e inserito in quella relativa ai “Disturbi d’ansia”. Ciò ha comportato due importanti cambiamenti in termini d’interpretazione dei sintomi del mutismo selettivo: da una parte evidenziando l’eziologia ansiosa del disturbo e dall’altra aprendo la possibilità alla diagnosi di mutismo selettivo anche negli adulti, come speciale categoria dei disturbi d’ansia.

Il mutismo selettivo è un disturbo poco diffuso, con una prevalenza che varia tra lo 0.03 e l’1%, e sembra avere una frequenza maggiore nelle femmine rispetto ai maschi con rapporto di 2 a 1. L’età dell’esordio varia dai 2 ai 6 anni, dopo una produzione del linguaggio nella norma, e viene solitamente diagnosticato dopo l’inserimento dei bambini nella scuola elementare, anche se è molto probabile che si sia già manifestato negli anni della scuola materna.

Gli studi di follow-up sono limitati ma indicano che una parte consistente di questi bambini ha problemi di comunicazione persistenti, sintomi nello spettro dell’ansia e bassa auto-efficacia.

I dati epidemiologici indicano, inoltre, che nei bambini con sintomi di mutismo selettivo si riscontrano frequentemente criteri per altri disturbi mentali, come depressione, disturbo di panico, disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo dissociativo o disturbi dello spettro autistico.

Nel 2000, Hanne Kristensen sottolineava come disturbi d’ansia non costituiscono la comorbidità dominante osservata in pazienti con mutismo selettivo. Secondo la psicoterapeuta danese, evitare il contatto verbale poteva essere un meccanismo per “mascherare” le difficoltà dovute anche alla presenza di vari deficit evolutivi o neurocognitivi: la studiosa affermava che gli effetti non adeguati della terapia possono derivare dal fatto che le terapie più comunemente utilizzate (farmacologica e comportamentale) per questo disturbo agiscono prevalentemente sulla componente ansiosa del disturbo e non intervengono sulle componenti associate a deficit di elaborazione uditiva, deficit neurocognitivi o deficit cognitivo-sociali, che possono presentarsi in un numero considerevole di bambini. Anche secondo gli studiosi israeliani Yael Henkin e Yair Bar-Haim, i deficit di elaborazione uditiva dovrebbero essere presi in considerazione nella diagnosi e nel trattamento del mutismo selettivo.

Allo stato attuale della ricerca sulla patogenesi e la psicopatologia di questo disturbo, il concetto di mutismo selettivo come tipologia di fobia sociale all’interno dello spettro del disturbo d’ansia è molto convincente (nel DSM-5, il mutismo selettivo viene interpretato come una forma estrema di fobia sociale).
All’interno di questa categoria, è possibile rintracciare un gruppo non omogeneo di disturbi diversi per eziologia e decorso. Tra gli aspetti psichiatrici del disturbo, la componente dell’ansia appare prioritaria, anche se è spesso possibile osservare un’importante presenza di comorbidità con deficit dello sviluppo o disfunzione dell’elaborazione uditiva che ne determinano un decorso tipico e ostacolano, a volte, l’efficacia delle terapie ad oggi più comunemente utilizzate per il trattamento del disturbo.

Per approfondimenti :

Holka-Pokorska1, A. Piróg-Balcerzak, M. Jarema. The controversy around the diagnosis of selective mutism – a critical analysis of three cases in the light of modern research and diagnostic criteria . Psychiatr. Pol. 2018; 52(2): 323–343

Fobia Sociale e Disturbo Evitante di Personalità a confronto

di Cristina Salvatori

salvatori-immaginePunti in comune e differenze tra due disturbi caratterizzati da una condizione di disagio all’interno delle relazioni sociali

La fobia sociale (FS) e il disturbo evitante di personalità (DEP) sono caratterizzati da una marcata difficoltà sperimentata all’interno delle relazioni sociali. Le persone che soffrono di questi disturbi sono molto propense a provare vergogna e tendono a evitare le situazioni sociali in quanto causa di un forte disagio. In entrambi i disturbi, è facilmente individuabile una forte sensibilità al giudizio negativo degli altri, una bassa autostima e un ritiro dalle situazioni sociali. Tutto ciò genera isolamento e un impoverimento della propria rete di relazioni. Possono individuarsi numerosi “bias” cognitivi (distorsioni cognitive) alla base del mantenimento di questi disturbi: il riaffiorare in memoria di ricordi negativi legati alle interazioni sociali, un’attenzione selettiva rivolta a stimoli esterni (uno sguardo corrucciato) o interni (l’arrossire) e un’interpretazione costantemente negativa delle proprie prestazioni o delle situazioni sociali.
Sebbene le due patologie possano apparire sovrapponibili, differiscono invece per alcuni aspetti.
Il fobico sociale vive un forte stato d’ansia ogni qualvolta prevede di trovarsi o si trova a dover affrontare un qualsiasi tipo di prestazione di fronte ad altre persone (potrebbe trattarsi di dover parlare alla riunione di condominio, suonare in pubblico, così come di ordinare un caffè al bar). Leggi tutto “Fobia Sociale e Disturbo Evitante di Personalità a confronto”

Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale

di Valentina Silvestre e Caterina Parisio

In un clima di condivisione e appartenenza, per un progetto comune di formazione e di ricerca, l’AIDAS (Associazione Italiana Disturbi dell’Ansia Sociale) e la SITCC (Società Italia Terapia Cognitivo-Comportamentale) hanno organizzato una giornata di studio che si è tenuta sabato 3 Ottobre a Napoli, giornata in cui si è parlato di “non condivisione” e “non appartenenza”. logo-lucid3

Nel Convegno su “Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale” è stato fatto il punto sullo stato dell’arte rispetto agli aspetti psicopatologici e alle modalità di trattamento dell’ansia sociale. Disturbo che rappresenta una realtà clinica di sempre maggiore impatto nella pratica quotidiana di psicoterapeuti e psichiatri e che impone un costante aggiornamento per poter fornire le migliori risposte e saper applicare efficaci protocolli di trattamento. Leggi tutto “Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia e del Ritiro Sociale”

Intervento di DM Clark sulla CBT per la Fobia Sociale (RWEP 2014)

di Barbara Basile Basile

L’intervento di D.M. Clark (Oxford University, UK) al Workshop on Experimental Psychopathology (RWEP) tenutosi a Roma, il 28 Febbraio – 1 Marzo 2014 inizia con l’osservazione secondo cui, nell’arco della loro vita, molte persone sembrano avere difficoltà nell’interazione con gli altri, ma che solo una piccola parte di queste sviluppa una Fobia Sociale (FS) conclamata. “Come mai?”, si chiede Clark.

Secondo le ultime stime, negli USA, la prevalenza della FS è del 7% e circa 1/3 delle persone che nell’arco della loro esistenza soffre di sintomi di ansia sociale migliora e guarisce spontaneamente. L’età di esordio del disturbo si colloca verso i 13 anni (e durante tutto l’arco dell’adolescenza). La FS si presenta spesso in comorbilità con sintomi depressivi, abuso di alcol e sostanze ed è spesso accompagnata da tentativi suicidari. Secondo gli ultimi dati la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è efficace nel 40% dei casi.

I punti principali da affrontare secondo l’autore e Wells (1995), nel modello sulla FS comprendono:

  1. Il focus sul sé, invece che sugli altri e su quello che accade nel contesto reale.
  2. L’utilizzo di informazioni interne, piuttosto che esterne, per valutare ed interpretare l’immagine di sé che hanno gli altri. Frasi tipiche sono: “Se mi sento ansioso significa che sembro ansioso anche agli altri”, “Gli altri possono certamente vedere quanto sono ansioso”, etc.. Diverse ricerche (Mansell et al., 2003; Hirsch, Mansell & Clark, 2004) hanno mostrato in modo abbastanza univoco che, quando ci si sente agitati, automaticamente si tende a sovrastimare il livello di ansia che traspare all’esterno (mood as information bias). Di fatti, i pazienti con FS che vengono filmati e a cui poi viene mostrato il loro video,  solitamente si sorprendono per quanto osservano! In altre parole, essi si aspettano di sembrare molto più nervosi e ansiosi di quanto, invece, non appaiano nei video (“Ma sono molto meno rosso di quanto non pensassi!”).
  3. L’utilizzo di safety behaviours (comportamenti protettivi/di sicurezza), in modo da evitare la catastrofizzazione delle situazioni sociali e il mantenimento di bias che mantengono le convinzioni fobiche. Se, per esempio, una persona, in situazioni sociali, è costantemente concentrata nel memorizzare e nel rassicurarsi sui propri comportamenti ansiosi, finirà per non prestare attenzione alla relazione in corso, trasmettendo agli altri sensazioni di distacco o scarso interesse che, inequivocabilmente, finiscono per confermare lo scarso coinvolgimento altrui nella relazione e, quindi, le convinzioni negative del paziente (cicli interpersonali negativi confirmatori).

Un altro aspetto fondamentale che sembra contribuire all’esordio della FS, è caratterizzato dall’aver vissuto esperienze traumatiche (Wild & Clark, 2011). In queste occasioni i pazienti possono aver vissuto direttamente o assistito a situazioni ansiose o associate alla vergogna che possono avere avuto un ruolo nello sviluppo dell’ansia sociale.

Clark

Figura. Modello CBT di Clark & Wells (1995) sulla Fobia sociale. Dall’International Handbook of Social Anxiety: Concepts, Research and Interventions Relating to the Self and Shyness. Edited by W. Ray Crozier and Lynn E. Alden.
© 2001 John Wiley & Sons Ltd.

Fasi di trattamento:

  1. Condivisione del modello personalizzato con il paziente.
  2. Promozione di esercizi che mostrano gli svantaggi che derivano da uno spostamento dell’attenzione sul sé (piuttosto che sugli altri) e dei comportamenti protettivi (safety behaviours).
  3. Utilizzo di video con il paziente per confrontarlo con i suoi bias su come appare all’esterno.
  4. Training attentivo, per incrementare la capacità di focalizzarsi sugli altri.
  5. Esperimenti comportamentali con lo scopo testare le proprie predizioni catastrofiche nelle situazioni sociali.
  6. De-catastrofizzazione (i.e., “cosa succede di cosi tremendo se accade X?”. Ad esempio, truccarsi il viso di rosso intenso per sondare le reazioni degli altri, o gettarsi volontariamente dell’acqua addosso, in modo da verificare le eventuali reazioni altrui ad eccessive sudorazioni).
  7. Utilizzare l’imagery with rescripting per modificare esperienze  traumatiche precoci (Wild & Clark., 2011).

 Clark suggerisce anche “Cosa non fare” nel trattamento CBT della FS, ovvero:

  1. Creare liste ordinate per livello di ansia delle situazioni ansiose.
  2. Ripetere le esposizioni per favorire l’abituazione.
  3. Valutazione dell’intensità dell’ansia durante tutte le situazioni sociali (questo rischia di  aumentare l’attenzione focalizzata sul sé).
  4. L’usare il diario di monitoraggio o gli ABC per registrare le situazioni ansiose (poiché entrambi favoriscono il rimuginio).
  5. Ri-attribuzione in termini razionali delle situazioni sociali ansiogene.
  6. Effettuare un social skill training, poiché, secondo l’autore, i pazienti sono già in possesso delle abilità sociali che permetterebbero loro di far fronte alle situazioni sociali. In realtà essi sono soltanto incapaci di usarle, a causa delle loro credenze patogene e dell’eccesiva attenzione sul sé.

In merito agli studi di efficacia sul modello CBT per la FS di Clark, questo si è mostrato essere più efficace rispetto alla Terapia Interpersonale, alla quella Psicodinamica, al placebo, al TAU, al trattamento farmacologico a base di SSRI, alla semplice esposizione o all’assenza di trattamento (Clark ,2006; Stangier et al., 2011; Boecking, Ehler & Clark 2011; Hedeman et al., 2013). Inoltre, in uno studio recentissimo (Clark & Ehler, 2014) si è mostrato che la CBT che si avvale per la metà delle sedute di training individuale (self-assisted CBT) risulta più efficace della CBT tradizionale effettuata vis a vis con il terapeuta. Questo dato motiva, suggerisce Clark, alla necessità di mettere a punto dei nuovi trattamenti basati sull’utilizzo di programmi via internet, in modo da permettere una maggiore fruibilità di questo modello ai pazienti affetti da ansia sociale.