Il tema del giudizio nella fobia sociale e il contributo del movimento Punk – prima parte

di Roberto Petrini e Vittorio Lannutti

Quando una risorsa ci appare necessaria ma limitata, oppure distribuita in modo iniquo tra le parti; se percepiamo segnali di sfida, ma anche quando ci sentiamo giudicati si attiva in noi il sistema motivazione competitivo (Liotti, Monticelli 2008).

Se pensiamo di poter far valere le nostre ragioni potremmo dar vita a una contesa dove potremmo uscirne vincitori e in posizione dominante e provare quindi orgoglio, oppure sottometterci, o rimanere coinvolti in una lotta. Se pensiamo che l’altro abbia maggiori capacità nella contesa ci sembrerà utile sottometterci e allora compariranno collera, paura, ma anche vergogna. (Liotti, Monticelli 2008).

Di sicuro un grande compito di vita in adolescenza è legato al tema della competizione, la meta di questo comportamento è la definizione del rango sociale di colui che si appresta a divenire un adulto (Gilbert 1999).

Il passaggio dalla cura dei genitori al gruppo dei coetanei è fondamentale, ma occorre guadagnarsi il rispetto e la stima che prima erano garantite dai genitori. Nelle relazioni sociali “adulte” chi offre amicizia a alleanza, protezione emette anche dei giudizi sul destinatario di quelli che possono essere anche descritti come “beni sociali”. Le interazioni sociali richiedono una complessa psicologia in un processo dinamico reciproco dove si valutano affidabilità, valore, forza, impegno, e volontà di reciprocare.

Battersi per lo status e il riconoscimento sociale è fondamentale, e quando ci sentiamo inferiori decidiamo di isolarci, e iniziamo a vedere il mondo in chiave pessimistica. Shively 1998 in alcuni studi di laboratorio ha notato che le scimmie che passavano più tempo da sole erano quelle che nella scala gerarchica erano posizionate in fondo.

Se penso di non essere all’altezza e ho timore del giudizio altrui probabilmente mi ritirerò e penserò che visto che mi percepisco così anche gli altri probabilmente ravvisino in me tali problemi. Il tema centrale potrebbe divenire quello di non fare brutta figura e come strategia principale si potrebbe scegliere l’evitamento delle situazioni potenzialmente pericolose.

Competere per l’attenzione, l’accettazione degli altri, per l’affetto, sembra sia l’unico modo per ottenere accettazione sociale. Come suggerisce Nietzsche siamo diventati “delle bestie dalle guance rosse” proviamo vergogna se è a rischio la nostra buona immagine.

Spesso giudichiamo noi stessi in conformità di come ci giudicano gli altri, e legarci alla valutazione degli altri, mantiene e aggrava il problema. Se valuto me stesso sulla base dei segnali di stima che ricevo, mi metto in una condizione di sottomissione fin dall’inizio della relazione. La percezione di fragilità disporrà la persona ad avere ansia e probabilmente per rassicurarsi cercherà di prevedere possibili minacce, continuando così a fare inferenze sulle possibili interazioni e nel tentativo di controllarle si invischierà in un circolo vizioso.

Probabilmente si andrà ad immaginare tutta una serie d’immagini e pregiudizi negativi, in quanto l’attenzione è posta sul fatto di sentirsi inadeguati e in balia del giudizio altrui. Nel tentare di trovare una soluzione a questo grande problema probabilmente si andranno ad evitare quelle situazioni che potrebbero causare una brutta figura, e gli eventi temuti con il passare del tempo si moltiplicheranno.

 

Foto di Willo M.: https://www.pexels.com/it-it/foto/graffiti-funky-del-cranio-sulla-porta-nera-chiusa-a-chiave-953457/

Gli scrupoli di un uomo devoto

di Manuel Petrucci

Il disturbo ossessivo-compulsivo nel racconto di un vescovo del ’600

La letteratura, la storia e la filosofia hanno offerto, nei secoli, descrizioni mirabili della vita mentale umana, precedendo, o anche talvolta superando in raffinatezza, lo studio scientifico che ne fanno la psicologia e la psichiatria.

Nel caso del senso di colpa, emozione che occupa certamente un posto di rilievo nella psicopatologia, è celebre la figura shakespeariana di Lady Macbeth che cerca di lavare via simbolicamente l’orrore dei delitti che ha istigato, tanto che gli studi moderni hanno denominato “Macbeth effect” l’evidenza che la colpa può aumentare il senso di contaminazione e i comportamenti di lavaggio. Il Dostoevskij di Delitto e castigo e il Poe de Il cuore rivelatore ci hanno successivamente lasciato un affresco dei tormenti angosciosi, corrosivi, persino allucinatori a cui può andare incontro chi ha mano macchiata di sangue per omicidio. Il meno conosciuto Jeremy Taylor, vescovo della Chiesa di Inghilterra nell’era Cromwell (XVII secolo), in un suo trattato teologico ci ha invece fornito un sorprendente ritratto di come anche una trasgressione morale molto più blanda di un omicidio, o soltanto il dubbio di una simile trasgressione, possa essere per alcune persone una fonte di preoccupazione tale da motivare sforzi estenuanti per scongiurarla, o per porvi rimedio. È il caso di chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), che Taylor definisce come “scrupolo”:

“A scruple is a great trouble of mind proceeding from a little motive, and a great indisposition, by which the conscience though sufficiently determined by proper arguments, dares not proceed to action, or if it doe, it cannot rest. That it is a great trouble, is a daily experiment and a sad sight. […] They repent when they have not sinned, and accuse themselves without form or matter; their virtues make them tremble, and in their innocence they are afraid; they at no hand would sin, and know not on which hand to avoid it: and if they venture in, as the flying Persians over the river Strymon, the ice will not bear them, or they cannot stand for slipping, and think every step a danger, and every progression a crime, and believe themselves drowned when they are yet ashore. Scruple is a little stone in the foot, if you set it upon the ground it hurts you, if you hold it up you cannot go forward; it is a trouble where the trouble is over, a doubt when doubts are resolved”.

(Uno scrupolo è un grande disagio della mente che si origina da un motivo trascurabile, e da un grande malessere, per cui la coscienza, pur essendo supportata da validi argomenti, non osa procedere all’azione, o, se lo fa, non riesce poi a trovare pace. È un grande disagio, esperito ogni giorno, triste a vedersi. […] Gli scrupolosi si pentono quando non hanno peccato, e accusano se stessi senza alcun fondamento; tremano nella virtù, temono nell’innocenza; si interrogano su come evitare il peccato, anche se non peccherebbero per alcuna ragione; se osano avventurarsi, come accadde ai Persiani in fuga sul fiume Strimone, il ghiaccio si sgretolerà o li farà scivolare, ogni passo sarà un pericolo, ogni progressione un crimine, e si crederanno annegati pur trovandosi a riva. Lo scrupolo è un sassolino nella scarpa, posizionato sotto fa male per il contatto con il suolo, posizionato sopra impedisce l’andatura. È un problema quando il problema è superato, un dubbio quando il dubbio è risolto).

Emergono, da questa descrizione, alcune tra le caratteristiche più salienti del DOC: la pervasività dei timori di colpa, la sofferenza a cui danno vita, l’impossibilità di pervenire a una definitiva rassicurazione nonostante i tentativi e i proper arguments. Questi elementi sono ancora più evidenti nell’esempio riportato da Taylor in un successivo passaggio: 

“William of Oseney was a devout man, and read two or three Books of Religion and devotion very often, and being pleased with the entertainment of his time, resolved to spend so many hours every day in reading them, as he had read over those books several times; that is, three hours every day. In a short time he had read over the books three times more, and began to think that his resolution might be expounded… and that now he was to spend six hours every day in reading those books, because he had now read them over six times. He presently considered that in half so long time more by the proportion of this scruple he must be tied to twelve hours every day, and therefore that this scruple was unreasonable; that he intended no such thing when he made his resolution, and therefore that he could not be tied… he remembered also that now that profit of those good books was received already and grew less, and now became changed into a trouble and an inconvenience. . . and yet after all this heap of prudent and religious considerations, his thoughts revolved in a restless circle, and made him fear he knew not what. He was sure he was not obliged, and yet durst not trust it… Well! being weary of his trouble, he tells his story, receives advice to proceed according to the sense of his reason, not to the murmurs of his scruple; he applies himself accordingly. But then he enters into new fears; for he rests in this, that he is not obliged to multiply his readings, but begins to think that he must doe some equal good thing in commutation of the duty… He does so; but as he is doing it, he starts, and begins to think that every commutation being intended for ease, is in some sense or other a lessening of his duty… and then also fears, that in judging concerning the matter of his commutation he shall be remiss and partial… What shall the man doe? After a great tumbling of thoughts and sorrows he begins to believe that this scrupulousness of conscience is a temptation, and a punishment of his sins, and then he heaps up all that ever he did, and all that he did not, and all that he might have done, and seeking for remedy grows infinitely worse, till God at last pitying the innocence and trouble of the man made the evil to sink down with its own weight, and like a sorrow that breaks the sleep, at last growing big, loads the spirits, and bringing back the sleep that it had driven away, cures it self by the greatness of its own affliction”.

(William di Oseney, un uomo devoto, leggeva di frequente due o tre libri di religione, con tale diletto che si propose di trascorrere nella lettura ogni giorno il numero di ore corrispondente al numero di volte che aveva letto i libri. In breve tempo ebbe letto i libri tre volte in più, ed estese quindi il suo proposito di lettura a sei ore al giorno, dato che aveva letto i libri sei volte ormai. Iniziò a realizzare che seguendo le proporzioni dello scrupolo si sarebbe trovato nella metà del tempo speso fino ad allora a dover leggere dodici ore al giorno, e lo scrupolo gli parve dunque irragionevole. Non aveva intenzione di arrivare a questo con la sua risoluzione, e pertanto non poteva esserne vincolato. Ritenne inoltre che il beneficio dell’aver letto quei libri fosse ormai tratto, e fosse anzi diminuito al punto da diventare un cruccio e un inconveniente. Eppure, dopo questa serie di considerazioni prudenti e religiose, i suoi pensieri vorticavano in un circolo senza requie. Era sicuro di non essere vincolato, eppure non osava crederci. Divenuto cosciente del suo disagio, raccontò la vicenda, e ricevette consiglio di procedere seguendo il senso della sua ragione, non i capricci dello scrupolo. Si dispose dunque ad agire in tale direzione, quando entrò in nuove paure: poteva non essere obbligato a intensificare le sue letture, ma avrebbe dovuto fare una buona azione di egual misura, in corrispondenza del debito. Fece dunque così, ma iniziò a pensare che ogni buona azione compiuta fosse votata al sollievo, e potesse quindi intendersi in qualche modo come un alleggerimento del suo dovere. Si spaventò allora di essere giudicato negligente e manchevole nella sua commutazione. Cosa avrebbe dovuto fare? Dopo un gran turbinio di pensieri e inquietudini cominciò a credere che la scrupolosità della sua coscienza fosse una tentazione, e una punizione per i suoi peccati. Ripercorse allora tutto ciò che aveva fatto nella vita, tutto ciò che non aveva mai fatto, tutto ciò che avrebbe potuto fare, e nella ricerca del rimedio la situazione peggiorava infinitamente, finché Dio, impietosito dall’innocenza e dalla sofferenza dell’uomo, fece sprofondare il male con il suo stesso peso, curando la grandezza dell’afflizione, riportando il sonno laddove era stato spezzato da quel dolore, che ingigantitosi aveva oppresso lo spirito).

La necessità di violare un proposito, nonostante fosse stato formulato autonomamente e per puro diletto, e non implicasse alcun danno per altri, ha innescato una spirale di timori legati alla possibilità di essere giudicato inadempiente, e per questo punito. È chiaro come le strategie adottate per risolvere il problema, affidate al sense of reason, abbiano generato nuovi timori e nuove ruminazioni, fino a portare al tentativo estremo di passare al vaglio l’intera esistenza, vissuta e potenziale. Il finale diventa ironico se pensiamo che quello stesso Dio di cui William teme il giudizio ha in realtà uno sguardo compassionevole sul suo dolore, alleviandolo. 

Se le manifestazioni del DOC conservano le proprie peculiarità attraverso i secoli, ciò che è cambiata è la conoscenza del funzionamento di questo disturbo e gli strumenti terapeutici efficaci di cui disponiamo. La cura al giorno d’oggi non ha bisogno quindi di chiamare in causa interventi divini, ma se è vero che Dio ci aiuta quando siamo i primi ad aiutare noi stessi… Ecco un motivo in più per andare in terapia! 

Per approfondimenti:
Estratto da Jeremy Taylor, Ductor dubitantium, or the rule of conscience (London: Royston, 1660, 2 voll.), citato in Hunter, R., & Macalpine, I., Three hundred years of psychiatry, 1535-1860 (London: Oxford University Press, 1963, p. 163-165) [Traduzione: MP]

La gentilezza salverà il mondo

di Elena Bilotta

Una pratica di Mindfulness per coltivare la benevolenza verso sé e verso gli altri

 Luigi è un infermiere del reparto di oncologia di un grande ospedale: tutti i giorni ha a che fare con la sofferenza e la morte, e questo spesso mette a dura prova il suo stato psicofisico. A volte pensa che l’unico modo per poter sopravvivere in un ambiente del genere sia distaccarsi cinicamente da tutto.
Roberta è una psicoterapeuta ed è preoccupata per una persona che ha in cura: teme che il trattamento sia inefficace e si sente impotente di fronte alla sofferenza della paziente. Nonostante riconosca il suo grande impegno, giudica sé stessa e non si sente all’altezza della situazione.
Giorgia ha avuto un forte litigio con sua sorella. Sono state dette frasi molto pesanti che hanno ferito entrambe. Prova rabbia e avversione e, nonostante ne soffra, crede che il loro rapporto sia finito.
Tre situazioni di stress ed emozioni negative, con una difficoltà a regolarle e ad aiutarsi.
La cura di sé, l’auto-compassione, la gentilezza amorevole rivolta a sé stessi sono sinonimi di una modalità di rispondere ai fallimenti e alle difficoltà personali e interpersonali attraverso un atteggiamento gentile, amorevole e non giudicante o ipercritico verso sé e verso gli altri, riconoscendo e accettando il fatto che tutti gli esseri umani – noi inclusi – commettono errori. La ricerca testimonia come mantenere questo tipo di atteggiamento promuova la resilienza, ovvero l’abilità di recuperare da situazioni ed eventi negativi e stressanti, e si dimostri particolarmente efficace nelle professioni di cura (Leggi l’articolo Avere cura di chi si prende cura).

Se riconosci di avere un atteggiamento ipercritico verso te o gli altri, di essere immerso in sentimenti di avversione o invalidazione, puoi provare a fare un’azione opposta e in certo senso rivoluzionaria, praticando la gentilezza amorevole. Siedi comodamente e inizia a osservare il respiro per almeno dieci minuti. Non importa quante volte sarai distratto da pensieri, sensazioni somatiche o rumori esterni: ricomincia sempre dal respiro, senza giudicarti male per esserti distratto.
Comincia la pratica di gentilezza amorevole da te stesso, rivolgendoti una serie di auguri diretti al tuo benessere personale: “Che io possa guardare me stesso con gli occhi della comprensione e dell’amore”; “Che io possa essere al sicuro da pericoli interiori ed esterni”; “Che io possa vivere in buona salute, nel corpo e nella mente”;”Che io possa essere in pace, felice e a mio agio”.
Puoi adattare le frasi come meglio preferisci. Ripetile più e più volte. Anche se riscontrerai difficoltà o le troverai meccaniche o addirittura ridicole, ciò è del tutto normale: non si è abituati a rivolgersi frasi simili nella propria vita quotidiana. A volte potrà capitare che le frasi, anziché alimentare gentilezza e benevolenza verso di te, facciano emergere altre emozioni, anche negative. Osserva e pratica con ciò che emerge, senza giudizio.
Ora prova a estendere la meditazione di gentilezza amorevole agli altri. Scegli una persona a te cara, che nella tua vita ti ha dato amore e si è preso cura di te, e rivolgi a questa persona le stesse frasi, mantenendo la sua immagine in mente: “Che tu possa guardare te stesso con gli occhi della comprensione e dell’amore”; “Che tu possa essere al sicuro da pericoli interiori ed esterni”; “Che tu possa vivere in buona salute, nel corpo e nella mente”; “Che tu possa essere in pace, felice e a tuo agio”.
Continua a piantare i semi della benevolenza, ripetendo le frasi con gentilezza, qualunque sia la sensazione o emozione che stai provando, senza giudizio.
Ora includi una persona per la quale non provi un particolare sentimento – né positivo né negativo -, ma che incontri occasionalmente nella tua vita (ad esempio, il cassiere del supermercato dove fai la spesa, il portiere del tuo stabile, ecc.). Rivolgi a questa persona quasi estranea gli stessi auguri di gentilezza, salute e felicità.
Infine, includi nella tua meditazione una persona con la quale hai dei rapporti difficili e verso la quale provi emozioni negative. Augura anche a questa persona di ricevere gentilezza amorevole, pace, salute e felicità. In principio potrai sperimentare grande avversione, rabbia, senso di ingiustizia. Osserva tutte le emozioni che emergono da questa pratica rivoluzionaria dell’augurare pace, gioia e salute a chi consideriamo un nemico; continua, senza giudicare ciò che stai facendo. Gradualmente e lentamente ti calmerà la mente e ti aprirà il cuore.

Per approfondimenti:
Il cuore saggio di Jack Cornfield
Pratiche di consapevolezza di Tich Nath Hahn