L'accumulo di animali

di Agnese Fatighenti

A distanza di una settimana circa dall’interessante simposio sul “Disturbo di accumulo”, tenutosi a Grosseto il 25 settembre scorso,  un post sull’intervento che ha concluso “in bellezza” la giornata: la relazione della Dott.ssa Chiara Lignola sull’animal hoarding (AH), ossia l’accumulo di animali.

Il fenomeno è più dilagante di quanto si creda, basti pensare a quanti di noi conoscono, direttamente o indirettamente, persone che a detta loro “per amore” o “per soccorso” trattengono un gran numero di una specie animale; come chiaramente suggerisce Lisa Simpson, nell’intervista alla “gattara” di Springfield, qual è il confine tra amore e patologia in questi casi? Leggi tutto “L'accumulo di animali”

Hoarding e terapia di gruppo

di Chiara Lignola

“E ora cosa gli faccio?” “E se mi capita un paziente così? Lo invio? Cosa gli dico?”

Ammettiamolo: la parte che tutti noi psicoterapeuti, soprattutto in formazione e neospecializzati, attendiamo nei seminari, workshop, convegni, simposi, è il trattamento: quando, dopo l’esposizione delle caratteristiche del disturbo e del profilo interno da parte dei docenti e relatori di turno, arriva l’ansia di sapere cosa fare con il paziente! Certo c’è da dire che i pazienti con disturbo da accumulo, come è stato spiegato durante il simposio di venerdì 25 settembre 2015 (Il Disturbo di Accumulo: diagnosi e psicoterapia cognitivo comportamentale), sono poco motivati al trattamento e difficilmente si presenteranno spontaneamente nel nostro studio ma piuttosto è più probabile entrare in contatto con loro su invio e segnalazione dei servizi sociali o dei familiari, ma proprio perché, quindi, sappiamo ancora poco di questo disturbo e risulta piuttosto spinoso da affrontare, il nostro senso di smarrimento davanti a un potenziale paziente accumulatore potrebbe sicuramente risultare forse maggiore. Leggi tutto “Hoarding e terapia di gruppo”

L'acquisto compulsivo

di Francesco Baccetti

Il disturbo da accumulo, nella prima descrizione come entità nosografica autonoma, viene descritto da Frost e Hartl (1996) come la tendenza ad acquisire una quantità eccessiva di oggetti e l’incapacità di liberarsene, con conseguente disordine che impedisce il consueto uso degli spazi della casa e lo svolgimento delle funzioni per le quali tali spazi sono adibiti e ne mettono in luce tre aspetti centrali dell’accumulo, che sono in qualche modo le tre facce del disturbo: la tendenza ad acquisire e accumulare un numero eccessivo di oggetti, il disordine derivante dalla difficoltà a organizzare spazi e oggetti, la difficoltà causata dall’accumulo e dalla difficoltà a separarsi dagli oggetti. disturbo-da-accumulo

Una grande parte degli accumulatori presenta un comportamento di acquisto eccessivo, compulsivo: la maggior parte di loro compra un grande numero di oggetti “just in case”, ovvero oggetti che non sono necessari, ma che sono percepiti come potenzialmente utili, del genere “potrebbero servire” e “per ogni eventualità è bene averli” (Frost e Gross, 1993).

In questa avventura ho deciso di occuparmi proprio di questo, dello Shopping Compulsivo, caldamente suggeritomi dalla mia collega Chiara Lignola, dal momento che per alcuni aspetti, questo argomento mi rappresenta. Nella mia quotidianità, nel tempo libero, con amici e colleghi (vero Chiara?), spesso mi ritrovo a fare shopping e a parlare in genere di acquisti, insomma diciamo che non sono così insensibile alle strategie di marketing.

Affrontando questo viaggio mi sono sorpreso di come questo argomento, così legato al disturbo dell’accumulo e per alcuni autori in parte sovrapponibile, sia poco trattato e considerato, tanto da non avere una sua identità in termini diagnostici, visti anche i costi in termini non solo economici ma anche emotivi e sociali che tale problematica comporta. Allo stesso tempo mi sono reso conto di come, le determinanti psichiche sottostanti questo disturbo, siano sfruttate e amplificate dai sistemi di marketing per incentivare in ognuno di noi acquisti d’impulso, risultanti quindi non da valutazioni di tipo funzionale ma fortemente emotive.

Meglio non buttar via niente: scopi e credenze nel disturbo da accumulo

di Rosita Filippone

“Dai colloqui con i suoi primi pazienti con accumulo, Frost racconta di aver ricavato l’idea di trovarsi di fronte a persone più intelligenti della media, dotate di una spiccata capacità di cogliere dettagli che gli altri non vedevano, di rievocare e raccontare la storia di ogni oggetto che possedevano” (Frost e Steketee, “Tengo tutto. Perché non si riesce a buttare via niente?”. tr.it. Erickson, Trento 2012). Esatto! Era quello che speravo di (non) sentirmi dire quando, ripensando allo scatolone di roba “inutile” riposto, da anni, nel mio armadio, mi fossi scoperta un’accumulatrice da manuale… quindi, con enorme curiosità ed entusiasmo, accetto di prender parte alla stesura del libro.disturbo-da-accumulo

Mi riunisco, insieme ai colleghi della mia classe e alla dott.ssa Perdighe per definire il lavoro. Mi sembra subito chiaro che uno scatolone di roba inutile, lasciato in un armadio di una stanza ormai in disuso, in una spaziosa casa, mi “assolva dal dubbio”: non ho rovinato la mia vita, nè la relazione con i miei familiari e sbarazzarmene non sarebbe un problema… nonostante ci sia affezionata. Inizio, così, a pensare se conosco persone che non riescono a buttare via nulla e/o che vivono in condizioni di simile malessere, per rivelare loro quanto di “motivato” ci sia nelle loro scelte. Decido di approfondire, perciò, i processi che regolano il disturbo, voglio capire bene cosa accade nella mente dell’accumulatore, quali sono le credenze e gli scopi.

Non c’è molto materiale da cui attingere ma, dal primo momento, so che verrà fuori un lavoro degno di nota e di attenzione. Scrivere un capitolo di un libro i cui autori sono due illustri esponenti della scuola di specializzazione che stai per terminare, è stato un privilegio, indubbiamente, ma offrire un contributo al benessere dell’individuo, lo è ancora di più. Sono contenta se ne parleranno e se le informazioni raggiungeranno un vasto pubblico, perchè è questa l’idea che, principalmente, mi ha mosso: portare alla luce aspetti di un comportamento apparentemente normale ed incomprensibile, spiegando come dietro la fatica a buttare via e/o di non acquisire continuamente oggetti, a volte, si celi una persona fortemente a disagio con se stessa e con il suo mondo circostante, e non, un semplice collezionista. Il comportamento di accumulo, infatti, esiste da sempre e si ritrova in molte specie animali che, ai fini della sopravvivenza, devono non solo provvedere a procacciarsi cibo ma anche a trovare un luogo sicuro per proteggere la propria riserva alimentare dalla minaccia di altri predatori. Negli esseri umani può accadere qualcosa di molto simile: conservare oggi per ritrovare domani… ma se non è la riserva a motivarci, perché? Quante volte abbiamo pensato a quell’oggetto come legame indissolubile con quel dato momento, con una certa persona che non vogliamo assolutamente finisca cestinata? Ops… cestinato! Si, perchè ad esser buttato via sarebbe l’oggetto in sè (un giornale, un disco rotto, un ciondolo). Eppure, così facendo, potremmo sentirci delle persone irresponsabili e superficiali…in fondo, un oggetto in più in casa non è un dramma…mi aiuta a ricordare, a cristallizzare il tempo, a conservare la mia identità, ad avere un maggiore controllo sull’ambiente. Perchè privarsi di qualcosa che ci fa stare bene? Come è possibile scegliere tra i vari oggetti? Con quale diritto ed abilità si può decidere di fare a meno di una cosa piuttosto che di un’altra?

Che ansia… tanto vale tenere tutto!!!

Cosa causa il disturbo da accumulo?

di Annalisa Bello

Erroneamente accostato al DOC, il Disturbo D’Accumulo (DA) sembra porsi come una singola entità diagnostica anche da un punto vista neurobiologico, come recentemente osservato da Mataix-Cols e coll., (2014).

A partire dalla prima evidenza di neuroimaging (Saxena e coll., 2004), la letteratura inizia a rivolgere particolare interesse alla neurobiologia del DA, dischiudendo la comprensione dell’affascinante fenomenologia comportamentale di tipo accumulatorio, che implicherebbe il coinvolgimento di strutture frontali nonché temporali. In particolare, un compromesso funzionamento a livello della corteccia orbitofrontale e della corteccia anteriore del cingolo unitamente ad un’ipofunzionalità documentabile a livello dei giri superiore e mediale – per ciò che concerne il coinvolgimento temporale – sottendono al la tipica tendenza all’accumulo che, in chiave neurospicologica, si rifletterebbe nella compromessa abilità di decision making.

La chiarezza delle evidenze funzionali, irrobustita dalle indirette confeme, che le stesse ricevono dalla letteratura di studi animali e lesionali, parrebbe quasi porsi come un’importante svolta nella risoluzione dell’insoluto interrogativo circa la natura della relazione causale tra aspetto neurobiologico e comportamentale nel DA. Ma considerando il notevole limite delle evidenze funzionali in merito come scarsamente generalizzabili (trattasi, infatti, di studi che hanno indagato il DA in soggetti con tendenza accumulatoria secondaria al DOC) risuona alquanto consona e condivisibile la necessità di ulteriori approfondimenti ed indagini, come suggerito da Randy Frost, uno degli esperti mondiali su questo tema (Frost e coll. 2014). Rimane, pertanto, ancora aperta l’avvincente questione circa il determinismo causale nel DA : “ è la predisposizione neurobiologica che porta allo sviluppo del DA?” oppure “la tendenza all’accumulo è cognitivamente ed emozionalmente legata alle determinanti psicologiche, il cui riflesso risulterebbe in un anomalo funzionamento cerebrale?”. Seppur non sciogliendo l’intricato enigma scientifico, il mio contributo alla new entry in casa editrice Raffaello Cortina ossia il “Il disturbo d’accumulo” a cura di Claudia Perdighe e Francesco Mancini è stato mosso dall’interesse verso l’ammaliante relationship tra il neurobiologico e la fenomenologia comportamentale nella psicopatologia. Insieme ai colleghi Iolanda Pisotta, Niccolo Varruccio e Brunetto De Sanctis -insieme ai quali si è dato vita a due interessanti capitoli – ho mosso i miei primi passi verso questa insolita commistione di ruoli “autore-studente” che, mai come in questo caso, non ha avuto controindicazioni alcune, anzi (leggere per credere!). Aggiungici, poi, una classe di specializzandi all’ultimo anno, bramosi di clinica in una scuola piena di slancio ed apprezzabili iniziative, in perenne eruzione di stimoli e ammirevole attivismo e il risultato e a dir poco successful (ancora una volta, leggere per credere!).

L'accumulo di animali, una tipologia particolare di accumulo

di Chiara Lignola

 

“Quando il disturbo da accumulo (da) ha per oggetto gli animali, viene definito “accumulo di animali” (animal hoarding, in inglese). Cani e gatti sono le specie più comunemente coinvolte, ma vengono accumulati anche animali selvatici, esotici e specie d’allevamento. Gli animal hoarder (accumulatori di animali) arrivano ad accumulare nella propria abitazione un numero molto elevato di animali (da qualche dozzina fino a centinaia nei casi più gravi) in spazi relativamente ristretti. disturbo-da-accumuloL’aspetto saliente di questo disturbo, oltre al numero di animali accumulati, è che gli animal hoarder spesso non riescono più a garantire le elementari norme igieniche per sé e per gli animali stessi. La specificità dell’accumulo di animali, rispetto al disturbo di accumulo di oggetti, rende utile e necessario dedicare a questo tema un capitolo a sé”.

Così inizia il mio capitolo sull’animal hoarding presente all’interno del libro “Il disturbo da accumulo” pubblicato a febbraio 2015 per Raffaello Cortina, a cura di Claudia Perdighe e Francesco Mancini. Quando è stato proposto a me e ai miei colleghi di specializzazione di partecipare al progetto dell’SPC sul tema del recentemente riconosciuto disturbo da accumulo, ho scelto di occuparmi di animal hoarding, non solo perché non ero pronta ad affrontare il mio problema con lo shopping compulsivo, trattato egregiamente dal collega Francesco Baccetti nel capitolo successivo al mio, ma anche perché avendo due cani e frequentando ormai da anni campi di addestramento della protezione civile per unità cinofile da ricerca, mi è capitato spesso di entrare in contatto con quel mondo “animalista” o per usare un neologismo “animalaro” che si occupa di volontariato, stalli, adozioni, staffette, petizioni, raccolta fondi e firme ma che dietro un amore smisurato per gli animali e un’empatia verso le loro sofferenze può celare problematiche ben più grandi e pericolose. L’era di internet, dei social network in particolare, dove è facile trovare pagine e bacheche invase di annunci riguardanti animali in difficoltà, condivisibili con un click, ha fatto sì che persone con una sensibilità specifica al disturbo siano esposte maggiormente alla possibilità di accumulare animali e che la categoria di hoarder descritti da Patronek, Loar e Nathanson (2006) come “sfruttatori” possano speculare sul traffico di animali mascherato da azioni di volontariato, il tutto a discapito degli animali sottoposti a viaggi della speranza, staffette e condizioni di vita non adeguate alle loro necessità. Ho scoperto, infatti, mano a mano che approfondivo l’argomento, dell’esistenza di tante sfumature e diverse tipologie di animal hoarder: dalle classiche gattare presenti nell’immaginario collettivo, a persone che si posizionano in un area limite rispetto al disturbo, ma anche di diversi sottotipi di animal hoarder che spesso entrano in contatto con loro alimentando a vicenda la loro patologia e di leggi che purtroppo cambiano da Regione a Regione, se non da comune a comune, e che creano un gap tra gli strumenti necessari da utilizzare nelle situazioni di accumulo per poter intervenire adeguatamente e quelli effettivamente disponibili.