Il timore della colpa

di Miriam Miraldi

La scala FOGS per indagarlo e misurarlo

L’origine e il mantenimento del disturbo ossessivo compulsivo (DOC) sono strettamente legati sia all’emozione di colpa sia a un costrutto affine ma ben distinto, ovvero il timore della colpa: la paura di provare quella sensazione che può comportare la messa in atto di comportamenti disfunzionali, per esempio ritualistici o di esplicito evitamento, tesi a eludere questa condizione percepita come sgradevole. La persona con DOC attua attività ossessive con uno scopo protettivo, volto ad anticipare e annullare la possibilità di sentirsi in colpa e, quindi, moralmente deplorevole.

È ragionevole aspettarsi che, nella diagnosi del DOC e nella valutazione della gravità dei sintomi correlati, la paura della colpa svolga un ruolo diverso rispetto alla propensione e alla sensibilità alla colpa. È bene, infatti, sottolineare che propensione alla colpa, sensibilità alla colpa e timore di colpa sono costrutti diversi, che possono prendere anche direzioni differenti: con “propensione alla colpa” intendiamo la tendenza del soggetto a sperimentare tale emozione; con “sensibilità alla colpa” ci riferiamo alla scarsa tolleranza nei confronti dell’emozione di colpa, che viene valutata negativamente; il “timore di colpa” ha invece a che fare con la paura di sentirsi e valutarsi colpevoli per una propria irresponsabilità, giudicando tale irresponsabilità più grave del danno in sé. Le persone con DOC non necessariamente provano livelli di colpa più elevati, ma temono i sensi di colpa che potrebbero provare e quindi agiscono preventivamente per attenuare la colpa.

Sappiamo bene quanto sia importante, nella ricerca così come nella pratica clinica, disporre di strumenti specifici, idonei a misurare le variabili psicologiche. Allo stato attuale, in lingua italiana troviamo questionari che misurano la propensione alla colpa – come la Guilt Inventory di Jones, Schratter e Kluger – e la sensibilità individuale verso questa emozione – come la scala proposta nel 2015 da Perdighe e colleghi; tuttavia non vi è nessuno strumento atto a valutare il timore di colpa e l’impegno profuso nel prevenire o neutralizzare questa esperienza. Nel 2016 gli studiosi canadesi Chiang, Purdon e Radomsky hanno pubblicato la scala denominata Fear of Guilt Scale (FOGS), composta da 17 item volti a valutare l’intensità della paura della colpa, considerando due diversi fattori: a) il fattore punitivo, ovvero l’impulso a punirsi per i sentimenti di colpa e la convinzione che la colpa designi il proprio sé come immorale e imperfetto; b) il fattore di prevenzione dei danni, cioè la spinta proattiva a prevenire danni o altre cause di colpa.

Visto che la scala FOGS si è rivelata essere una misura valida e affidabile della paura del senso di colpa, il gruppo di ricerca di Teresa Cosentino e colleghi, della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma, ne ha di recente tradotto e validato statisticamente la versione italiana, per poter così disporre di uno strumento che consenta di indagare meglio il peso di questo costrutto nell’origine e nel mantenimento del DOC. A tal fine, sono stati realizzati due studi: il primo, volto a valutare la struttura e la validità psicometrica della scala, è stato condotto su due campioni non clinici e a tutti i partecipanti è stata sottoposta una batteria di questionari, per misurare la sensibilità all’ansia, la colpa, la sensibilità alla colpa, la depressione e i sintomi ossessivi; il secondo studio ha proposto la stessa batteria di questionari ma si è rivolto a una popolazione clinica, a sua volta suddivisa in tre sottogruppi: uno con diagnosi di disturbo ossessivo-compulsivo, un altro con diagnosi di disturbo depressivo maggiore e, infine, un terzo con diagnosi di disturbo d’ansia. La finalità era indagare se la paura della colpa fosse prominente per i sintomi di DOC sia rispetto ad altre misure legate alla colpa (ad esempio la propensione, misurata dalla Guilt Inventory e la sensibilità alla colpa, misurata invece con la Guilt Sensitivity Scale), nonché rispetto ad altri disturbi psicologici, come la depressione e l’ansia.

In linea con i risultati di ricerche precedenti, Cosentino e colleghi hanno rilevato che la FOGS mostra alte correlazioni con altre misure relative al DOC che indagano la colpa e che, tali associazioni, sono più forti rispetto a quelle che presenta con le misure di depressione o ansia. Inoltre, la FOGS si è mostrata in grado di discriminare l’appartenenza dei pazienti al gruppo DOC, piuttosto che ai gruppi di pazienti con disturbi ansiosi o depressivi: questo ha supportato l’ipotesi che la paura della colpa caratterizzi, in particolare, i pazienti con sintomi ossessivi rispetto ai pazienti con altre diagnosi. La misura del timore di colpa, ottenuta tramite la FOGS, è un predittore significativo della gravità dei sintomi ossessivi, suggerendo che nel DOC la paura di sentirsi in colpa giochi un ruolo chiave, e che una maggiore intensità di tale emozione rappresenti un’indicazione precisa della presenza di sintomi ossessivi.

Concludendo, il timore di colpa, derivante dal significato attribuito a una condotta percepita come immorale, misurato mediante la FOGS, può contribuire a migliorare la nostra comprensione del DOC. Le analisi hanno fornito prove empiriche sulla bontà della versione italiana dello strumento nel misurare il costrutto, nonché la sua idoneità a distinguere e cogliere le due dimensioni chiave del timore di colpa proposte da Chiang e colleghi, ovvero il fattore punitivo e il fattore di prevenzione del danno.

La FOGS, anche nella sua recente versione italiana, si rivela dunque uno strumento estremamente utile per tutti quei ricercatori e per i clinici che vogliono indagare l’impatto del timore di colpa sulle decisioni e il comportamento e il suo peso specifico nello sviluppo e mantenimento della sintomatologia ossessiva.

Per approfondimenti

Cosentino, T., Pellegrini, V., Gacomantonio, M., Saliani, A. M., Basile, B., Saettoni, M., Gragnani, A., Buonanno, C., & Mancini, F. (2020). Validation and psychometric properties of the Italian version of the Fear of Guilt Scale. Rassegna di Psicologia37(1), 59-70.

Chiang, B., Purdon, C., & Radomsky, A. S. (2016). Development and initial validation of the Fear of Guilt Scale for obsessive-compulsive disorder (OCD). Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders11, 63-73.

Jones, W.H., Schratter, A.K., & Kugler, K. (2000). The guilt inventory. Psychological Reports, 87, 1039-1042.

Perdighe, C., Cosentino, T., Faraci, P., Gragnani, A., Saliani, A.M., & Mancini, F. (2015). Individual differences in guilt sensitivity: The Guilt Sensitivity Scale (GSS). Testing, Psychometrics, Methodology in Applied Psychology, 22, 349-362. 

Lasciare il passato al suo posto

di Miriam Miraldi

Neurobiologia dell’EMDR per il trattamento dei ricordi traumatici

Le esperienze dolorose sono tra i nostri fattori comuni più potenti, che ci fanno sentire universalmente simili, come esseri umani. Ciascuno di noi ha fatto esperienza di sofferenza, ma ad alcuni accade di rimanervi agganciati, come se si fosse per errore calata l’àncora in un porto insicuro e spaventoso, e poi non si sapesse più come tirarla su e riprendere la navigazione: per quanto si provi a spostarsi in avanti, nel futuro, una forza terrifica, trattiene e rimbalza indietro.

Quando impariamo e facciamo esperienza di qualcosa, le informazioni vengono processate e immagazzinate nelle reti neurali: si trattiene ciò che è utile, si scarta ciò che non lo è, e si mettono in connessione fatti e vissuti simili. Anche gli eventi di vita emotivamente carichi vengono generalmente elaborati dal cervello attraverso una risoluzione adattiva, ma quando l’attivazione emotiva è estrema, come quando ci sentiamo gravemente in pericolo e sperimentiamo sensazioni di impotenza, questo può sopraffare il sistema e il normale processo risolutivo può bloccarsi, favorendo l’insorgenza di un disturbo da trauma.

Possono presentarsi sintomi come pensieri intrusivi, incubi, bassa concentrazione, difficoltà mnestiche, ansia, ipervigilanza rispetto a certi stimoli, sensazioni di torpore, come di essere “in una bolla”, evitamento di ciò che si ricorda o è in assonanza con l’evento traumatico. Ogni volta che attraverso qualche stimolo sensoriale o per analogia si ricontatta ciò che è successo, si rivivono nuovamente le stesse paure e angosce, con la medesima intensità, come se fosse ora. Il passato è ancora drasticamente presente, e allora non basterà il tempo a curare tutte le ferite.

L’Eye Movement Desensitization and Reprocessing è un trattamento evidence-based in otto fasi per la cura del Disturbo Post-traumatico da Stress (PTSD). Il terapeuta guida i pazienti ad accedere a esperienze passate che sono alla base di problematiche attuali. Attraverso forme di stimolazione bilaterale (es. movimenti oculari, tapping, stimoli sonori alternati) interviene sui ricordi non elaborati, consentendo al sistema di elaborazione di informazioni del nostro cervello di metabolizzare i vecchi ricordi, in modo che non impattino più emotivamente sul presente, e vengano mentalizzati come eventi passati, che non possono più farci del male.

Negli ultimi anni diverse ricerche neurobiologiche, utilizzando le neuroimmagini, hanno documentato come la EMDR modifichi concretamente le reti neurali e le aree cerebrali: per fare un esempio, si è visto che nelle persone che soffrono di PTSD, l’ippocampo, il centro responsabile del consolidamento delle memorie a lungo termine, può restringersi e, se prima si credeva che ciò costituisse una condizione patologica permanente, le risonanze magnetiche hanno invece dimostrato che la ricrescita dell’ippocampo è possibile quando si interviene psicoterapeuticamente nella risoluzione del trauma. Altri studi svolti con l’ausilio di elettroencefalogramma (EEG) ci vengono in aiuto per comprendere in che modo funziona l’EMDR: dai tracciati EEG si evidenzia come i meccanismi di elaborazione del trauma siano sovrapponibili a ciò che avviene alle informazioni che elaboriamo durante il sonno. In particolare, sembra che la stimolazione bilaterale riproduca le condizioni fisiologiche del sonno non-REM. Usualmente, l’ippocampo si occupa di costituire la memoria episodica, mentre le emozioni a essa associata vengono immagazzinate nell’amigdala; da queste due aree del sistema limbico, l’informazione migra per essere poi elaborata e integrata nella memoria semantica corticale, che consente di dare senso all’evento, all’interno storia personale dell’individuo: questo passaggio avviene durante il sonno non-REM. Cosa avviene, invece, in caso di trauma? In questo caso, le informazioni che si trovano nell’ippocampo e nell’amigdala restano bloccate, cioè non vengono trasferite alla memoria semantica corticale, e perciò non vengono integrate, creando una ri-attivazione emozionale forte, come se l’evento si stesse riverificando nel presente. Durante la terapia EMDR, la stimolazione bilaterale riproduce le condizioni neurofisiologiche del sonno non-REM, consentendo alla memoria episodica di integrarsi nella corteccia associativa e di non avere quell’impatto emotivo disturbante, collocando tali eventi nel passato e sentendo che non possono più farci male nel presente.

È importante che ogni tassello si avvicini al suo posto, che i ricordi imbrigliati nelle reti neurali delle zone arcaiche del nostro cervello possano raggiungere quelle aree più evolute e mentalizzanti, affinché possiamo far fluire i ricordi traumatici e lasciare il passato nel passato.

Per approfondimenti

Shapiro, F., (2013). Lasciare il passato nel passato: tecniche di auto-aiuto nell’EMDR. Astrolabio.

Pagano, G. Di Lorenzo, AR. Verardo, G. Nicolais, I. Monaco, et al. Neurobiological Correlates of EMDR Monitoring – An EEG Study. Plos|One 2012

Paziente e terapeuta: un lavoro combinato

di Miriam Miraldi

Il ruolo della relazione terapeutica in terapia cognitivo-comportamentale

Per favorire il cambiamento atteso da un percorso terapeutico, il terapeuta cognitivo-comportamentale dispone di un’ampia gamma di tecniche, le quali, grazie alla ricerca, stanno diventando sempre più basate sull’evidenza scientifica: tuttavia, questo bagaglio di strumenti è condizione necessaria ma non sufficiente in termini di resa e di efficacia clinica. Il terapeuta è chiamato a una certosina concettualizzazione del caso e, parallelamente, allo sviluppo di una relazione rispettosa, sintonica, aperta, non giudicante, capace di far sentire il paziente accolto in un posto sicuro.

Da queste considerazioni parte il lavoro di Nikolaos Kazantis, professore universitario di psicologia clinica a Melbourne, Frank M. Dattilio, docente presso il dipartimento di psichiatria all’università della Pensilvania, e Keith Dobson, professore di psicologia all’università di Calgary, in Canada: nel volume “La relazione terapeutica in terapia cognitivo comportamentale”, gli autori sostengono che l’obiettivo ultimo della terapia – e della relazione terapeutica – non è capire come adattare ciascun paziente all’interno di una cornice standard di trattamento, quanto piuttosto modulare il modello, adattandolo ai bisogni del paziente che si ha di fronte.

Il manuale fornisce una panoramica delle principali prospettive che si sono sviluppate sul tema nell’ambito della Terapia cognitivo comportamentale (TCC) e si struttura in tre parti.
Nella prima sezione viene definita la relazione terapeutica come lo scambio tra terapeuta e paziente che si sviluppa nella condivisione di credenze, emozioni, sensazioni ed esperienze del paziente allo scopo di attivare un cambiamento. Secondo l’American Psychological Association, “la relazione terapeutica agisce in concerto con i metodi di trattamento, le caratteristiche del paziente e le qualità del clinico nel determinare l’efficacia dell’intervento”. Il terapeuta è chiamato a effettuare una concettualizzazione del caso – che più è specifica, dettagliata e ricca di informazioni, più è efficace nel comprendere le cause e il mantenimento dei problemi di un paziente – e ad adattare alla relazione tutti quei fattori relazionali cosiddetti “aspecifici”, ovvero non prototipici di un orientamento particolare, quali: l’empatia espressa, che valida l’esperienza emotiva del paziente; l’espressione di considerazione positiva, con affermazioni supportive al paziente; l’alleanza di lavoro come forma di dichiarazione di accordo sugli obiettivi terapeutici; la raccolta strutturata dei feedback dal paziente, basata sulla valutazione dei sintomi che manifesta. A questi vanno aggiunti, invece, i principali fattori “specifici” della TCC, quali: a) la collaborazione, spesso paragonata a un’altalena “saliscendi” che richiede sforzi da entrambe le parti per funzionare. Questo aspetto comprende un lavoro di squadra in virtù del quale si invita il paziente a intraprendere un ruolo attivo, a sentirsi padrone del processo, mentre il terapeuta, mantenendo uno stile non interpretativo, riveste la funzione di guida. Per favorire la collaborazione è auspicabile l’uso di un linguaggio inclusivo (“osserviamo insieme cosa succede quando…”, “potremmo provare”); b) l’empirismo collaborativo, attraverso cui il paziente viene sostenuto nell’adottare un metodo “scientifico” per valutare le proprie credenze e “metterle alla prova”; c) il dialogo socratico. Socrate sosteneva: “Io non posso insegnare niente a nessuno, posso solo farli pensare”. All’interno della TCC il metodo socratico è sia tecnica che fattore relazionale specifico: il dialogo socratico, o dialettico, rappresenta una modalità “maieutica” (ovvero che supporta nel “tirar fuori” contenuti interni) di porre domande. Il terapeuta favorendo controesempi, falsificazioni e strategie paradossali come la reductio ad absurdum, facilita la scoperta sul modo del funzionamento del paziente, sulle sue strategie e schemi mentali che a volte possono essere disfunzionali, o poco utili, per il suo benessere psicologico e relazionale.

La psicoterapia è per definizione un processo interpersonale in cui anche la natura delle personalità che interagiscono dà la forma al percorso terapeutico. La parte centrale del manuale illustra proprio come assimilare nell’azione terapeutica gli interventi focalizzati sul comportamento, quelli focalizzati sulla cognizione, gli “esperimenti” cognitivi e comportamentali, fino a sottolineare l’importanza degli homework, ovvero di quei “compiti” non banalmente assegnati ma concordati tra terapeuta e paziente, e che quest’ultimo può impegnarsi a realizzare fra una seduta e l’altra, garantendo in tal modo continuità al suo percorso trattamentale. È importante che il paziente porti avanti queste esperienze tra una seduta e l’altra non per compiacere o per non deludere il terapeuta, ma perché si sente attore del suo percorso di cambiamento.

Nell’ultima sezione del libro gli autori sottolineano l’importanza sia di una pratica professionale deontologica, etica e non discriminante, che della peculiare competenza che il terapeuta deve esercitare nell’essere consapevole, riconoscere e gestire le proprie reazioni emotive e cognitive che si potrebbero attivare all’interno dello scambio relazionale sia col paziente singolo, che all’interno di interventi con coppie, famiglie e gruppi.

Per approfondimenti

Kazantis, N., Dattilio, F.M. e Dobson, K.S. (2019). La relazione terapeutica in terapia cognitivo comportamentale. Manuale per il professionista. Giovanni Fioriti Editore

L’amore (im)perfetto

di Miriam Miraldi

Il disturbo ossessivo-compulsivo nella relazione sentimentale

Il Disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è, per sua natura, la psicopatologia del dubbio: il dubbio di non aver chiuso il gas, di aver lasciato aperta la porta di casa, di essere una persona immorale, di potersi essere contaminato, di poter aver danneggiato qualcuno.
Ma cosa succede quando il dubbio riguarda il proprio partner e il valore della stessa relazione sentimentale?

Accade che talvolta il pensiero ossessivo possa rivolgersi specificatamente a questo tema, portando la persona a interrogarsi e a ruminare per ore, domandandosi se il partner scelto sia davvero la persona giusta per sé, se si prova “il vero amore” o se la relazione sia realmente virtuosa, così “come dovrebbe essere”: parliamo in questo caso di disturbo ossessivo compulsivo da relazione o ROCD (Relationship Obsessive Compulsive Disorder).

Il dubbio sulla perfezione dell’amore spinge a gestire questi pensieri ossessivi con sfinenti richieste di rassicurazione (al partner, ma anche ad altre persone significative) e con controlli o checking di varia natura, che possono riguardare: 

  • il partner, controllando che sia disponibile, amorevole e premuroso, ma anche che sia sempre in ordine, socievole, performante e intelligente (sottoponendolo, per esempio, a verifiche estemporanee, test d’intelligenza, problemi di logica); 
  • sé stessi, valutando la forza dei propri sentimenti, monitorando continuamente se, per esempio, alla vista del partner “si prova ciò che si dovrebbe provare”, se si sentono le farfalle nello stomaco, se ci si emoziona quando si riceve un messaggino al cellulare dal partner o anche verificando – di contro – che non si provino tali emozioni per altre persone; 
  • la relazione, chiedendosi se è davvero profonda e valida, sottoponendola a continui confronti con relazioni di altre coppie conosciute e percepite come soddisfatte e felici, o addirittura paragonandola a un ideale di relazione che deriva da luoghi comuni, affermazioni sentite da altri, letture di romanzi o di riviste.A differenza delle altre forme di disturbo ossessivo compulsivo, che vedono la persona affrontare il problema più con sé stessa (pur richiedendo eccessive rassicurazioni ad altri sui propri dubbi e compromettendo talvolta, per questo, le relazioni), nel DOC da relazione c’è un forte impatto interpersonale diretto perché l’oggetto del dubbio è l’altro e la relazione con l’altro. Il partner può sentirsi sempre chiamato a dare conferme, controllato, giudicato, percependo di non essere all’altezza e sentendo che tutto ciò che fa per l’amato non è mai abbastanza, sperimentando vissuti di frustrazione che minano il buon andamento del rapporto sentimentale. Si attiva, dunque, un circolo vizioso: partendo dal dubbio che la relazione possa non essere “perfetta”, il soggetto può sottoporla a talmente tanti attacchi, test e verifiche, da stressarla e minarne la tenuta. Il dubbio è egodistonico: la persona stessa che lo vive non si sente in sintonia con questo tipo di pensiero; inoltre il soggetto percepisce di continuo autocritica ed emozioni negative, per lo più connesse da un lato alla colpa – sperimentata anche verso il partner, a causa delle continue allusioni di inadeguatezza mosse nei suoi riguardi – e dall’altro alla tristezza e alla delusione, rispetto al fatto che le cose non sono mai “come sarebbero dovute essere”. Il concetto di “bene perduto”, tipico dell’emozione di tristezza, corrisponde qui all’ideale di amore perfetto. Ad esempio Francesco, che già da tempo aveva pensieri ossessivi circa la bontà della sua relazione sentimentale, aveva talmente fantasticato su ciò che aveva sentito dire rispetto a come sarebbe dovuta essere la prima settimana da sposati, sviluppando una serie di credenze assolutistiche in merito, che fu poi profondamente deluso nel constatare che la compagna non gli avesse fatto almeno una sorpresa al giorno, che non gli avesse cucinato i suo i piatti preferiti o che non fossero stati sempre e costantemente in uno stato di totale e immutabile euforia. Questo lo aveva portato a ruminare più del solito sul dubbio che quella relazione non fosse quella giusta, facendolo sentire responsabile della potenziale infelicità propria (colpa verso di sé) e della partner (colpa verso l’altro). Lo psicologo e psicoterapeuta Gabriele Melli e colleghi, in una recente ricerca condotta nel 2018 su 124 soggetti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo da relazione, hanno riscontrato che le convinzioni catastrofiche sull’essere nella relazione sbagliata sono predittori significativi del disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione (ROCD relationship-centered) e che, insieme alle preoccupazioni perfezionistiche, favoriscono il mantenimento dei sintomi del disturbo stesso; inoltre, queste persone mostrano una propensione a interpretare gli “errori” comuni che possono verificarsi in una rapporto (ad es. conflitto o incomprensione) come fallimenti, aumentando i dubbi e le preoccupazioni sulla bontà della relazione; per quanto riguarda invece il disturbo ossessivo compulsivo centrato sul partner (ROCD partner-focused), gli autori suggeriscono che le convinzioni più forti a esso associate sono le paure catastrofiche di essere nella relazione sbagliata: da un lato i pazienti descrivono la paura di rimpiangere di aver deciso di stare con il partner sbagliato (nell’idea che forse fuori, nel mondo, c’è un partner migliore in attesa); d’altra parte, temono di pentirsi qualora dovessero lasciare il partner con cui si trovano (nell’idea, cioè, che forse l’attuale partner sia il vero amore della vita).

    I ricercatori israeliani Guy Doron e Danny Derby, in uno dei loro studi sul tema, parlano di “amore contaminato” e per trattare questo disturbo propongono interventi di tipo cognitivo-comportamentale che vanno nella direzione dell’accettazione del “bene perduto”, ovvero accettazione della perdita dell’amore ideale in favore di uno reale, che non deve e non può essere perfetto in senso assoluto ma deve essere soddisfacente per chi lo vive, favorendo la capacità di includere ed accogliere anche elementi di imperfezione.

    Per approfondimenti:

    Melli, G., Bulli, F., Doron, G., & Carraresi, C. (2018). Maladaptive beliefs in relationship obsessive compulsive disorder (ROCD): Replication and extension in a clinical sample. Journal of obsessive-compulsive and related disorders18, 47-53.

    Doron, G., Derby, D. S., & Szepsenwol, O. (2014). Relationship obsessive compulsive disorder (ROCD): A conceptual framework. Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders3(2), 169-180.

    Doron, G., Derby, D. S., Szepsenwol, O., & Talmor, D. (2012). Tainted love: Exploring relationship-centered obsessive compulsive symptoms in two non-clinical cohorts. Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders1(1), 16-24.

Stare male. Farsi male

di Miriam Miraldi

Il dolore fisico come tentativo di soluzione al dolore emotivo tra gli adolescenti

Negli ultimi anni, se da una parte i dati sul suicidio, seconda causa di morte nei giovani, hanno mostrato un generale calo, dall’altra sono invece aumentati i comportamenti autolesivi, ovvero di aggressione diretta verso di sé, attraverso tagli, bruciature, ferite.

Secondo uno studio del 2017 dell’Osservatorio Nazionale per l’adolescenza, due giovani su dieci hanno questo tipo di esperienza. Alcuni studi rilevano maggiore frequenza nelle ragazze, altri sembrano invece non rilevare significative differenze tra ragazzi e ragazze nella frequenza, piuttosto le differenze di genere sono più evidenti nelle modalità: mentre le ragazze utilizzano maggiormente il cutting o il tagliarsi, attraverso l’uso di lamette o altri materiali come pezzi di vetro,  i ragazzi tendono a utilizzare prevalentemente colpi autoinferti  o bruciature, per esempio di sigaretta o con accendini. I dati possono essere sottostimati in quanto tali comportamenti vengono agiti segretamente e possono essere accompagnati anche da vergogna e colpa, contrastando il diffuso malinteso che l’autolesionismo sia prevalentemente una forma di ricerca di attenzioni.

Solitamente il primo episodio avviene tra i 13 e i 14 anni, tuttavia si osservano alcune più rare situazioni anche in età precedente; in ogni caso si tratta generalmente di giovani che riportano caratteristiche associate al disagio emotivo come la forte autocritica, la depressione, l’ansia e la disregolazione delle emozioni. Inoltre, la letteratura indica che questi fenomeni si associano ad altri tipi di comportamenti autodistruttivi, come le difficoltà legate all’alimentazione e l’abuso di sostanze.

La ricercatrice americana Jennifer Muehlenkamp, in una recente analisi sul tema, condotta insieme ai suoi colleghi, ha evidenziato come nella letteratura scientifica il termine “autolesionismo intenzionale” o “auto-danneggiamento intenzionale” (DSH, deliberate self-harm) viene spesso impiegato come un termine più comprensivo per comportamenti autolesionistici, con o senza intenzionalità suicidaria, che hanno esiti non fatali; questa espressione tende a essere utilizzato principalmente nei paesi europei. Al contrario, molti studi pubblicati da ricercatori del Canada e degli Stati Uniti utilizzano “autolesionismo non suicidario“ (NSSI, non-suicidal self injury) per intendere l’aggressività deliberata e autoinflitta al proprio corpo, senza intento suicidario. In quest’ultima accezione, l’autolesionismo è riconosciuto anche come disturbo specifico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5). Uno dei criteri diagnostici, in particolare, sottolinea anche l’aspetto “motivazionale”, per cui si osserva che l’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi;  risolvere una difficoltà interpersonale; indurre una sensazione positiva.

L’autolesionismo può associarsi a diverse condizioni psicopatologiche, è positivamente correlato al suicidio, e assolve a differenti funzioni sia interpersonali che intrapersonali; lo si riscontra in particolare tra i giovani affetti da disturbi ansioso-depressivi e in coloro i quali mostrano alti livelli di disregolazione emotiva, caratterizzata da marcati e repentini cambiamenti dell’umore.

Ma perché i giovani e giovanissimi attivano tali comportamenti?

Le emozioni costituiscono un potente trigger e l’autolesionismo può essere al servizio di vari scopi: può servire per esprimere rabbia autodiretta o disgusto verso di sé, per punirsi o espiare una colpa, per porre fine a momenti di dissociazione o depersonalizzazione (dovuti per esempio a traumi o abusi); in generale, comunque, viene per lo più eseguito per “dare sollievo”, per alleviare – seppur solo temporaneamente – intense emozioni negative e per interrompere stati mentali indesiderati di frustrazione, solitudine, tristezza, distacco, angoscia o vuoto. Le condotte autolesionistiche consentono di spostare l’attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo da cui, di fatto, originano. Anche da un punto di vista psicofisiologico, diverse ricerche sostengono l’ipotesi per cui esso eserciti la funzione di “regolatore delle emozioni”, in quanto si riscontra un abbassamento dell’arousal durante e dopo la messa in atto comportamenti autolesivi, che avrebbero dunque un potere “calmante”; questi studi derivano per lo più dalla teoria di Marsha Linehan sulla disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità, e sostengono che l’autolesionismo sia quindi una strategia di coping, ovvero di fronteggiamento delle situazioni emotivamente stressanti, per quanto chiaramente maladattiva. Il fatto che tale strategia in qualche modo “funzioni”, inducendo stati positivi, può attivare un circolo vizioso di mantenimento, favorendo la reiterazione di tali comportamenti.

Per approfondimenti

Muehlenkamp, J. J., Claes, L., Havertape, L., & Plener, P. L. (2012). International prevalence of adolescent non-suicidal self-injury and deliberate self-harm. Child and adolescent psychiatry and mental health6(1), 10.

Linehan M.M. (2011). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina Editore.

Klonsky E.D., Victor, S.E e Boaz Y.S. (2014). Nonsuicidal Self-Injury: What we know and what we need to know. The Canadian Journal of Psychiatry, 59(11), 565-568.

Andover M.S., Morris B.W., (2014). Expanding and Clarifying the Role of Emotion Regulation in Nonsuicidal Self-Injury. Can J Psychiatry, 59(11): 569–575.

Ruminazione rabbiosa e disimpegno morale

di Miriam Miraldi

In assenza di standard morali adeguati, capaci di guidare il buon comportamento, l’individuo tende a giustificare i propri comportamenti aggressivi

L’aggressività è un comportamento considerato un rilevante problema sociale e dunque, date le sue evidenti conseguenze negative, è di importanza oltre che teorica anche pratica esplorare quei fattori che possono contribuire a un suo incremento. Oggetto di studio in tal senso è l’emozione di rabbia, la quale viene distinta in letteratura come rabbia “di tratto”, vale a dire una caratteristica personologica stabile nel tempo, e rabbia “di stato”, cioè una condizione emotiva esperita in un momento dato. La rabbia predice i comportamenti aggressivi e alcuni studiosi hanno rilevato come, tra le due, la rabbia di tratto sia più incisiva di quella di stato su questo tipo di condotte. Gli individui che hanno alti livelli di rabbia di tratto hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti aggressivi.

Il concetto di “ruminazione rabbiosa” (AR, Anger Rumination) si riferisce alla tendenza a concentrarsi e a reiterare – anche per un tempo prolungato – stati d’animo, esperienze, ricordi passati legati alla rabbia. Alcuni studi hanno dimostrato che essa abbia un ruolo nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’auto-controllo e della capacità di tolleranza di condizioni spiacevoli, e nella messa in atto di comportamenti aggressivi, sia fisici sia verbali. Le ricerche finora effettuate hanno considerato il rapporto diretto tra rabbia e aggressività, ma è utile anche studiare i meccanismi di mediazione e moderazione: è chiaro che la rabbia di tratto è associata all’aggressività, ma la misura in cui le variabili intervengono mediando questa relazione è meno studiata. Secondo il modello di aggressione generale (GAM) di Craig Anderson e Brad Bushman, le persone agiscono in modo aggressivo sulla base dell’interazione tra vari livelli: fattori personali e situazionali, stati interni ed esiti dei processi di valutazione e decisionali. In particolare, i fattori personali (per esempio tratti di personalità e atteggiamenti) interagiscono con fattori situazionali (per esempio ricevere un insulto) per creare uno stato interno composto da cognizioni (come pensieri ostili), emozioni e attivazione fisiologica. Lo stato interno a sua volta influenza valutazioni e processi decisionali che possono o meno determinare una risposta aggressiva, cioè la rabbia di tratto (come fattore personale) potrebbe influenzare la propensione degli individui all’aggressività attraverso l’innesco di pensieri aggressivi e una crescente attenzione selettiva su eventi provocatori. Alcuni teorici hanno affermato che gli individui con alti livelli di rabbia di tratto hanno una maggiore tendenza alla ruminazione rabbiosa, la quale può contribuire a un aumento dell’aggressività. 

Oltre la ruminazione, un’altra variabile predittiva di comportamenti aggressivi molto studiata, in particolare da Albert Bandura, è il disimpegno morale (MD, Moral Disengagement): esso si riferisce a uno schema psicologico capace di “disconnettere” selettivamente le auto-sanzioni morali apprese, trasformandole in contenuti socialmente accettabili e giustificabili, liberando così l’individuo da sentimenti di autocondanna e colpa. Secondo la teoria del disimpegno morale, la maggior parte delle persone ha sviluppato standard morali personali capaci di guidare il buon comportamento e scoraggiare le condotte aggressive. Pertanto, gli individui di solito si comportano in modo coerente con i loro standard morali interni; tuttavia, questo processo di autoregolazione può essere disattivato in modo selettivo, nel momento in cui viene meno il rispetto delle norme, attraverso il disimpegno morale, che ricostruisce cognitivamente i comportamenti aggressivi in modo tale da renderli poco (o per nulla) sbagliati e dannosi per gli altri.

Partendo dalle conoscenze fin qui acquisite sulla ruminazione rabbiosa e sul disimpegno morale, Xingchao e colleghi hanno condotto uno studio su 646 giovani cinesi, i quali hanno completato questionari che misurano rabbia di tratto, ruminazione rabbiosa, disimpegno morale e aggressività. È emerso che la rabbia di tratto risulta positivamente associata all’aggressività e che la ruminazione rabbiosa media questa relazione. Il disimpegno morale funziona come moderatore sia nella relazione ruminazione rabbiosa/aggressività, sia nella relazione rabbia di tratto/aggressività. È interessante notare che la relazione significativa tra ruminazione e aggressività sembra essere presente solo tra individui con elevato disimpegno morale. Pertanto, il disimpegno morale è un fattore di rischio che rafforza gli effetti negativi della rabbia di tratto e della ruminazione rabbiosa sul comportamento aggressivo. Intervenire per abbassare i livelli di disimpegno morale potrebbe indebolire l’associazione tra rabbia e aggressività, nonché tra ruminazione e aggressività.

In sintesi, lo studio ha portato a due considerazioni importanti: 1) la ruminazione rabbiosa ha un ruolo cardine nella relazione tra rabbia e aggressività e può ulteriormente compromettere le capacità di autoregolazione e di risoluzione della rabbia, a causa della concentrazione prolungata su stati d’animo rabbiosi e su pensieri aggressivi; 2) la relazione tra ruminazione rabbiosa e aggressività non è significativa negli individui con basso disimpegno morale: questo risultato può essere spiegato dalla teoria del disimpegno morale secondo cui gli individui con disimpegno morale alto possono usare molte potenziali spiegazioni per razionalizzare e giustificare i loro comportamenti aggressivi. Al contrario, gli individui con basso disimpegno morale hanno poche probabilità di autoassolversi giustificando i loro comportamenti aggressivi.

A livello di intervento, i programmi che cercano di ridurre la ruminazione rabbiosa andranno particolarmente a beneficio di quelle persone che presentano livelli più alti di disimpegno morale.

Per approfondimenti:

Wang, X., Yang, L., Yang, J., Gao, L., Zhao, F., Xie, X., & Lei, L. (2018). Trait anger and aggression: A moderated mediation model of anger rumination and moral disengagement. Personality and Individual Differences125, 44-49.

Caprara, G. V., Tisak, M. S., Alessandri, G., Fontaine, R. G., Fida, R., & Paciello, M. (2014). The contribution of moral disengagement in mediating individual tendencies toward aggression and violence. Developmental Psychology50(1), 71.

Sensazioni corporee, che paura!

di Miriam Miraldi
Anxiety sensitivity e Disturbo Ossessivo Compulsivo
La persona che soffre di Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) si trova a dover fronteggiare pensieri o immagini negative di tipo intrusivo, attivando compulsioni volte a neutralizzare il disagio da esse prodotto. La Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) può essere un valido aiuto in quanto, attraverso tecniche espositive con prevenzione della risposta (E/RP, Exposure with response prevention), favorisce il graduale avvicinamento agli stimoli temuti, al netto della messa in atto delle usuali strategie disfunzionali che il soggetto utilizza, e che sono generalmente di evitamento e fuga. Tuttavia, non tutte le tecniche sono egualmente efficaci per tutti gli individui e vi sono fattori che possono influenzare gli esiti trattamentali, come ad esempio la copresenza di depressione grave. La ricercatrice americana Shannon M. Blakey e colleghi si sono chiesti di recente se anche la cosiddetta Anxiety Sensitivity (AS), o “sensibilità all’ansia”, possa essere un elemento perturbante il buon esito della terapia per il disturbo ossessivo.
La AS consiste in una peculiare propensione a considerare pericolosi per la propria integrità psicofisica segnali, anche normali, di arousal, o attivazione corporea fisiologica (p.es. palpitazioni, lievi capogiri, vertigini, etc.), che vengono letti dal soggetto non come semplicemente fastidiosi, quanto piuttosto come ambigui o minacciosi, causando un inevitabile incremento dell’ansia; così, ad esempio, una persona con elevata sensibilità all’ansia potrebbe interpretare erroneamente un senso di costrizione toracica come segno di infarto, oppure le vertigini come segno di stare “perdendo il controllo”. Sebbene il concetto di AS sia principalmente associato al disturbo di panico o al disturbo di ansia per la salute, esso è considerato un processo transdiagnostico e un fattore di vulnerabilità per la psicopatologia in genere tanto che – per esempio- specie la dimensione cognitiva dell’AS si associa alla gravità dei sintomi nel DOC. Ci sono motivi per ipotizzare che l’AS possa impattare negativamente sulla buona riuscita del trattamento per tale disturbo. Innanzitutto, l’attivazione ansiosa viene spesso “provocata” durante la terapia di esposizione e pertanto, gli individui con un AS elevato tendono a temere non solo gli stimoli di esposizione di per sé, ma anche le sensazioni di attivazione che vengono “terapeuticamente” indotte durante l’esposizione. Ciò potrebbe comportare che i pazienti affetti da DOC con AS elevata possano essere soggetti a episodi di panico durante l’esposizione, il che condurrebbe a comportamenti di evitamento e ostacolerebbe sia l’aderenza al trattamento, che la fiducia nelle tecniche; inoltre, le ossessioni di alcuni pazienti potrebbero direttamente riguardare sensazioni somatiche ambigue: per esempio, un paziente che presenta un DOC da contaminazione può essere particolarmente ipervigilante e ansioso in risposta a sensazioni di nausea, che spesso accompagnano l’attivazione ansiosa.
La ricerca di Blackey ha inteso esaminare la misura in cui i livelli di partenza di AS possano influenzare l’esito del trattamento in un campione di individui con diagnosi clinica di DOC: 187 partecipanti sono stati inclusi in un programma di trattamento residenziale presso il Centro dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi del Rogers Memorial Hospital di Oconomowoc, nel Wisconsin, che comprendeva una media di 28 ore settimanali di esposizioni graduate, gruppi di psicoeducazione, terapia cognitivo comportamentale individuale. Tutti i partecipanti hanno completato una batteria di questionari self report, sia pre- che post-trattamento, che includeva: una scala di valutazione dei sintomi ossessivo-compulsivi (DOCS,Dimensional Obsessive-Compulsive Scale); una scala di valutazione della depressione (BDI-II, Beck Depression Inventory-II); e infine una scala specifica per l’Anxiety Sensitivity (ASI, l’Anxiety Sensitivity ), un questionario di 16 item sulle credenze riguardanti la pericolosità dell’arousal (ad es., “Mi fa paura quando il mio cuore batte rapidamente”). Scopo dello studio era comprendere perché alcuni pazienti con DOC non aderiscono o rispondono alla TCC, sebbene sia l’intervento gold standard per tale disturbo.
Coerentemente con l’ipotesi dei ricercatori, l’AS era correlata positivamente con la gravità del DOC prima della terapia e ciò indica che un livello maggiore di paura delle sensazioni corporee è associato all’aumento della gravità del DOC. Lo studio ha confermato, inoltre, che maggiori livelli basali di AS, prospettivamente, predicono la gravità dei sintomi anche dopo la terapia.
Un importante passo è considerare il meccanismo attraverso il quale AS ostacola gli effetti della terapia sul DOC: si può ipotizzare che un AS elevata possa amplificare le difficoltà di esposizione; in particolare, le esposizioni che generano attivazione fisiologica possono essere vissute come più impegnative o angoscianti non solo a causa della paura degli stimoli (ad esempio, “Toccare il gabinetto mi farà star male”), ma anche a causa della minaccia associata all’attivazione fisiologica (es. “Se il mio cuore batte forte, avrò un infarto”). Sembra quindi che i pazienti ossessivi con alta Anxiety Sensitivity si debbano confrontare simultaneamente con due stimoli di paura condizionati durante le esposizioni, che potrebbero comprensibilmente portare a una più complicata aderenza al trattamento.
La terapia dovrebbe dunque implicare l’uso simultaneo di esposizioni “enterocettive” e di esposizioni in vivo : per esempio, una paziente che interpreta le sue mani tremanti come un’indicazione che è altamente probabile che agisca i suoi pensieri ossessivi indesiderati di pugnalare una persona cara, potrebbe condurre esercizi di esposizione enterocettiva “su misura” (es., tenendo una posizione di pressione per indurre il tremore) immediatamente prima di tenere un coltello, mentre è vicino alla persona cara (esposizione in vivo).
Per quanto riguarda le implicazioni cliniche, può dunque essere vantaggioso avvalersi anche di tecniche di esposizione enterocettiva, per modificare l’interpretazione erronea di sintomi fisici, inducendo deliberatamente sensazioni corporee temute, ma senza impegnarsi in strategie di riduzione dell’attivazione fisiologica, allo scopo di estinguere la paura delle sensazioni legate all’arousal: questo potrebbe aumentare la compliancenelle tecniche terapeutiche di esposizione che si utilizzano per il DOC e la buona riuscita della terapia.
Per approfodimenti:
Blakey, S. M., Abramowitz, J. S., Reuman, L., Leonard, R. C., & Riemann, B. C. (2017).  Anxiety sensitivity as a predictor of outcome in the treatment of obsessive-compulsive disorder. Journal of behavior therapy and experimental psychiatry, 57, 113-117.
Calamari, J. E., Rector, N. A., Woodard, J. L., Cohen, R. J., & Chik, H. M. (2008). Anxiety sensitivity and obsessive—compulsive disorder. Assessment,15(3), 351-363.
​Gragnani, A., Cosentino, T., Bove, A., & Mancini, F. (2011). Trattamento breve con l’uso dell’esposizione enterocettiva in un caso di disturbo di panico con agorafobia. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale,17 (2), 235-250.

Gli incubi nel disturbo post-traumatico

di Miriam Miraldi

Cambiarli in nuove immagini positive da svegli e ridurne la frequenza di notte

Il disturbo post-traumatico si manifesta a seguito di uno o più eventi di rottura drammatica del regolare svolgersi della vita di un individuo. Una forma di ri-sperimentazione del trauma avviene attraverso gli incubi, il cui contenuto spesso riguarda, o comunque si associa, a luoghi, persone o situazioni legati all’evento traumatico. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) definisce gli incubi come “ripetuti episodi di sogni estesi, estremamente disforici e ben ricordati che di solito comportano sforzi per evitare minacce alla sopravvivenza, alla sicurezza o all’integrità fisica”. Oltre il 70% delle persone con disturbo post-traumatico (PTSD) presenta incubi frequenti, contro circa il 2-5% della popolazione generale. Secondo la terapia cognitivo comportamentale, gli eventi traumatici possono creare un network mnestico disfunzionale basato sull’emozione di paura (fear structure), sul quale si può intervenire a livello trattamentale attraverso attività di esposizione in vivo o in immaginazione, nell’idea che l’elaborazione di informazioni correttive produca cambiamenti nella rete dei ricordi traumatici. Secondo questo modello, gli incubi sono un elemento della fear structure e sono concettualizzati come un sintomo di re-esperienza che si verifica semplicemente di notte; pertanto, gli incubi dovrebbero diminuire sensibilmente col trattamento per il PTSD, sebbene in alcuni studi condotti su persone sopravvissute a eventi come terremoti o guerre si è rilevato come, nonostante una riduzione importante, gli incubi possano continuare a costituire un disagio clinicamente significativo.

Nel 2015, la ricercatrice canadese Katia Levrier e colleghi hanno condotto uno studio per esaminare se la presenza di incubi prima dell’inizio della terapia cognitivo comportamentale per il PTSD influenzi il trattamento. I 71 partecipanti, tra i 18 e i 65 anni, hanno ricevuto un trattamento di terapia cognitivo comportamentale (CBT) di 20 sessioni in setting individuale e sono stati valutati in cinque momenti: al pre-trattamento, dopo la terza e la nona sessione, a fine trattamento e al follow-up a sei mesi, attraverso la somministrazione della SCID-I, una checklist su eventi di vita stressanti, e della Clinician-Administered PTSD Scale (CAPS), un’intervista strutturata per valutare il disturbo post-traumatico da stress. I partecipanti hanno ricevuto un manuale e i terapeuti hanno seguito un protocollo di intervento standardizzato: i primi tre incontri sono stati centrati sulla psicoeducazione dei sintomi post-traumatici e sulle strategie anche fisiche di gestione dell’ansia, focalizzate sulla respirazione diaframmatica; le sessioni da quattro a nove consistevano nell’esercitare l’esposizione immaginativa ai ricordi dell’evento traumatico, con una ristrutturazione cognitiva; le ultime dieci sessioni sono state l’esposizione in vivo a situazioni evitate e la prevenzione delle ricadute.

Lo studio ci presenta risultati di rilevo: innanzitutto, la presenza di incubi non influisce sull’efficienza complessiva dell’intervento psicoterapeutico, dunque i partecipanti con alta presenza di incubi all’inizio della terapia non hanno beneficiato meno della CBT rispetto a chi non presentava invece questo sintomo. Inoltre, la terapia cognitivo comportamentale ha avuto un impatto positivo sulla riduzione degli incubi con il 77% dei partecipanti, che non li presentava quasi più dopo il trattamento. È interessante notare che la CBT ha avuto un effetto sulla riduzione degli incubi in fasi specifiche nel corso del trattamento: la frequenza degli incubi ha iniziato a diminuire dopo aver praticato l’esposizione immaginativa e ha continuato a decrescere fino alla fine della terapia, quando l’esposizione in vivo è stata completata. Il distress e l’angoscia percepiti relativi agli incubi hanno seguito invece un’altra traiettoria, con una diminuzione già dopo la psicoeducazione e gli esercizi di respirazione diaframmatica (la cui funzione è quella di fornire un modo per ridurre l’ansia del paziente quando esposto a stimoli correlati al trauma), fino alla fine degli interventi di esposizione immaginativa. Rispetto all’impatto della psicoeducazione sul distress c’è da dire che non vi sono studi precedenti in merito, e che quello che si è visto è che generalmente gli individui sembrano rimanere scettici sul fatto che la frequenza degli incubi possa essere oggetto di trattamento e, pertanto, si potrebbe ipotizzare che la psicoeducazione, durante la quale vengono fornite ai partecipanti informazioni sui sintomi del disturbo post-traumatico, possa invece aiutarli a ristrutturare questa convinzione, contribuendo così a ridurre il disagio associato agli incubi. Infine, l’obiettivo dell’esposizione, sia in immaginazione che in vivo, è quello di aiutare la persona a cambiare la percezione di una situazione e, quindi, la reazione a questa situazione specifica.

Queste evidenze, relative al ruolo delle esposizioni, si inseriscono sul filone di studi relativi all’efficacia della Terapia di Ripetizione Immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT), ideata da Barry James Krakow e di stampo cognitivo-comportamentale, che incoraggia la persona a visualizzare l’incubo in stato di veglia, per modificarlo attivamente in una direzione meno angosciosa, la stimola a prendere il controllo dei suoi incubi modificandoli in qualsiasi modo desideri (ad esempio, modificando l’ambientazione, adottando “superpoteri”, ecc.) e introducendo quanti più dettagli possibili (ad esempio, emozioni, sensazioni fisiche, ecc.) al fine di facilitare l’assimilazione del nuovo finale nella memoria; quindi, il paziente “prova” il nuovo sogno con il terapeuta e viene incoraggiato a continuare la pratica, almeno due volte al giorno, a casa, nel tempo che precede la seduta successiva.

La base di partenza, ancora da sottoporre a nuovi e futuri studi, sta nell’idea che lavorare sulle immagini durante la veglia influenzi gli incubi perché i pensieri che facciamo durante il giorno si associano ai contenuti dei sogni notturni, perciò cambiare gli incubi in nuove immagini positive, reiterandole da svegli, porterebbe a una significativa riduzione degli stessi.
Per approfondimenti:

Levrier, K., Marchand, A., Belleville, G., Dominic, B. P., & Guay, S. (2016). Nightmare frequency, nightmare distress and the efficiency of trauma-focused cognitive behavioral therapy for post-traumatic stress disorder. Archives of trauma research, 5(3).

Levrier, K., Marchand, A., Billette, V., Guay, S., & Belleville, G. (2017). Imagery Rehearsal Therapy (IRT) Combined with Cognitive Behavioral Therapy (CBT). In Cognitive Behavioral Therapy and Clinical Applications. IntechOpen.

Krakow, B., Kellner, R., Pathak, D., & Lambert, L. (1995). Imagery rehearsal treatment for chronic nightmares. Behaviour Research and Therapy33(7), 837-843.

Effetti di esperienze negative precoci

di Miriam Miraldi

Schemi maladattivi nel Disturbo Ossessivo Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una condizione clinica caratterizzata da pensieri o impulsi indesiderati, che definiamo “ossessioni”, e dai tentativi di ridurre o neutralizzare l’ansia attraverso compulsioni – mentali o comportamentali – di tipo ritualistico. Le linee guida indicano come interventi elettivi la terapia comportamentale, con l’uso di tecniche di esposizione quali l’ERP (Exposure and response prevention), e la terapia farmacologica (principalmente inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, SSRI). Tuttavia, il 50% dei pazienti non risponde in modo soddisfacente a queste forme di trattamento e inoltre, persone con DOC che presentano in comorbidità disturbi di personalità o gravi difficoltà interpersonali ricevono meno benefici dalla tradizionale terapia cognitivo-comportamentale (CBT); questo sembrerebbe dipendere anche dalle difficoltà che tali pazienti manifestano nell’accedere alle loro stesse emozioni.

La Schema Therapy (ST) ideata dallo psicoterapeuta Jeffrey Young è un approccio di terza generazione, integrato, che armonizza le strategie della CBT con modelli legati alla teoria dell’attaccamento, l’analisi transazionale, la gestalt e la psicoanalisi delle relazioni oggettuali. Young identifica 18 Schemi Maladattivi Precoci, ovvero temi generali e pervasivi relativi al sé e all’altro, costituiti da ricordi, emozioni, sensazioni corporee e pensieri, e che si strutturano a partire dal temperamento di base, dalle esperienze frustranti e da bisogni non soddisfatti dai caregiver nell’età dello sviluppo. A partire dagli schemi maladattivi, si sviluppano anche i mode, definiti come stati emotivi intensi che si verificano quando gli schemi vengono attivati e includono le strategie di coping adottate. Per gestire il disagio derivante dall’attivazione degli schemi, gli individui sviluppano stili di coping specifici che rappresentano “strategie di sopravvivenza” e che includono, ad esempio, la “resa” (sottomissione a relazioni di abuso o trascuratezza), l’evitamento (dissociazione, evitamento comportamentale, uso di sostanze o altre strategie per evitare il contatto con bisogni emotivi) e l’ipercompensazione (es. il tentativo di controllare gli altri o le situazioni, oppure la ricerca di approvazione).

La ST nasce come trattamento per difficoltà relazionali, ma ha mostrato efficacia anche su Disturbi di Asse I. Specifici schemi e mode sono stati proposti per diversi disturbi e Ellen Gross ha presentato una formulazione per il DOC secondo l’approccio ST. A tal proposito, Katia Tenore e colleghi hanno indagato il ruolo degli schemi, dei mode e degli stili di coping in 51 soggetti non clinici che presentavano alti sintomi di DOC e li hanno confrontati con un gruppo di controllo di soggetti senza questa sintomatologia. Nel gruppo che presentava precise peculiarità per le caratteristiche del DOC, sono stati identificati Schemi Maladattivi prevalenti quali “sfiducia/abuso”, “vulnerabilità al pericolo” e “standard severi/ipercriticismo”, che hanno conseguentemente attivato in misura maggiore specifici mode, in particolare “genitore esigente” e “bambino vulnerabile” (che prova emozioni negative come tristezza, solitudine, colpa, vergogna), e stili di coping disfunzionali, come l’evitamento.

Lo schema “sfiducia/abuso” si riferisce al fatto che il soggetto viva con l’aspettativa che gli altri intenzionalmente lo possano ferire, umiliare, manipolare o approfittarne. Le persone con questo schema verosimilmente hanno subito forme di abuso, sono state trattate in modo ingiusto oppure hanno ricevuto sistematicamente severe punizioni da parte dei loro caregivers; infatti, diversi studi riportano che molti pazienti con DOC presentano esperienze traumatiche durante l’infanzia. Il clima familiare descritto dai pazienti ossessivi risulta molto centrato sulla moralità e sul rispetto rigido di norme; inoltre spesso queste persone ricordano le reazioni genitoriali come distanzianti e caratterizzate da espressioni facciali di diniego, come “mettere su il muso”. Il mode “bambino vulnerabile” può sorgere in risposta a un messaggio punitivo o critico dettato dall’aver commesso errori o dal non aver raggiunto determinati standard elevati. In queste persone, anche la paura di essere rimproverati, criticati o umiliati quando si commette un errore può dunque spiegare la presenza dello schema di sfiducia/abuso nel DOC.

Lo schema “standard severi/ipercriticismo” si basa sulla convinzione di dover puntare al massimo e di dover evitare critiche. È caratterizzato da un senso di pressione verso se stessi e si attiva con il mode “genitore esigente”, che spinge verso obiettivi irrealisticamente alti, portando a comportamenti ipercontrollanti e perfezionistici, al fine di evitare errori e prevenire un senso generale di insuccesso; queste modalità possono spiegare i comportamenti compulsivi dei pazienti, come il controllo, i lavaggi e la ruminazione.

L’altro schema che si è mostrato attivo nel gruppo di partecipanti che mostravano sintomi ossessivo-compulsivi è la “vulnerabilità al pericolo”, intesa come suscettibilità sia a fattori interni (es. i propri pensieri) che esterni (es. un timore di contaminazione), in riferimento al timore esagerato connesso alla credenza di una catastrofe imminente.

L’identificazione di specifiche caratteristiche di personalità nel DOC può avere importanti implicazioni cliniche. La presenza dello schema di sfiducia/abuso, ad esempio, potrebbe avere un ruolo ostativo nella costruzione di un’alleanza terapeutica sicura, mentre lo schema degli standard elevati potrebbe portare i pazienti a lottare per obiettivi non realistici o perfezionistici, anche all’interno della terapia stessa. Inoltre, affrontare il tema delle modalità genitoriali esigenti e punitive costituisce un importante lavoro sulla vulnerabilità storica e rappresenta un ulteriore aspetto rilevante nel trattamento del DOC, poiché queste sembrano essere fortemente associate ai comportamenti compulsivi, che rappresentano il modo disfunzionale di far fronte a tali regole genitoriali introiettate. In sintesi, la Schema Therapy sostiene come esperienze negative precoci nella storia di vita di una persona possano divenire sensibilizzanti rispetto a specifici contenuti cognitivi ed emotivi tipici di alcuni disturbi, come ad esempio il disturbo ossessivo-compulsivo. 


Per approfondimenti

Tenore, K., Mancini, F., & Basile, B. (2018). Schemas, modes and coping strategies in obsessive-compulsive like symptoms. Clinical Neuropsychiatry15(6).

Gross, E., Stelzer, N., & Jacob, G. (2012). Treating OCD with the schema mode model. In The Wiley-Blackwell Handbook of Schema Therapy (pp. 173-184). John Wiley & Sons, Ltd., Oxford.