Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2017

di Katia Tenore

Il tema del rigore scientifico nell’ascolto del paziente al workshop internazionale sulla psicopatologia sperimentale 

Si è recentemente conclusa la terza edizione del Rome Workshop on Experimental Psychopathology (RWEP), l’unico workshop internazionale sulla psicopatologia sperimentale al quale sono orgogliosa di non essere mai mancata. RWEP è un luogo di incontro e di scambio, dove ricercatori e clinici di tutto il mondo possono dialogare, presentando i loro ambiti di indagine e di intervento e sottolineando luci e ombre della psicopatologia.

Ho ascoltato con interesse numerose ricerche volte a mettere in luce i processi di base che generano e mantengono i disturbi mentali e i meccanismi che consentono a una terapia di risultare efficace. Ciò che ha colpito maggiormente la mia attenzione è stato un fortuito e inaspettato fil rouge comune alla maggior parte delle main lectures. Leggi tutto “Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2017”

Il "gene della follia": un mito da sfatare

di Maurizio Brasini

Nella sua pluri-decennale esperienza di ricerca epidemiologica sulle psicosi, Richard Bentall riferisce di essere partito da uno sforzo di approfondimento della mole di studi sui fattori bio-genetici, per approdare a considerare sempre più l’importanza delle determinanti ambientali, che lui definisce “fattori di rischio sociale“, una svolta che lo stesso Bentall racconta, nel corso della sua relazione al “II Rome Workshop on Experimental Psychopathology” (Roma, 20-21 marzo 2015), essere stata per lui inattesa. Vediamo brevemente come e perché. La schizofrenia (e con essa i distrubi di area psicotica in generale) è stata da sempre considerata una malattia “organica” con una rilevante componente ereditaria. Secondo Bentall questa idea è sopravvissuta fino ai giorni nostri in modo assiomatico, a dispetto di qualunque prova empirica. Bentall sostiene che nonostante i decenni di massicci investimenti nella ricerca delle determinanti genetiche della schizofrenia si siano dimostrati infruttuosi, a mantenere in piedi questa convinzione abbia contribuito una concezione errata eppure consolidata dei meccanismi stessi dell’ereditarietà genetica.

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Il principale e più diffuso errore è considerare che l’ereditarietà di una determinata manifestazione patologica sia data dal rapporto tra la variabilità attribuibile ai geni e la variabilità totale. L’errore logico di questa impostazione è semplice: si assume che la somma dei due effetti faccia il totale, e di conseguenza si presume che un alto livello di ereditarietà riduca proporzionalmente le influenze dell’ambiente su un determinato esito patologico. E’ sulla base di questa assunzione che vengono diffuse informazioni secondo le quali la supposta ereditarietà della schizofrenia sarebbe pari all’80%. (schizophreniaresearch.org).

Bentall dimostra con alcuni chiari esempi come questa concezione sia fuorviante. Innanzitutto, un ragionamento simile dovrebbe riguardare le popolazioni e quindi non andrebbe applicato ai singoli individui. Ma, soprattutto, è facilmente dimostrabile che alti livelli di ereditarietà non implicano una riduzione dell’impatto delle cause ambientali (e viceversa). Bentall fa l’esempio di una popolazione ipotetica composta esclusivamente da accaniti fumatori; utilizzando il modello del rapporto gene/ambiente per valutare l’ereditarietà, con la variabilità ambientale ridotta quasi a zero (tutti tabagisti), la prevedibile epidemica diffusione del carcinoma polmonare in questa ipotetica popolazione di fumatori andrebbe attribuita quasi interamente alla genetica anziché all’effetto nocivo del tabacco. Un ulteriore difetto di questo modello esplicativo “additivo” è che non si tiene in considerazione la correlazione tra fattori genetici e ambientali; sempre utilizzando l’esempio del fumo, Bentall propone di immaginare cosa accadrebbe se la tendenza a sviluppare una dipendenza dalla nicotina fosse influenzata geneticamente: a quali cause dovremmo ascrivere lo sviluppo di un tumore al polmone nei fumatori, genetiche o ambientali? Su queste premesse Bentall nota che stime di elevata ereditarietà mascherano rilevanti effetti ambientali quando esiste una correlazione tra variabili genetiche ed ambientati, il che è verosimilmente il caso delle psicosi. Un ultimo errore concettuale che Bentall evidenzia riguarda la nostra idea naif della trasmissione genetica, quella secondo la quale dovrà pur esistere un gene che determina la psicosi così come un gene stabilisce il colore dei fiori dei piselli di mendeliana memoria. Ebbene questa concezione, alla luce di oltre un secolo di straordinari progressi nel campo della genetica, si è rivelata fondamentalmente inesatta, e la vecchia regola “un gene una funzione” è oggigiorno considerata “dogmatica” dai genetisti in primis, anche per caratteristiche molto più puntuali del disagio mentale. Per quanto riguarda i fattori di rischio genetici della schizofrenia, gli studi sul genoma umano sembrano indicare l’esistenza di alcune migliaia (sì, migliaia!) di geni correlati in modo blando seppure statisticamente significativo con la schizofrenia. Prese nel loro insieme, queste migliaia di geni rendono conto di circa il 30% della varianza per la schizofrenia. Migliaia di geni potenzialmente “a rischio” significa che ognuno di noi verosimilmente ne erediterà un “pacchetto” in numero variabile, pescando a caso dal mazzo del patrimonio genetico dei propri genitori; in termini epidemiologici, significa che il rischio genetico di psicosi è distribuito in modo ampio e variabile in tutta la popolazione umana. E’ come dire che siamo tutti dotati di un po’ di geni della follia (chi più e chi meno); dopo di che, saranno soprattutto i nostri percorsi evolutivi a stabilire se questi geni manifesteranno o meno il loro potenziale. E’ appena il caso di accennare qui che, facendo riferimento ad un’ampia mole di ricerche epidemiologiche, tra i fattori che incidono in questi percorsi evolutivi Bentall individua principalmente elementi di svantaggio e di marginalizzazione sociale, nonché le interazioni traumatiche, specie quelle subite in età precoce. Nelle sue considerazioni conclusive, Richard Bentall sfata un ulteriore mito: che considerare la psicosi come una malattia ad origine bio-genetica renda questa condizione più accettabile e più “trattabile” clinicamente. Al contrario, la ricerca dimostra che questa convinzione comporti un atteggiamento più negativo e un maggiore stigma nei confronti dei pazienti psicotici.

II Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2015

di Roberta Trincas e Maurizio Brasini

Da poco si è concluso (20-21 Marzo 2015) il secondo Rome Workshop on Experimental Psychopathology organizzato dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva SPC di Roma, e sponsorizzato dalla Società Italiana Terapia Comportamentale e Cognitiva SITCC. Il workshop è stato dedicato alla presentazione e discussione di studi empirici rilevanti per la psicopatologia sperimentale. I partecipanti di questa edizione sono stati ricercatori, dottori di ricerca e professori provenienti da diversi Istituti universitari e centri di ricerca nazionali (Trento, Napoli, Roma) e internazionali (Regno Unito, Belgio, Irlanda, Spagna, Serbia, Israele, Olanda, Germania, USA). Il workshop è stato aperto da Francesco Mancini (SPC, Roma), membro della Commissione Scientifica e Organizzativa del workshop insieme a Carlo Buonanno (SPC, Roma) Alessandro Couyoumdjian (Sapienza Università di Roma), Andrea Gragnani (SPC, Roma), Cristina Ottaviani (Fondazione Santa Lucia, Roma), Nicola Petrocchi (Sapienza Università di Roma), Katia Tenore (SPC, Roma), Roberta Trincas (SPC, Roma). In questa edizione le due giornate sono state strutturate in quattro sessioni orali riguardanti temi specifici: la psicopatologia, le neuroscienze, i bias e i processi cognitivi, i metodi di trattamento della psicopatologia; e una sessione poster.

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Il primo intervento è stato quello di Graham Davey (Sussex University, UK), A Manual for Experimental Psychopathology: Developing Valid Psychological Models of Psychopathology using Healthy Individuals, che ha elaborato un’analisi critica dei metodi di ricerca utilizzati nell’ambito della psicopatologia sperimentale. Molto interessante la sua argomentazione, semplice e inattaccabile, che i modelli psicopatologici debbano individuare meccanismi universali di funzionamento dei processi cognitivi di base, per cui non ha alcun senso limitare la ricerca a popolazioni cliniche. A seguire, gli interventi si sono concentrati sulle caratteristiche di differenti psicopatologie, l’importanza della disperazione come fattore che favorisce la vulnerabilità cognitiva alla depressione (Igor Marchetti; Università di Ghent, Belgio), la percezione del controllo nella depressione (Rachel Msetfi; Università di Limerick, Irlanda), gli schemi cognitivi in pazienti con deliri paranoidei (Ljiljana Mihic, Università di Novi Sad, Serbia), il modello Seeking Proxies for Internal States (SPIS) come possibile spiegazione del dubbio e dei rituali nel DOC (Reuven Dar, Università di Tel Aviv, Israele), la prestazione del narcisista in condizioni di minaccia (Barbara Nevicka, Università di Amsterdam, Olanda).

La sessione di neuroscienze ha visto tre interventi inerenti il possibile ruolo delle cortecce posteriore e prefrontale nello sviluppo del DPTS (Gudrum Sartory, Università di Wuppertal, Germania), il ruolo del glucosio e dell’ippocampo nella generalizzazione dell’ansia (Laura Luyten, Università di Leuven, Belgio), e il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo del bias attentivo verso la minaccia (Laura Sagliano, Università di Napoli, Italia). I contributi della sessione sui bias e sui processi cognitivi sono stati diversi, dagli effetti della pre-esposizione ad un contesto simile a quello di condizionamento sulla generalizzazione della paura (Dieuwke Sevenster, Università di Leuven, Belgio), all’influenza dello stato motivazionale sull’elaborazione attentiva di cue inerenti il cibo (Jessica Werthmann, King’s College di Londra, UK), agli effetti delle strategie di regolazione emotiva nell’esecuzione di compiti di decision making (Cinzia Giorgetta, CNR – ISTC Trento, Italia).

La sessione sulla psicoterapia ha compreso interventi riguardanti l’efficacia di differenti tecniche di trattamento: la Schema Therapy per la depressione cronica (Fritz Renner, Università di Maastricht, Olanda), un programma di training sul controllo cognitivo per i sintomi depressivi (Ernst Koster, Università di Ghent, Belgio), un protocollo cognitivo-comportamentale di prevenzione per i figli di genitori affetti da depressione, PRODO (Kornelija Starman, Università di Monaco, Germania). Inoltre, diversamente rispetto allo scorso anno, è stata introdotta una sessione per gli studenti (tirocinanti, specializzandi, dottorandi) in cui ogni lavoro ha ricevuto un commento da uno dei senior (Graham Davey dell’Università di Sussex, UK; Marcel Van den Hout dell’Università di Utrecht, Olanda; Alessandro Couyoumdjian dell’Università La Sapienza di Roma, Ernst Koster dell’università di Ghent, Belgio; Reuven Dar dell’Università di Tel Aviv, Israele; Richard McNally dell’Università di Harvard, USA). Quest’ultima è stata una buona opportunità per gli studenti che hanno ricevuto un feedback da esperti nel settore, e il dibattito è stato acceso e costruttivo. In questa sessione gli interventi sono stati ricchi e interessanti, e hanno toccato diversi argomenti: l’influenza dell’umore triste sull’autostima implicita (Lonneke van Tuijl, Università di Groningen, Olanda) e sull’elaborazione sensoriale (Katharina Koch, Sapienza Università di Roma, Italia), gli effetti del pensiero astratto di tipo “why” sulla memoria di lavoro (Jens Van Lier, Università di Leuven, Belgio), l’effetto della ruminazione sulle funzioni esecutive (Jelena Sokic, Università di Novi Sad, Serbia), l’elaborazione inconsapevole dell’espressione della rabbia nell’ansia sociale (Nikola Samac, Università di Novi Sad, Serbia), la ruminazione nell’età evolutiva e la sua relazione con lo stile genitoriale, i parametri psicofisiologici e le caratteristiche di tratto (Blu Cioffi, Sapienza Università di Roma, Italia).

Quest’anno i Keynote Speakers sono stati: Richard McNally (Università di Harvard, USA), Marcel Van den Hout (Università di Utrecht, Olanda); Richard Bentall (Università di Liverpool, UK), e Nira Liberman (Università di Tel Aviv, Israele). McNally (titolo della lecture: Experimental and network analyses of PTSD and complicated grief) e Van den Hout (titolo della lecture: Network theory and the experimental psychopathology of OCD) hanno entrambi dedicato il loro intervento ad un nuovo approccio alla psicopatologia basato sulla “network analysis”. In questo approccio la visione tradizionale secondo la quale i sintomi costituiscono le manifestazioni visibili di disturbi sottostanti che ne sono la causa è considerata fuorviante in psicopatologia. Piuttosto, secondo questa prospettiva dovremmo considerare che i disturbi sono collezioni di sintomi concatenati tra loro, e che pertanto anche la psicoterapia non deve far altro che individuare le manifestazioni sintomatiche, quali ad esempio l’ansia o la tristezza, capire come funzionano e agire in modo da ridurre queste manifestazioni, a partire dalle più rilevanti. Una volta concentrata l’attenzione sui sintomi, si possono costruire delle reti di interconnessione tra sintomi che tendono a presentarsi insieme, e in tal modo individuare quali sintomi sono “centrali” in una determinata sindrome. Secondo questo modello “a rete”, più un sintomo è centrale, più la sua remissione potrà agire “a cascata” sulla remissione degli altri sintomi e quindi sulla risoluzione del disturbo stesso.

L’intervento di Bentall (From social risk factors to psychotic symptoms) ha dimostrato con dati e argomenti assai convincenti la natura assiomatica dell’idea che i disturbi psicotici siano determinati geneticamente, per arrivare a concludere, sempre sulla base di solide prove empiriche derivate da numerosi studi epidemiologici, che i principali fattori predittivi di psicosi sono di natura sociale. Non sorprende che tra questi fattori cosiddetti “sociali”, spicchino per rilevanza i maltrattamenti e in particolare quelli subiti in età infantile. La visione in generale è che i disturbi più gravi siano primariamente connessi ad una diffusa mancanza di una adeguata rete di supporto sociale.

L’intervento conclusivo è stato quello della Liberman (Transcending psychological distance: a Construal Level Theory perspective), che ha presentato un modello che dimostra quanto la prospettiva, ovvero la distanza psicologica che assumiamo, possa influenzare i nostri processi cognitivi e, in particolare, quelli decisionali. In generale, la posizione sostenuta dalla Liberman è che prendere le distanze favorisca processi cognitivi più astratti e, quindi, in ultima analisi più efficaci. Tuttavia, questo effetto, diceva la relatrice rispondendo a una domanda, potrebbe non valere in tutti i casi. Ad esempio, i pazienti affetti da DOC sembrano eccedere in senso opposto, divenendo eccessivamente accurati nelle loro valutazioni. Nello stesso senso, si notava che le terapie di terza generazione mindful-based sembrano invitare ad assumere una prospettiva più prossimale, orientata al presente. La Liberman stessa suggeriva la possibilità che la patologia possa risiedere nella scarsa capacità di modulare la prospettiva, da vicino a lontano, a seconda delle circostanze.

Per concludere, in generale la partecipazione al workshop è stata prevalentemente internazionale e le ricerche presentate sono state di livello elevato dal punto di vista scientifico. Sono stati, inoltre, numerosi i riferimenti alle difficoltà di ottenere fondi e visibilità per questo settore di ricerca. E’ un peccato che la tradizione di ricerca sui processi di base, che tanto è tornata utile alla psicologia clinica sia in termini di metodo sia in termini di conoscenze acquisite, stia attualmente cedendo il passo; e in particolare è un peccato che ceda il passo per una fascinazione a volte un pò acritica nei confronti delle neuroscienze e della genetica. Per questi motivi, l’intento di questo workshop è proprio quello di portare avanti e accrescere una rete internazionale focalizzata prevalentemente sui meccanismi di base della psicopatologia.

PS. Si ricorda che a breve verrà pubblicato il libro degli abstract del RWEP 2015 e i video delle main relation.

Dai fattori sociali di rischio ai sintomi psicotici: l’intervento di Richard Bentall al Rome Workshop on Experimental Psychopathology 2015

di Elena Bilotta elena bilotta_2

L’intervento di Richard Bentall* per il Rome Workshop on Experimental Psychopathology (20 e 21 Marzo) ha preso in analisi il ruolo di diversi fattori sociali di rischio nell’insorgenza della schizofrenia. La teoria eziologica del Prof. Bentall parte dall’analisi di una serie di ricerche epidemiologiche che suggerirebbero un potenziale rischio per tutta la popolazione di sviluppare sintomi psicotici, perché questi sono identificabili lungo un continuum che parte da un funzionamento cognitivo normale. Esistono però dei fattori sociali e ambientali di rischio (oltre a quelli genetici) che farebbero la differenza nel determinare chi possa poi effettivamente manifestare sintomi psicotici nel corso della sua vita. Primo fra tutti: l’ambiente nel quale si vive. Vivere in ambiente urbano costituisce un pericolo per la salute mentale, non tanto perché le città sono caotiche, sporche e pericolose: ma perché, sottolinea Bentall, nelle grandi città è più evidente la disparità sociale, fonte di stress per l’individuo. In una metropoli è più probabile essere esposti a una convivenza tra persone molto ricche e persone molto povere; questo fenomeno è invece meno evidente nei piccoli centri. Ciò che cambia, inoltre, è l’entità del supporto sociale a disposizione nei due diversi luoghi: una variabile che costituisce un importante fattore di protezione per la salute mentale. Vivere in città espone inoltre le persone a conformarsi a una serie di strutture (sociali, culturali, politiche, economiche) che rendono impossibile il controllo sull’immediato contesto sociale, agendo come fonte di stress/emarginazione per le persone che non fanno parte (o che non sentono di far parte) della comunità. Questi fenomeni sono meno frequenti nei contesti rurali, perché è diversa la loro struttura sociale (Oher et al., 2014). In altre parole, se è vero che si hanno più probabilità di sopravvivenza se si viene colpiti da un attacco di cuore e si vive Roma, anziché in un villaggio in Africa, può essere verosimile che accada l’opposto per la malattia mentale.

Il discorso di Bentall ha trattato anche l’aspetto di specificità di sintomi: sintomi positivi, in particolare la paranoia, sono più facilmente osservabili in contesti urbani piuttosto che rurali. Considerato inoltre che i sintomi di paranoia possono essere una conseguenza di episodi di vittimizzazione, trauma e discriminazione, Bentall sostiene che tali tipi di avvenimenti possono accadere più di frequente in ambienti urbanizzati e altamente popolati. Oltre ai fattori legati all’ambiente di residenza, Bentall si è concentrato sul trauma come ulteriore fattore sociale di rischio per la manifestazione di sintomi psicotici. Maltrattamento (abuso fisico, psicologico e sessuale, neglect), vittimizzazione (bullismo), esperienze di perdita o separazione da un genitore, stile di comunicazione parentale vago, frammentato, o contraddittorio, sono tutti fattori di rischio per lo sviluppo di una psicosi (de Sousa et al., 2013). Ma quanto è forte l’effetto del trauma sullo sviluppo della schizofrenia? Secondo Bentall, è paragonabile al rischio di contrarre un tumore nei fumatori abituali. Secondo i risultati di una recente metanalisi (Varese et al., 2012) circa 150.000 persone non svilupperebbero il disturbo se si avesse la possibilità di eliminare tali fattori di rischio. Ritornando al discorso della specificità, anche in questo caso è possibile identificare un’associazione tra trauma sessuale e sintomi allucinatori, mentre esiste una forte correlazione tra sintomi paranoidei e neglect. L’intervento del Prof. Bentall si è concluso con due importanti messaggi, diretti alla comunità scientifica e alle Istituzioni: aprirsi alla possibilità di un trattamento della schizofrenia focalizzato su trauma e teoria dell’attaccamento, e fornire maggior peso al ruolo dell’insicurezza lavorativa, dell’isolamento sociale, della povertà, della vita in contesto urbano nella spiegazione dell’insorgenza della schizofrenia.

* Richard Bentall è Docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Liverpool, UK. I suoi lavori sulla manifestazione della schizofrenia e sulla spiegazione dei sintomi allucinatori e paranoidei sono ampiamente conosciuti e condivisi dalla comunità scientifica internazionale. Suo l’intervento al RWEP2015 dal titolo “From social risk factors to psychotic symptoms”.

Bibliografia citata

de Sousa, P., Varese, F., Sellwood, W., & Bentall, R. P. (2013). Parental communication and psychosis: a meta-analysis. Schizophrenia bulletin, 40 (4): 756-768.

Oher, F. J., Demjaha, A., Jackson, D., Morgan, C., Dazzan, P., Morgan, K., Bentall, R.P., & Kirkbride, J. B. (2014). The effect of the environment on symptom dimensions in the first episode of psychosis: a multilevel study. Psychological medicine, 44(11), 2419-2430.

Varese, F., Smeets, F., Drukker, M., Lieverse, R., Lataster, T., Viechtbauer, W., … & Bentall, R. P. (2012). Childhood adversities increase the risk of psychosis: a meta-analysis of patient-control, prospective-and cross-sectional cohort studies. Schizophrenia bulletin, 38(4), 661-671).