Nuove terapie: come orientarsi?

di Claudia Perdighe

Il convegno SITCC di Bari ha affrontato il tema dell’approccio professionale agli interventi di psicoterapia più recenti e in continua nascita

Come orientarsi nel proliferare di sempre “nuove psicoterapie”? Non sarebbe compito delle scuole di formazione fare da interfaccia tra gli studenti e le varie forme di terapia possibile?

Sono questi i due quesiti centrali emersi durante la tavola rotonda che ha dato il via al convegno Sitcc di Bari. La prima domanda, posta dal prof. Cesare Maffei, ha trovato risposta della seconda, rivolta al relatore da una studentessa tra il pubblico. Ebbene, sono proprio le scuole a supportare gli specializzandi nelle scelte rispetto alla formazione e sugli interventi terapeutici più efficaci con i pazienti.

Argomentazioni esaurienti a queste e ad altre domane sono state fornite durante il simposio “Disturbo Ossessivo Compulsivo: protocolli di intervento, procedure e tecniche di intervento innovative”, che ha visto Elena Prunetti  in veste di chair e  Teresa Cosentino nel ruolo di discussant. Difficile sintetizzare l’intera discussione, che tocca vari temi chiave per la psicoterapia.  Per darvi un’idea dei percorsi affrontati, ecco un elenco di quesiti con risposta che possono rappresentare i cardini delle riflessioni durante l’incontro:

    • perché si soffre? La spiegazione va cercata a livello di scopi e credenze;
    • perché i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo soffrono? Perché hanno il terrore di vedere minacciata la loro dignità morale, vale a dire iper-investono sulla prevenzione della colpa;
    • quale è il bersaglio dell’intervento, vale a dire cosa devo cambiare perché i sintomi si riducano? Il timore di colpa;
    • quali strumenti terapeutici abbiamo a disposizione per colpire il bersaglio? Tutti quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) di prima e seconda generazione, innovazioni di queste (come quella proposta da Angelo Saliani), procedure di terza generazione come la compassion therapy;
    • funziona? Sono stati elaborati dati attendibili su esiti positivi delle procedure.

In altri termini, sembra che quando ci si muove su una spiegazione chiara della psicopatologia e di uno specifico disturbo, ne derivi una ipotesi chiara sul funzionamento dello specifico paziente che definisce il target dell’intervento. Diventa così più facile orientarsi (e orientare i giovani specializzandi) tra le procedure e forme di terapia. Ad esempio, se è chiaro che il mio bersaglio è il timore di colpa, posso provare a farlo con: esposizione, provando a modificare le credenze che lo sostengono, provando ad aumentare la disponibilità al perdono di sé e all’autocompassione, provando a modificare le memorie delle esperienze su cui il timore di colpa si è creato con procedure di Schema Therapy o EMDR e cosi via. Con questa impostazione, ne deriva anche una maggiore facilità di risposta alla domanda: funziona?

Un’osservazione a margine: in questo simposio non si è posta l’attenzione esplicita sulla relazione. L’impressione è che, come suggerito sempre da Angelo Saliani nelle tavole rotonde sull’impasse terapeutico, una profonda conoscenza della psicopatologia permette di ricavare interventi che riducono i problemi di ordine relazionale oltre a facilitare una via d’uscita efficace laddove si presentano.

In sintesi, tornando al tema principale, laddove ci sia una teoria psicopatologica chiara (e in questo caso è quella di Francesco Mancini sul DOC), diventa molto più facile orientarsi, applicare e studiare l’efficacia di procedure nuove.

In questa impostazione, troviamo anche una risposta alla domanda: come ci si può formare bene su tutte queste nuove terapie?

Non è necessario “formarsi bene”, se con questo si intende formarsi a un altro modello teorico di spiegazione della psicopatologia. È vero che le terapie di terza onda sono basate su una teoria esplicativa diversa da quelle di seconda generazione, ma per usare molte procedure non è necessario “comprare tutto il pacchetto”.

Cosi come è accaduto con il training assertivo o con l’ERP, procedure di cambiamento nate all’interno della teoria comportamentale, possono essere integrate perfettamente tra le tecniche di un terapeuta CBT senza la necessità di “sposare” la teoria esplicativa sottostante. Se fatto in modo coerente non è confusivo ne tantomeno un ecclettismo pasticciato; l’importante è avere chiaro cosa esattamente si vuole cambiare nel paziente e in che modo quella procedura può essere utile a tale fine. Del resto credo che pochi tra i colleghi della Sitcc che usano l’EMDR, sposino anche la teoria esplicativa sottostante.

Un’ultima osservazione: sembra che parte della confusione nasca dal mettere molte procedure di cambiamento nella categoria “terapia” e non “tecnica” o “procedura”, con il sottinteso che è una nuova o differente teoria di spiegazione, oltre che di cura, del paziente. E, purtroppo, forse spesso la ragione di questo è più economica e di status, che di tipo scientifico.

Senso di colpa, emozione a due facce

di Estelle Leombruni

Colpa altruistica e colpa deontologica: una tesi dualistica

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, offrendo al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la “colpa altruistica”, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la “colpa deontologica”, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana, tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni: per esempio, la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come del cosiddetto omission bias ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, in particolare, nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui la colpa deontologica svolge un ruolo cruciale, e di alcune forme di reazione depressiva, per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati.

L’approfondimento proposto dai due autori consente, quindi, non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma anche di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

Non posso, non devo, non voglio…

 

Il rapporto tra scopi e anti-scopi nella genesi della sofferenza psicologica

Nel corso della terapia il Sig. S. si esprime sempre con frasi che specificano bene come dovrebbe e non dovrebbe essere: “Non voglio essere dipendente da nessuno, non voglio essere debole, non voglio essere un fallito, non voglio somigliare ai miei genitori, voglio essere amato e sostenuto”. Per evitare il realizzarsi di questi scenari temuti S. riferisce di impegnarsi molto sul lavoro, di sacrificarsi e controllare i suoi pensieri e comportamenti. Tuttavia tali strategie sembrano causargli disagio, ansia generalizzata e preoccupazioni ipocondriache sino a farlo sentire proprio come suo padre che descrive come spento, solo e fallito.
Proprio come il nostro Sig. S. ogni altro individuo rappresenta se stesso e il mondo che lo circonda secondo strutture di significato definite “credenze” e orienta naturalmente i propri processi cognitivi e le proprie condotte sulla base di stati desiderati, definiti invece “scopi”, la cui soddisfazione potrà avvenire attraverso una modificazione della realtà, al fine di renderla il più possibile aderente a ciò che ci si è idealmente rappresentati oppure con la prevenzione di ciò che si teme maggiormente. In altre parole, ciò che perseguiamo, per cui ci battiamo, e che governa e dirige l’attenzione, la memoria e più in generale il pensiero, oltre che i comportamenti, ricopre un ruolo fondamentale nel funzionamento psicologico di ciascuno. Negli anni, la teorizzazione di tale concetto (scopo) è stata centrale e dibattuta dalle diverse discipline e correnti psicologiche.
Alcuni sottolineano la presenza di scopi evolutivi e innati, altri parlano di scopi esistenziali; il cognitivismo approfondisce il rapporto fra scopi-credenze e sofferenza psicologica, evidenziando la differenza fra scopi strumentali e scopi terminali.
Il cognitivismo, in ogni caso, definisce il ruolo degli scopi come un elemento fondamentale dell’organizzazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’individuo. Infatti, proprio in relazione a gli scopi, il cognitivismo spiega come la sofferenza psicologica sia supportata dalla presenza di convinzioni automatiche negative, rigide e assolutistiche, su se stessi, su gli altri e sul mondo, che possono minacciare o compromettere tali scopi in modo più o meno definitivo.
L’esperienza quotidiana di ciascuno ci suggerisce, e la letteratura scientifica lo conferma, che uno scopo compromesso o minacciato sarà fonte di sofferenza psichica la cui intensità solitamente è direttamente proporzionale sia a quanto lo scopo è nucleare nel funzionamento della persona, sia a quanto questo scopo venga investito, o ancor più iper-investito, in termini di valore conferito e dispendio di energie impiegate per perseguirlo. Francesco Mancini e Claudia Perdighe in un interessante articolo forniscono una chiara spiegazione di cosa si intenda per compromissione e minaccia di uno scopo. Nel dettaglio gli autori intendono per compromissione “una rappresentazione della realtà diversa dallo stato desiderato, ove lo stato desiderato è la rappresentazione del mondo verso cui tendere” e per minaccia “una rappresentazione di un evento al quale si attribuisce o del quale si riconosce il potere di compromettere uno o più scopi personali”.
Talvolta, però, si formulano desideri, aspirazioni (e con questi altresì credenze e regole) anche al negativo: “Non posso/voglio essere debole, non voglio essere dipendente e bisognoso, non voglio essere come mia madre, non devo arrabbiarmi. Un simile stato mentale, in cui ci diciamo quello che mai vorremmo essere (anti-scopo), sembra giocare un ruolo cruciale nella genesi e nell’accrescimento del dolore emotivo”.
Da questa prospettiva è evidente quale rilevante ruolo abbiano le credenze che si intrattengono in merito a scopi e anti-scopi. Dunque, cosa avviene quando ci prefiguriamo nella mente gli scopi al contrario, ovvero formulando le aspirazioni al negativo e anticipando scenari temuti?
Cosa significa per l’individuo “non posso essere debole, non devo essere bisognoso o non posso essere arrabbiato”? Quali emozioni vengono esperite e come sono gestite? Dunque, inseguire o fuggire?
Talvolta potrebbe essere proprio il focus sullo scopo VS anti-scopo a determinare differenze individuali che a loro volta generano uno stato mentale orientato al perseguimento o alla fuga.
 Roberto Lorenzini spiega, infatti, come al mondo del perseguimento si affianchi quello della fuga motivata dall’anticipazione dello scenario temuto e dalla prevenzione del rischio che esso si verifichi. In questo caso non saremmo, dunque, guidati dalla spinta verso il raggiungimento del risultato bensì dalla prevenzione o dall’evitamento del fallimento. Seguendo questa concettualizzazione, si potrebbero pertanto delineare due configurazioni dissimili rispetto all’attenzione rivolta verso gli scopi o gli anti-scopi e le loro diverse declinazioni nei diversi profili di sofferenza e psicopatologia.
Per fare un esempio, quanto è saliente nel Sig. S. la relazione tra lo scopo dell’essere amabile/accudito/riconosciuto e lo scopo di essere debole vs forte?
Nell’ottica di questa concettualizzazione, infatti, ci si imbatte spesso in progetti di vita, il più delle volte inconsapevoli, in cui non ci si impegna tanto a perseguire ciò che effettivamente renderebbe più serena l’esistenza, quindi verso scopi raggiungibili, bensì si impiegano consistenti dosi di energie per evitare i loro antagonisti – gli antiscopi, sacrificando cosi preziose opportunità pur di aggirare scenari catastrofici altamente temuti.
Si innesca, dunque, uno stato mentale orientato alla prevenzione e finalizzato a sorvegliare l’investimento su scopi ed anti-scopi in modo trasversale: ad esempio nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, a prescindere dal posizionamento di scopi e antiscopi (essere moralmente integro/degno, essere non colpevole/non sporco) il funzionamento del disturbo sembra risiedere in un atteggiamento iper-prudenziale secondo il quale non è contemplata, in nessuna misura, la possibilità di esporsi anche ad un piccola quota di rischio.
In virtù di quanto esposto, identificare i propri scopi e anti-scopi permette da un lato di fare luce sulla loro origine e sul loro significato, dall’altro di individuare le credenze che vi si legano, le emozioni esperite e i comportamenti più o meno problematici messi in atto per promuoverli o tutelarli. Nel caso del Sig. S. potrebbe essere proprio il conflitto fra le due posizioni (atteggiamento promozionale/atteggiamento di prevenzione) a generare sofferenza. Ad esempio il suo iniziale approccio di tipo promozionale “essere forte, affermato, autonomo, allegro, soddisfatto” cede difronte ad un evento di vita spiacevole (condizione medica transitoria) portandolo a sviluppare un atteggiamento di tipo preventivo (di inibizione ed evitamento) in risposta alla minaccia di scopi per lui nucleari di appartenenza, autonomia ed amabilità, compromessi dalla condizione di malattia (debole/malato=non amabile e solo).
Pertanto, nel corso del trattamento, è stato utile riflettere sui costi dei suoi comportamenti di controllo e sul senso del suo iper investimento portandolo così, nel tempo, a ristrutturare le credenze “non voglio essere debole” sino ad accettare il rischio di poter esperire sofferenza e quindi debolezza e vulnerabilità senza per questo rinunciare alla piacevolezza dell’esistenza.
Concludendo, tracciare una mappatura di scopi e anti–scopi si mostra funzionale a svelare velocemente i temi centrali della persona, il loro grado di soddisfazione/compromissione e le determinanti cognitive e comportamentali correlate; il tutto con l’intento di conoscere la provenienza e il funzionamento della sofferenza psicologica al fine ultimo di sviluppare un percorso di psicoterapia capace di promuovere un processo di ristrutturazione e cambiamento.

Per approfondimenti

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre?
il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Nuovo approccio al senso di colpa

di Redazione

La ricerca degli esperti della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) pubblicata sulla rivista dell’International Society for the Study of Individual Differences

Moralità e senso di colpa possono essere visti come due facce della stessa medaglia: la colpa è il risultato emotivo di un conflitto tra il nostro comportamento e la moralità che abbiamo interiorizzato in relazione al contesto e alle esperienze di vita. È quanto emerge da una ricerca condotta nell’ambito dell’attività scientifica della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (APC-SPC) diretta dal neuropsichiatra Francesco Mancini. La ricerca è stata coordinata dalla dottoressa Alessandra Mancini e i risultati sono stati pubblicati nell’ultimo numero di Personality and Individual Differences, la rivista accademica ufficiale dell’International Society for the Study of Individual Differences (ISSID), edita da Elsevier.

Secondo il “Modello intuizionista sociale del giudizio morale” dello psicologo statunitense Jonathan Haidt, la moralità è concettualizzata come multidimensionale e costituita da cinque fondamenti morali: danno/cura, che riguarda la sensibilità alla sofferenza e alla crudeltà; imparzialità/reciprocità, che si concentra sulla necessità di giustizia; associazione/lealtà, che implica cooperare e fidarsi del proprio gruppo; autorità/rispetto, che ha a che fare con la valorizzazione dell’obbedienza e del dovere; purezza/santità, che include il disgusto per la contaminazione e riguarda coloro che non riescono a superare i loro impulsi di base.

Le varie culture rispettano questi principi in modo diverso. A un livello più individuale, valori e ideali hanno un ruolo centrale e definiscono l’identità di una persona, motivandola a comportarsi coerentemente con essi. Poiché è accertato che le emozioni negative segnalino la percezione di una discrepanza tra la realtà e le convinzioni e gli obiettivi individuali, le emozioni morali potrebbero funzionare come allarme di una divergenza tra la moralità interiorizzata degli individui e la rappresentazione morale nella società.

In particolare, la colpa è stata definita come “sensazione disforica associata al riconoscimento che si ha violato uno standard morale o sociale personalmente rilevante”. Tuttavia, ci possono essere differenze individuali rispetto a ciò che è “personalmente rilevante”.

Nella convinzione che riconoscere diversi tipi di sensi di colpa rappresenterebbe un passo importante nella ricerca, nello studio Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, gli autori hanno creato uno strumento valido e affidabile – la Moral Orientation Guilt Scale (MOGS) – in grado di misurare in modo indipendente diversi tipi di sensi di colpa, testandolo su un ampio campione subclinico al quale sono stati sottoposti test classici e innovative tecniche di analisi.

L’obiettivo era di evidenziare diversi tipi di sensi di colpa riflessi nei valori morali interiorizzati dagli individui. Questo approccio di convalida incrociata ha indicato quattro fattori di colpa: “violazione delle norme morali”, “sporco morale”, “empatia” e “danno”. Se i primi due fattori sono risultati correlati positivamente con la sensibilità al disgusto, supportando il legame tra disgusto e colpa deontologica, il fattore “danno” è risultato correlato negativamente con i punteggi di sensibilità al disgusto, in linea con l’idea che l’altruismo e il disgusto si siano evoluti come parte di sistemi motivazionali contrastanti.

Dagli esiti dell’indagine è emersa dunque la distinzione tra sentimenti di colpa che attengono alla moralità deontologica e sentimenti di colpa che riguardano la moralità altruistica.

Per scaricare l’articolo

Mancini A., Granziol U., Migliorati D., Gragnani A., Femia G., Cosentino T., Saliani A.M., Tenore K., Luppino O.I., Perdighe C., Mancini F., (2022), Moral Orientation Guilt Scale (MOGS): Development and validation of a novel guilt measurement, Personality and Individual Differences, 189

 

 

Foto di EKATERINA BOLOVTSOVA da Pexels

Ridurre le ossessioni modificando i ricordi d’infanzia

Da una ricerca della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC) è emerso come la tecnica dell’Imagery Rescripting sia efficace nella riduzione dei sintomi del Disturbo ossessivo-compulsivo.

“Riscrivere” i ricordi dell’infanzia legati al rimprovero può ridurre le ossessioni dell’individuo. È il risultato dello studio innovativo Imagery rescripting on guilt-inducing memories in OCD: A single case series study, condotto da un gruppo di lavoro della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma, diretta dallo psichiatra e psicoterapeuta Francesco Mancini, e pubblicato a settembre 2020 sulla rivista Frontiers in Psychiatry. Gli autori hanno rilevato cambiamenti clinicamente significativi nella sintomatologia del Disturbo Ossessivo-Compulsivo a seguito di un intervento terapeutico basato sull’utilizzo della tecnica dell’Imagery Rescripting (ImRs).

Il Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è una condizione clinica sperimentata da circa l’1,5% della popolazione e caratterizzata da ossessioni e compulsioni. Le ossessioni sono pensieri ricorrenti e persistenti.

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Le compulsioni sono invece quei comportamenti che l’individuo si sente spinto a compiere in risposta a un’ossessione, volti a prevenire o ridurre l’ansia, l’angoscia e, in particolare, il senso di colpa: i risultati di diversi studi hanno infatti attribuito alla responsabilità e al senso di colpa un ruolo cruciale nell’insorgenza e nel mantenimento del Disturbo ossessivo-compulsivo. Le osservazioni cliniche mostrano che in caso di rimprovero, i genitori di pazienti con disturbo ossessivo compulsivo ritirano l’amore, ignorano il bambino e non sono inclini a perdonare. È quindi plausibile che queste esperienze abbiano convinto il paziente che basta un piccolo errore per ricevere rimproveri seri, aggressivi, sprezzanti e umilianti da figure significative, come i genitori.

È qui che si fa strada la tecnica dell’Imagery Rescripting: partendo dai risultati ottenuti in un recente studio dello psichiatra britannico David Veale, gli autori della ricerca hanno voluto verificare se modificando – tramite l’utilizzo dell’ImRs – la valenza emotiva dei ricordi dei rimproveri che hanno indotto i sensi di colpa, si potessero ridurre in maniera duratura i sintomi del Disturbo ossessivo-compulsivo. Un campione di 18 partecipanti di età compresa tra 18 e 65 anni con una diagnosi di DOC è stato invitato a selezionare dalla memoria i primi ricordi dell’infanzia e, in particolare, il ricordo di rimprovero più intenso dal punto di vista emotivo, non necessariamente legato ai sintomi di DOC. Dopo tre sessioni di ImRs, seguite da un monitoraggio fino a tre mesi, i partecipanti hanno sperimentato una significativa riduzione clinica dei sintomi: 14 dei 18 partecipanti – il 77,7% – hanno ottenuto un miglioramento almeno pari al 35% sulla scala Yale-Brown (Y-BOCS), che misura il Disturbo ossessivo-compulsivo e quattro sono risultati addirittura asintomatici.
Lo studio della Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma apre dunque un nuovo e interessante scenario nell’intervento clinico del Disturbo ossessivo-compulsivo e nella ricerca contemporanea sul DOC.
Per approfondimenti:

DOC e DOCP durante la pandemia

di Gianluca Ghiandi e Giuseppe Femia

Il lockdown per il Covid-19 ha evidenziato le differenze tra il disturbo ossessivo compulsivo e il suo omonimo di personalità

Il Covid-19 è un virus noto ormai da alcuni mesi a livello mondiale a causa dei suoi effetti negativi non solo per la salute fisica (febbre, tosse, polmonite e persino la morte) ma anche per quella psichica, soprattutto considerando le ripercussioni che questa malattia ha avuto nella vita delle persone.
Il lockdown mondiale ha infatti portato, forse per la prima volta nella storia dell’essere umano, a un “cessate il fuoco” collettivo, un’immobilizzazione di massa a cui probabilmente non eravamo preparati. Viviamo, infatti, in un’era in cui la “corsa contro il tempo”, affinché si riesca a svolgere tutte le attività giornaliere programmate, sembra essere una prerogativa fondamentale delle nostre vite. Fare, fare e ancora fare.
Risulta quindi comprensibile supporre che, quando arriva il momento in cui ci viene chiesto di “non fare”, non solo questo ci risulta strano e inaspettato, ma produce anche conseguenze negative di considerevole impatto sul nostro status psico-emotivo, con le quali tutti (o quasi) dovremmo farne i conti. Un’indagine condotta da Wan-Sheng Wang e collaboratori della Huaibei Normal University, in Cina, ha mostrato un aumento dei vissuti emotivi di ansia, depressione e sensibilità ai rischi sociali, con una conseguente diminuzione della soddisfazione della vita.

Nonostante la prevalenza di questi vissuti emotivi sia molto comune nella popolazione, le reazioni comportamentali sembrerebbero invece essere diverse in simili circostanze. Prendiamo ad esempio in esame il disturbo ossessivo compulsivo e il suo omonimo di personalità. Da tempo questi due disturbi, nonostante le numerose evidenze scientifiche mostrino il contrario, vengono spesso associati e confusi come due manifestazioni sintomatologiche sovrapponibili. Infatti, mentre la persona con disturbo ossessivo compulsivo presenta un quadro sintomatologico caratterizzato da ansia e pensieri indesiderati, insight e sofferenza a causa delle proprie ossessioni, sentimenti di colpa e propensione al disgusto, le persone che presentano un assetto ossessivo della personalità si caratterizzano per la presenza di standard elevati, rigidità, difficoltà a gettare oggetti inutili, avarizia, iper-produttività a discapito delle attività di svago e di piacere, regole rigide e intransigenti rispetto a ciò che è giusto o sbagliato, estrema aderenza all’autorità e scarsa capacità a comprendere il punto di vista e le emozioni degli altri, apparendo spesso arroganti, prepotenti, testardi e polemici. Quest’ultimi mostrerebbero, inoltre, una spiccata difficoltà a manifestare le proprie emozioni in quanto spinti dall’idea che debbano essere controllate per non danneggiare il valore di sé. Infine, nella clinica si è riscontrato spesso che i pazienti con DOC manifestano maggiore capacità di adattamento sul piano sociale, affettivo e interpersonale rispetto ai pazienti con DOCP.

Forse oggi, in tempo di pandemia, è possibile riuscire a delineare ed evidenziare una maggiore differenziazione di comportamento e reazione tra questi due quadri sintomatologici. Sappiamo ad esempio che, in genere, i pazienti con una personalità ossessiva tendono a mostrare un bisogno costante di controllo interpersonale, con conseguenti manifestazioni di rabbia (occasionali ma esagerate) che si manifestano sia in ambiente familiare sia in ambiente lavorativo, soprattutto quando percepiscono che le cose non vengono fatte secondo il loro principio di perfezione. Inoltre, è interessante notare come da un lato mostrano una tendenza ad essere eccessivamente esigenti e punitivi nei confronti di un subordinato e dall’altro, presentano invece una predisposizione a sottomettersi facilmente all’autorità. Sono spinti da una forte motivazione intrinseca, una sorta di automatismo, una doverizzazione (“Faccio così perché è giusto che sia così, questo è il modo giusto di farlo”), che non permette loro di riconoscere che in realtà sono persone dotate di desideri, intenzioni e scopi e che potrebbero lasciarsi guidare da questi senza per forza doversi sottomettere al proprio giudizio.
Al contrario, le persone che presentano un disturbo ossessivo-compulsivo sembrano essere governate dallo scopo di volere essere accettati, degni e non colpevoli, e soprattutto non criticati in modo sprezzante. Ad esempio, nei soggetti con il timore delle contaminazioni, lo scopo ultimo non è tanto quello di prevenire ed evitare il contagio in sé, quanto piuttosto quello di eludere il rischio di essere responsabili della contaminazione propria ed eventualmente di altri, di poter quindi recare loro un danno, al fine di non poter essere considerati moralmente responsabili o omissivi; a queste preoccupazioni segue una seconda valutazione critica di sé, della sintomatologia, dei rituali, dei costi, assieme al timore di poter essere fonte di disgusto e disprezzo e giudizio negativo da parte degli altri. I pazienti DOC si caratterizzano, quindi, per un timore di giudizio negativo e in particolare circa la possibilità che le persone possano provare verso di loro disgusto e disprezzo compromettendone l’immagine e l’integrità morale.

Dall’analisi di questi due quadri comportamentali risulterebbero chiari ed evidenti i punti di divergenza e convergenza dei due disturbi. In entrambi i casi sembrerebbe molto probabile che, in questo periodo di crisi, le due tipologie di pazienti mostrino vissuti depressivi e paranoici e un incremento di ansia rispetto al tema della responsabilità e delle regole. Plausibilmente, troveremo in entrambi un totale rispetto delle regole della pandemia, anche se esse sono sostenute da scopi diversi: da una parte i pazienti con DOC mostrano una costante paura del contagio e fanno di tutto affinché questo non avvenga per non sentirsi moralmente responsabili di essere eventuali vettori del virus, aumentando così probabilmente le loro compulsioni e le loro restrizioni, dall’altra i pazienti che mostrano una personalità ossessiva sono, invece, di per sé ligi alle regole a causa dei sentimenti di giustezza che governano la loro vita, pronti a conformarsi quando gli altri non lo sono e dunque pertanto potrebbero arrabbiarsi se queste non vengono rispettate, data anche la loro tendenza a sottoporsi facilmente alle regole dell’autorità. A causa quindi delle restrizioni, quest’ultimi potrebbero inoltre provare rabbia ed essere polemici e scombussolati dal fatto che i programmi siano saltati o da ridefinire. Potrebbero sperimentare preoccupazione rispetto al futuro, ai danni economici e sono pronti a rinnovare la loro parsimonia e la loro testardaggine a livello interpersonale.

Per approfondimenti

Brooks, Sam & Webster, Rebecca & Smith, Louise & Woodland, Lisa & Wessely, Simon & Greenberg, Neil & Rubin, G.. (2020). The Psychological Impact of Quarantine and How to Reduce It: Rapid Review of the Evidence. SSRN Electronic Journal. 395. 10.2139/ssrn.3532534.

Li, S., Wang, y., Xue, J., Zhao, N., & Zhu, T. (2020). The impact of Covid-19 epidemic Declaration on Psychological consequences: a study on active Weibo users. International Journal of Environmental Research and Public Health, 17(6), 2032.

Mancini, F. (2016). La mente ossessiva. Raffaello Cortina Editore. Milano

"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali

di Giuseppe Romano e Andrea Gragnani

La scelta degli elementi endogeni o esogeni sui quali poniamo la nostra attenzione è guidata costantemente dalla rappresentazione (set attenzionale) di ciò che è rilevante per gli scopi attivi in un determinato momento. Tuttavia, l’attenzione può essere distolta da un obiettivo in presenza di uno stimolo con caratteristiche che lo rendono saliente (si pensi, ad esempio, allo squillo improvviso del cellulare mentre stiamo guardando un film). Ciò avviene ancora più facilmente per gli stimoli che suscitano reazioni emotive, poiché tendono a catturare l’attenzione in modo rapido e quindi a ricevere un’elaborazione preferenziale in virtù della loro importanza per il benessere dell’individuo.

A livello cerebrale, queste modulazioni attenzionali sono mediate in particolare dall’amigdala, che potenzia l’elaborazione degli stimoli a contenuto emozionale fin dagli stadi percettivi. Pertanto, quando vi sono stimoli distraenti che hanno significato emozionale, mantenere l’attenzione focalizzata su un compito è particolarmente difficile e impegnativo, in quanto implica “ignorare” un segnale che per sua natura è fatto per non essere ignorato! Leggi tutto “"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali”

"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali

di Giuseppe Romano e Andrea Gragnani

La scelta degli elementi endogeni o esogeni sui quali poniamo la nostra attenzione è guidata costantemente dalla rappresentazione (set attenzionale) di ciò che è rilevante per gli scopi attivi in un determinato momento. Tuttavia, l’attenzione può essere distolta da un obiettivo in presenza di uno stimolo con caratteristiche che lo rendono saliente (si pensi, ad esempio, allo squillo improvviso del cellulare mentre stiamo guardando un film). Ciò avviene ancora più facilmente per gli stimoli che suscitano reazioni emotive, poiché tendono a catturare l’attenzione in modo rapido e quindi a ricevere un’elaborazione preferenziale in virtù della loro importanza per il benessere dell’individuo.

A livello cerebrale, queste modulazioni attenzionali sono mediate in particolare dall’amigdala, che potenzia l’elaborazione degli stimoli a contenuto emozionale fin dagli stadi percettivi. Pertanto, quando vi sono stimoli distraenti che hanno significato emozionale, mantenere l’attenzione focalizzata su un compito è particolarmente difficile e impegnativo, in quanto implica “ignorare” un segnale che per sua natura è fatto per non essere ignorato! Leggi tutto “"Ignorare" un’emozione: attenzione selettiva in presenza di distrattori emozionali”

Faccia, facciata e Facebook

di Katia Tenore

Dinamica dell’apparenza e dell’aggressività sui social network

La faccia, così come definita dal celebre sociologo Goffman, rappresenta l’immagine di sé delineata in termini di attributi sociali approvati. Durante le interazioni sociali, ogni attore presenta e rivendica una immagine di sé, una linea di condotta. Quando la faccia di un attore sociale è messa in discussione, si avviano “giochi di faccia”, che rappresentano gli sforzi verbali e non verbali che le persone mettono in atto in caso di conflitto e sfida.
Minacce al mantenimento di una “buona faccia”, come critiche e insulti, sfidano il valore relazionale del singolo e il suo desiderio di essere approvato: in caso di offesa, le persone si rivalgono, possono divenire aggressive e agire una ritorsione per ripristinare la propria “faccia”, danneggiando quella dell’offensore.
Uno studio di una giornalista americana ha dimostrato come l’esperienza e il riconoscimento cosciente di un dolore sociale sia la molla che spinge verso la rappresaglia, che è tesa a ristabilire il proprio onore sociale, sia quando la minaccia è rappresentata dalla critica sia dall’esclusione sociale.
Questa dinamica è osservabile anche nelle interazioni sociali che avvengono nei contesti dei social network. Il bisogno di regolamentare le difficili modalità comunicative ha prodotto il neologismo “netiquette”, il galateo di comportamento in rete. Leggi tutto “Faccia, facciata e Facebook”