Self criticism in psicoterapia

di Andrea Paulis

Le tecniche per promuovere lo sviluppo di un dialogo interno sano e per ridurre l’impatto dell’autocritica

Ogni essere umano può fare esperienza di un “dialogo interno” dalle connotazioni più o meno critiche, in cui riflette sul sé e sulla propria condizione. Tuttavia, in alcuni individui questo può polarizzarsi, prendendo una forma così ostile da provocare e mantenere intensi sentimenti di indegnità.

Secondo lo psichiatra Sidney Blatt, questo processo, che in letteratura prende il nome di “self criticism” (o “self blame”), può variare per livello di gravità e si manifesta attraverso un’autocritica caratterizzata da forte preoccupazione per la propria realizzazione, sentimenti di fallimento, colpa, inferiorità e vergogna.

Lo psicologo clinico Paul Gilbert suggerisce l’esistenza di due diverse forme di autocritica denominate “sé odiato” (hated-self) e “sé inadeguato” (inadequate-self). La prima forma, il sé odiato, sarebbe un tipo di dialogo interno focalizzato sull’odio di sé, sull’aggressività autodiretta e sul desiderio di eliminare degli aspetti indesiderati del sé. La seconda forma, il sé inadeguato, sarebbe indirizzato a sottolineare ed enfatizzare le proprie inadeguatezze, mantenendo una funzione auto-correttiva anziché auto-persecutoria.

Nonostante la differenziazione, entrambe queste tipologie di dialogo risultano correlate a una bassa autostima, una ridotta soddisfazione per la propria vita e rappresentano un fattore discriminante tra popolazione clinica e non clinica. Infatti, la presenza di self criticism all’interno del quadro clinico si associa a comportamenti autolesionistici, suicidi, disturbi depressivi, ansia sociale, disturbi alimentari, disturbo borderline di personalità, deliri persecutori e disturbo post-traumatico da stress. La letteratura in merito indica che, a prescindere dalla diagnosi, gli individui con livelli più elevati di autocritica tendono ad avere peggiori outcome psicoterapeutici e che, quando l’autocritica viene ridotta con successo durante la terapia, migliorano gli esiti. La moltitudine di ricerche sottolinea la natura transdiagnostica e la rilevanza clinica del self criticism nel mantenimento del disagio psicologico.

Evidenze come queste stimolano il dibattito clinico e pongono l’accento sul considerare il self blame, quando e se presente, come un obiettivo particolarmente rilevante per la cura delle difficoltà psicologiche.

Ma come è possibile promuovere lo sviluppo di un dialogo interno più sano e ridurre l’impatto dell’autocritica?

Una delle tecniche spesso utilizzate a tale scopo è il Chairwork, intervento ideato originariamente dallo psichiatra Jacob Moreno nel 1948 e successivamente assorbito da diversi approcci psicoterapeutici come quelli di matrice cognitivo comportamentale.

Il Chairwork, a prescindere dal tipo di psicoterapia che ne prevede l’uso, si basa su tre principi generali:

    • molteplicità: il sé è sfaccettato e le “parti del sé” rilevanti possono essere differenziate attraverso il posizionamento in sedie separate;
    • personificazione: le parti del sé possono essere interpretate dall’individuo in modo da facilitare lo scambio di informazioni;
    • dialogo: le parti del sé sono incoraggiate a parlare tra loro, con il paziente o con il terapeuta al fine di alleviare il disagio.

Molte forme di terapia cognitivo comportamentale che incorporano questa pratica si sono dimostrate clinicamente efficaci e i pochi studi che hanno testato direttamente la tecnica sembrano confermarne l’utilità.

Un dato interessante riguarda l’indagine condotta da Matthew Pugh e colleghi, su 102 terapeuti cognitivo comportamentali per indagare l’uso e la propensione al lavoro con le sedie: la maggioranza degli intervistati percepiva l’intervento come clinicamente efficace e coerente con il modello cognitivo comportamentale, tuttavia, solo il 35% dei professionisti era adeguatamente formato all’uso della tecnica. I feedback rilevati hanno identificato l’ansia del terapeuta e l’accesso limitato alla formazione come preponderanti fattori inibitori per l’uso della tecnica.

In conclusione, oltre a rendersi necessarie ulteriori ricerche relative al Chairwork, i dati suggeriscono che una formazione specifica su questo tipo di intervento, e in generale sul trattamento dei fattori  di mantenimento transdiagnostici, potrebbe migliorare gli outcome terapeutici.

Per approfondimenti

    • Wakelin, K. E., Perman, G., & Simonds, L. M. (2022). Effectiveness of self‐compassion‐related interventions for reducing self‐criticism: A systematic review and meta‐analysis. Clinical Psychology & Psychotherapy, 29(1), 1-25.
    • Pugh, M. (2018). Cognitive behavioural chairwork. International Journal of Cognitive Therapy, 11(1), 100-116.
    • Biermann, M., Bohus, M., Gilbert, P., Vonderlin, R., Cornelisse, S., Osen, B., Graser, J., Brüne, M., Ebert, A., Kleindienst, N., & Lyssenko, L. (2020). Psychometric properties of the German version of the Forms of Self-Criticizing/Attacking and Self-Reassuring Scale (FSCRS). Psycho- logical Assessment, 33(1), 97–110. https://doi.org/10.1037/ pas0000956
    • Pugh, M., Bell, T., Waller, G., & Petrova, E. (2021). Attitudes and applications of chairwork amongst CBT therapists: a preliminary survey. The Cognitive Behaviour Therapist, 14.

Foto di Tima Miroshnichenko:
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