Il trauma infantile

di Mauro Giacomantonio

Report del Simposio sul Trauma Infantile

Lo scorso 17 gennaio 2020 si è tenuto presso il Teatro Italia a Roma un simposio in memoria di Gianni Liotti, dedicato al tema del trauma infantile. La scelta dell’argomento è legata agli importanti contributi che il lavoro di Liotti ha dato alla comprensione e al trattamento del trauma. L’iniziativa ha visto la partecipazione di circa 500 persone tra studenti e professionisti nel campo della psicoterapia, della medicina e della formazione.

Ha aperto i lavori Francesco Mancini introducendo i quattro interventi dei relatori che vantano tutti una lunga esperienza di lavoro sul trauma, sia dal punto di vista clinico sia della ricerca.

La prima a intervenire è stata Maria Grazia Foschino Barbaro che ha trattato in modo approfondito gli aspetti interpersonali legati al trauma infantile. Anche attraverso la presentazione di alcuni casi clinici estremamente interessanti, la relatrice ha illustrato il ruolo centrale della relazione con il caregiver che, in determinati casi, può costituire una vera a propria fonte di trauma relazionale che può tradursi, tra le altre cose, in un attaccamento disorganizzato e quindi in una persistente vulnerabilità psicologica. 

Il secondo intervento è stato quello di Antonio Lasalvia che, in una prospettiva epidemiologica, ha trattato l’associazione tra trauma infantile e psicosi. Il relatore ha mostrato come la letteratura suggerisca chiaramente che esiste una relazione tra trauma e sviluppo di psicosi. Come nel caso della relazione tra fumo e cancro al polmone, la probabiltà di sviluppare psicosi cresce notevolmente con il crescere del numero di traumi significativi a cui la persona viene esposta nella sua vita. Infine Lasalvia ha illustrato interessanti modelli particolarmente recenti che sostengono un ruolo causale del trauma nella generazione delle psicosi. Il trauma non sarebbe quindi un mero evento stressante che agirebbe da slatentizzatore di una predisposizione genetica, ma un vero e proprio determinante del disturbo. 

Maurizio Brasini è stato il terzo relatore a prendere la parola e ha discusso il nesso tra trauma, attaccamento e ordine naturale delle cose. Dopo aver offerto interessanti spunti critici relativi al modo in cui il trauma è stato concettualizzato negli ultimi 150 anni, Brasini ha proposto una interessante e innovativa ipotesi che vede il trauma come una violazione delle aspettative che l’individuo ha nei confronti di cosa è giusto che accada (o non accada). In altre parole il trauma invalida l’ordine naturale delle cose della persona che lo subisce. Il pubblico ha assistito a una presentazione che, oltre ad essere densa di contenuti e innovativa, è stata particolarmente avvincente anche grazie ai tanti riferimenti al cinema e alla natura.

Infine Furio Lambruschi ha concluso i lavori con una relazione che ha offerto interessanti spunti relativi alle criticità che si possono incontrare nel setting terapeutico quando si ha a che fare con il trauma infantile. Lambruschi inoltre ha enfatizzato particolarmente il ruolo del contesto relazionale (ma non solo) che precede, accompagna e segue il trauma sottolineando come questo sia determinante nel cambiare l’esito in termini psicologici dell’evento avverso. 

Il simposio nel suo complesso è stato particolarmente stimolante sia per chi da anni si occupa di trauma, attaccamento e dei temi cari a Gianni Liotti, sia per chi sta iniziando a muovere oggi i primi passi in questi argomenti  particolarmente rilevanti nel trattamento della psicopatologia. Alcune riflessioni condivise col pubblico hanno anche sottolineato come lo studio e la conoscenza del trauma infantile sarebbe fondamentale, in termini di salute pubblica, anche per altre figure sanitarie, come ad esempio i medici di base. 

Disturbo della Condotta: come intervenire

a cura di Lavinia Lombardi e Rosaria Monfregola

Il 14 settembre 2019 a Roma, presso la sede APC/SPC, si è tenuto il Workshop “Clinica dei Disturbi della Condotta: dalla psicopatologia all’intervento” durante il quale il Prof. Mark Dadds (Università di Sydney), ha presentato il suo programma di intervento sul trattamento dei Disturbi del comportamento Dirompente che viene da anni applicato presso la Child Behaviour Research Clinic di Sydney di cui è direttore.

Questi disturbi hanno un impatto importante sulla vita quotidiana di bambini e adolescenti che ne soffrono e sulle loro famiglie, portando spesso ad una riduzione della qualità della vita e creando un terreno fertile per lo sviluppo di una Personalità Antisociale o di Abuso di Sostanze. I genitori, fin dai primissimi anni di vita del bambino, si trovano spesso ad utilizzare modalità coercitive che non solo non producono modifiche dei comportamenti scorretti e non contribuiscono alla produzione di comportamenti prosociali del bambino, ma riducono notevolmente le emozioni positive e la percezione di autoefficacia di un parenting costruttivo.

“Integraded parent training” è un programma evidence-based, diviso in 10 sessioni, applicato ai genitori di bambini e ragazzi dai 2 ai 16 anni; i risultati di ricerca mostrano elevata efficacia soprattutto nella fascia d’età che va dai 2 agli 8 anni ed una minore efficacia per la fascia d’età di 13-14 anni. Questo programma elaborato per il trattamento dei Disturbi del comportamento Dirompente si adatta molto bene anche a bambini e ragazzi con ADHD e Disturbi dello spettro Autistico.

Durante questa ricca giornata formativa il Prof. Dadds ha iniziato condividendo i 4 fondamenti teorici alla base del modello per trattare le famiglie, che sono:

  • la Learning Theory (Thorndike 1874 – 1949): si parte dalla teoria comportamentale per porre l’attenzione sulle risposte genitoriali che vengono utilizzate come rinforzo (positivo e negativo) e punizione (positiva o negativa). Nei circoli viziosi familiari che si creano l’intervento sostanziale è volto all’equilibrio dell’attenzione: se nella fase precedente al trattamento i genitori hanno la tendenza ad ignorare i comportamenti positivi e a punire i comportamenti negativi del bambino, nella fase post trattamento essi riescono ad agire con calma di fronte ai comportamenti indesiderati e a prestare attenzione ai comportamenti positivi, rinforzandoli. Tale addestramento non ha effetti se i caregiver non mostrano un comportamento ricco di attaccamento.
  • la Teoria dell’Attaccamento (Bowlby 1989), secondo punto cardine della base teorica del programma è una teoria indispensabile per comprendere in che modo il genitore può utilizzare le giuste ricompense per incrementare la qualità della relazione tra bambino e caregiver. Nell’attaccamento sicuro le figure di riferimento inviano segnali che inducono il bambino a sentirsi sicuro nell’esplorazione, amabile e che abbia fiducia nelle proprie capacità. Si è posta l’attenzione sui comportamenti fondamentali dell’attaccamento in una relazione d’attaccamento sicuro (lo sguardo spesso accompagnato da espressioni di sorpresa, il contatto fisico, la melodia della voce, l’imitazione) che consentono al bambino e al caregiver di ricercarsi reciprocamente. In un contesto caratterizzato da interazioni coercitive, i comportamenti di attaccamento non vengono messi in atto o vengono elicitati durante il time out, rinforzando involontariamente comportamenti negativi. Larga parte delle prime sessioni di intervento sono volte a modificare tale trend, ma tale attenzione differenziale avrà effetti duraturi solo se si lavora sulle attribuzioni causali.
  • la Teoria delle Attribuzioni Causali (Heider 1958) è terzo caposaldo del programma di parent training. Lavorare sulle attribuzioni causali dei genitori di bambini con Disturbi del Comportamento Dirompente è indispensabile per un reale cambiamento della qualità dell’interazione familiare. È importante sapere quali caratteristiche globali, stabili e interne osservano e rimandano ai propri figli e che contribuiscono a mantenere il problema.
  • L’analisi del sistema familiare (Minuchin 1974) per la comprensione delle dinamiche che alimentano e intrappolano nello stile coercitivo. Il programma punta sul ripristino di un sistema familiare in cui esiste un team genitoriale che interviene direttamente e in forma congiunta sui bambini e interagisce in seconda battuta con un contesto familiare più ampio. Affinché ci sia efficacia di cambiamento e si possa ridurre il dropout è fondamentale lavorare in team con la coppia genitoriale.

Una parte del Workshop è stata dedicata alla modalità di ingaggio della coppia genitoriale, poiché anche se il modello è uno tra i più efficaci, qualora la famiglia non riuscisse ad essere ingaggiata, esso non produrrebbe risultati. Infatti i tassi di dropout più alti sono legati a tassi più bassi di ingaggio della coppia come team. Quanto più la coppia è in grado di esporsi rispetto le dinamiche relazionali, la conflittualità e le attribuzioni sul proprio bambino tanto più si riduce la probabilità di dropout. Il prerequisito per un intervento di parent training di successo è il lavoro in team che necessita di energia, di conoscenza del bambino da parte dei genitori, conoscenza del modello da parte del terapeuta; in sostanza il terapeuta usa la scienza ad uso e consumo dei genitori.

Il prof. Dadds si è successivamente concentrato sulle sessioni 3 e 4 del programma, cioè sul come si insegna ai genitori a lavorare con i propri figli. Da qui la necessità di rinforzare il genitore fissando gli obiettivi dell’intervento, spiegando, facendo da modello e provando con lui le tecniche proposte. Tra le strategie fornite per il cambiamento vi è in primis l’osservazione dei comportamenti positivi ed in seguito l’intervento sui comportamenti problema.

Tramite role playing, visione di video, esemplificazioni cliniche ed indicazioni terapeutiche concrete, in un clima formativo accogliente ed interattivo, il prof. Dadds, ci ha lasciato spunti di riflessione e strumenti operativi per lavorare con i genitori di bambini con disturbo da comportamento dirompente; insomma è stato per noi terapeuti un ottimo modello da provare ad implementare!

Riferimenti bibliografici:

Bowlby, J. (1989). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Raffaello
Cortina Editore, Milano.

Dadds M., Hawes D. (2006). “Integrated Family Intervention for Child Conduct Problems: a behaviour-attachment-systems intervention for parents”. Australian Academic Press.

Dadds, C Thai, A Mendoza Diaz (2019). “Therapist-assisted online treatment for child conduct problems in rural and urban families: Two randomized controlled trials”.– Journal of consulting, 2019 – psycnet.apa.org.

Gates, A. I. (1949). “Edward L. Thorndike: 1874-1949”. Psychological Review, 56(5), 241-243

Heider F., (1958) “The Psychology of Interpersonal Relations”. Wiley, New York.

Minuchin S. (1977), “Famiglie e terapia della famiglia”, Roma, Astrolabio Ubaldini Editore, 1977, Passim.

 

4 motivi per partecipare a un congresso

di Silvia Cerolini

Un’esperienza diretta del 9° Congresso mondiale di Terapia Cognitivo Comportamentale di Berlino.

Dal 17 al 20 luglio 2019 si è svolto il “9th Congress of Behavioural and Cognitive Therapies” (WCBCT, 2019) al City Cube di Berlino, evento a cadenza triennale che ha visto le sue precedenti edizioni in luoghi come Vancouver, Boston, Lima, Melbourne, etc. e di cui la prossima edizione è prevista per il 2022 in Sud Corea. Eventi come questo suscitano l’attenzione e l’interesse di molti professionisti. Ecco riassunti 4 buoni motivi per cui partecipare ad un evento internazionale di questo calibro, specialmente per i giovani professionisti.

  • Ampliare le proprie conoscenze e affinare le proprie abilità e/o competenze:

Andare ad un congresso significa stimolare la mente con nuove idee, proposte, scoperte
e arricchire e integrare le nostre conoscenze e competenze con tantissime nuove informazioni. Nel caso del WCBCT 2019 le decine e decine di simposi, talks, open papers, skill classes, workshops e poster sessions proposte non hanno potuto far altro che stimolare l’attenzione e la curiosità professionale dei partecipanti. Diversi sono stati gli argomenti e i topic proposti durante queste attività: dai risultati di ricerca di psicopatologia sperimentale a quelli sul trattamento evidence-based di molteplici disturbi psicopatologici, dalla proposta di nuovi modelli teorici a quella di integrazione e riscoperta di svariate tecniche terapeutiche e di assessment. Questa cornice veniva completata dai talk di diversi “big” delle terapie CBT, i quali raccontavano il lavoro di anni dedicati alla ricerca, alla pratica clinica e alla disseminazione di esse all’interno delle nostre società, culture e menti, spesso suscitando negli ascoltatori stima e commozione.

  • Creare un network con i colleghi:

Un secondo buon motivo per partecipare ad un evento internazionale può essere quello di conoscere nuovi professionisti e creare potenziali relazioni professionali (e perché no?! magari anche personali). Da esse potrebbero derivare interessanti collaborazioni future che, certamente, l’ adesione a questo tipo di eventi aiuta a mantenere attive e produttive. Il WCBCT 2019 è stato un crocevia di relazioni su scala globale: più di 4000 delegati da 85 diversi Paesi (tra cui Cina, Giappone, Brasile, India, Usa, Uk, Italia, Germania, Australia, Marocco etc.).

  • Condividere i frutti del proprio lavoro:

un terzo valido motivo è sicuramente quello di disseminare e condividere con il resto della comunità scientifica i risultati delle vostre ricerche, dei vostri studi e delle vostre attività. I congressi sono fatti non solo per partecipare più o meno passivamente, ma anche per mettersi in gioco e alla prova, presentando i risultati del proprio lavoro, costato spesso, un grosso impegno e tanta fatica. Lo si può fare in tanti modi, e di certo, un’altissima percentuale dei partecipanti del WCBCT 2019 lo ha fatto presentando poster, simposi e talk. Inoltre, molto spesso (a seconda della rilevanza che il congresso ha, tali presentazioni vengono poi pubblicate su inserti speciali di riviste o sui libri degli abstracts o dei proceedings del congresso stesso, come nel caso del Congresso di Berlino.

  • Arricchire la propria esperienza professionale e personale:

Un’ultima valida ragione è sicuramente quella di considerare l’esperienza come una possibilità per arricchire e perfezionare il proprio curriculum e la propria esperienza professionale e personale.
Partecipare ad un congresso in lingua inglese, presentare i contenuti del proprio lavoro, avere la possibilità pubblicare il lavoro svolto o quella di creare un network internazionale, sono fattori che contribuiscono al potenziamento o all’avanzamento della propria carriera, e soprattutto del Cv personale. Inoltre avere l’opportunità di stare qualche giorno in una città straniera, visitarla nei momenti liberi, confrontarsi con un’altra cultura e assaporare i gusti e le tradizioni locali, sono degli stimoli per arricchire la propria esperienza personale ed un ottimo modo per conciliare lavoro e divertimento.

 

Sotto il cielo di Berlino… niente di nuovo

di Barbara Basile

Report sul IX Congresso mondiale di Terapia Cognitivo-comportamentale (World Congress of Behavioural & Cognitive Therapies, WCCBT) svoltosi presso il City Cube Berlin tra il 17 e il 19 luglio. Più di 4000 partecipanti si sono distribuiti tra gli oltre 150 simposi, i 30 workshop tematici e altrettante skill class, circondati da 300 poster.

Oltre ai grandi classici sulla TCC applicata ai disturbi d’ansia e dell’umore, sono stati presentati lavori sulle tecniche di immaginazione, sulla terapia via internet, sugli approcci trans-diagnostici e sul ruolo della Self-Practice e Self-Reflection nella buona pratica del clinico.

L’innovatività dei lavori presentati e la loro qualità scientifica non è stata sempre all’altezza delle aspettative, mentre le classi di lavoro clinico e di apprendimento, per quanto spesso inaccessibili a causa del sovraffollamento, sono state decisamente più apprezzabili.

Alcuni degli interventi più stimolanti hanno visto coinvolti Michelle Craske, Kelly Bemis Vitousek e una serie di ricerche in cui è stato studiato l’effetto delle tecniche di immaginazione nella riduzione delle credenze patogene in alcuni disturbi (i.e., DCA, Ansia sociale e Autismo) e della sintomatologia di altri (i.e, DOC, depressione).

Basandosi sulla prospettiva trans-diagnostica dei Disturbi dei Comportamenti Alimentari (DCA) di Fairburn, la Vitousek (Università delle Hawaii, USA) ha proposto una perspicace analogia tra il funzionamento della mente anoressica e quella di uno scalatore o di un atleta che pratica sport estremi, sottolineando la loro sovrapposizione rispetto all’emozione di orgoglio derivata dal raggiungimento di obiettivi impossibili, come il controllo sul cibo e sul corpo (per l’anoressica) e il guadagno di una cima elevata (per lo scalatore). La nota clinica ha evidenziato il ruolo delle credenze positive legate al riuscire a perseguire un obiettivo così stoico, quali il perdere peso da un lato e il raggiungimento di una vetta, dall’altro, nel mantenere il disturbo. Inoltre, in entrambi i casi lo scopo viene perseguito nonostante i costi elevati in termini di salute fisica e il frequente rischio di morte. L’anoressica e lo sportivo estremo inoltre tendono entrambi a sovra-investire sullo scopo che diventa centrale e totalizzante nella loro vita e che, se abbandonato o allentato, evoca il terrore profondo di scivolare nell’eccesso opposto (“se lascio andare il controllo sul cibo e sul corpo, sarà terribile perchè più difficile e doloroso da ristabilire”). In termini terapeutici la Vitousek sottolinea l’appropriatezza delle tecniche di esposizione (al cibo, al peso e all’immagine corporea) con particolare attenzione alla sospensione dei comportamenti di sicurezza e protezione, esattamente come è consuetudine fare nelle esposizioni nei casi di disturbi d’ansia e ossessivo-compulsivo.

Infine, nel suo magistrale intervento, Michelle Craske dell’Università della California (USA ) ha spiegato come i dati provenienti dagli studi di neuroscienze possano favorire una maggiore efficacia della psicoterapia, se adeguatamente interpretati. La professoressa ha spiegato, ad esempio, come l’utilizzo di farmaci in grado di interferire con la funzionalità dell’ippocampo (per esempio, la scopolamina) possano aumentare l’esito di interventi basati sull’esposizione, poiché interferiscono con il cosiddetto “context renewal of fear” (la riattivazione della paura nel contesto). Al contrario, il potenziamento della funzionalità dell’ippocampo (tramite somministrazione di glucosio) potrebbe essere utilizzato subito dopo un evento traumatico poiché impedisce la generalizzazione della paura ad altre situazioni.

Le key lectures più affollate, soprattutto dalle nuove leve, hanno visto implicati eminenti clinici come Steve Hayes (fondatore dell’ACT), Arnoud Arntz (autorevole rappresentante europeo della Schema Therapy), Paul Gilbert (ideatore della Compassion Focused Therapy), e, trai i big della TCC, David Clark, Richard Bentall, Paul Salkovskis, Judith Beck e Christine Padesky. Un convegno con grandi numeri e molti volti famosi, i cui contenuti e la cui organizzazione però non sono sempre stati innovativi e appaganti come sperato!

L’origine del narcisismo

di Paola Manno, Annalisa L’Abbate, Melania Catania e Silvia Zappatore

Il 21 Giugno 2019, presso l’Hotel Tiziano, si è svolto il convegno “L’origine del Narcisismo”. Sono intervenuti il Dr. Pietro Muratori (IRCCS Fondazione Stella Maris , Pisa), il Prof. Sanders Thomaes (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Utrecht) ed il Dr. Carlo Buonanno (didatta e membro Equipe Età Evolutiva APC/SPC).

Il Dr. Pietro Muratori, ha introdotto il tema del narcisismo in età evolutiva presentando la Child Narcisism Scale (CNS), uno strumento self-report unidimensionale di rapida somministrazione (10 item) dotato di una buona coerenza interna.

Il Prof. Sanders Thomaes, ha illustrato le caratteristiche del narcisismo in età evolutiva: un’immagine grandiosa di sé che cerca conferme nella relazione e ricerca la validazione esterna. Parte del primo intervento è stata dedicata alla presentazione di studi che mettono in relazione tratti narcisistici, autostima e aggressività; su come differenti stili di parenting possono contribuire allo sviluppo di tratti narcisistici. Sono stati presentati i risultati di alcune ricerche che hanno indagato la relazione tra tratti narcisistici e bullismo e tra tratti narcisistici e disturbi alimentari.

Il Dr. Carlo Buonanno ha introdotto un riflessione volta a comprendere in che modo i dati di ricerca presentati siano applicabili e contestualizzabili all’ambito clinico.

Il Prof. Thomaes, ha poi focalizzato il secondo intervento sul costrutto di autostima in età evolutiva e il Better Than Average Effect (BTAE), ovvero la tendenza dei bambini a sovrastimare le proprie abilità associata ad una definizione di sé più benevola in relazione ad un obiettivo da raggiungere. Tale tendenza, sembra avere un valore adattivo: agevolare l’esplorazione dell’ambiente e l’apprendimento consentendo di perseverare nell’attività.

Nei giorni 21, 22 e 23 Giugno ha poi avuto luogo, presso la sede APC di Lecce, il corso di formazione “Il Coping Power Program: un protocollo di intervento sui disturbi da comportamento dirompente”, condotto dal Dr. Pietro Muratori e dal Dr. Carlo Buonanno e promosso dall’ equipe per l’età evolutiva della scuola APC/SPC di Roma.

Il Coping Power Program (CPP) è un programma applicabile in contesti clinici e di prevenzione, sviluppato per la gestione della rabbia e il controllo dell’aggressività nei bambini dai 7 ai 14 anni. E’ un protocollo cognitivo-comportamentale evidence based che prevede una componente dedicata ai bambini, illustrata dal Dr. Muratori ed una rivolta ai genitori, presentata dal Dr. Buonanno, da svolgersi in setting di gruppo paralleli.

Il corso, che ha incontrato grande interesse da parte dei numerosi partecipanti, ha fornito utili strumenti per il trattamento dei disturbi da comportamento dirompente.

Il modulo CPP per i bambini è strutturato in 34 sessioni di gruppo che si prefiggono di potenziare l’abilità di intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine; l’organizzazione e le abilità di studio; il riconoscimento e la modulazione della rabbia; il perspective taking; il problem-solving in situazioni conflittuali; l’abilità a resistere alle pressioni dei pari e le abilità sociali e l’ingresso in gruppi sociali positivi

Il modulo per i genitori mira a sviluppare e potenziare fondamentali funzioni parentali tra cui la capacità di stabilire regole chiare, di gratificare il bambino e fornirgli attenzione positiva, di promuovere e organizzare le sue abilità scolastiche, di migliorare la comunicazione in famiglia ed il problem solving nei momenti di conflitto, nonché di gestire lo stress genitoriale.

È stato appreso come, per il raggiungimento di questi obiettivi sia fondamentale l’organizzazione coerente e consapevole del setting di gruppo, che rappresenta la situazione ideale per l’apprendimento e la sperimentazione di abilità sociali e relazionali in un ambiente supportivo e non giudicante, sia per i bambini che per i loro genitori.

Clinica della Mente Ossessiva

di Valentina Silvestre e Cecilia Laglia

Secondo weekend del ciclo di workshop dedicato al disturbo ossessivo compulsivo

Nel secondo weekend del ciclo di workshop “Clinica della Mente Ossessiva”, tenutosi a fine marzo presso la sede della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Verona, Barbara Barcaccia, psicologa psicoterapeuta, ha introdotto e approfondito gli interventi di terza ondata della psicoterapia cognitiva.
La prima giornata è stata incentrata sull’applicazione della Mindfulness nel trattamento del paziente ossessivo. Il primo protocollo basato sulla mindfulness fu il programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), riduzione dello stress basato sulla mindfulness, descritto dal suo autore Jon Kabat-Zinn e indicato per la gestione dello stress in persone con malattie organiche e/o con difficoltà di coping rispetto al dolore e alla disabilità. Negli anni si sono sviluppati numerosi protocolli basati sulla mindfulness per i disturbi clinici, Mindfulness-Based Interventions (MBI), che ricalcano la struttura dell’intervento MBSR ma che presentano delle specificità a seconda del disturbo target. L’applicazione della mindfulness al trattamento di disturbi psicologici implica il divenire consapevoli di ciò che sta accadendo dentro di noi e ri-direzionare l’attenzione per non essere travolti dalla prepotenza dei contenuti mentali. La mindfulness è l’opposto dell’agire con il «pilota automatico», meccanicamente e inconsapevolmente. Per molti pazienti con DOC questo rappresenta un’abilità rilevante: è proprio la reattività automatica a intrusioni, emozioni e sensazioni a determinare l’innesco di circoli viziosi auto-invalidanti. In un contesto di Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT), i pazienti accettano di esporsi grazie al precedente addestramento alla mindfulness, in cui la pratica rende l’esposizione meno traumatica.
Nella seconda e terza giornata è stata messa in evidenza l’importanza dell’applicazione dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo.
Il tema dell’accettazione ha le proprie radici nella tradizione filosofica Occidentale che si è, poi, incontrata con quella Orientale e con i più recenti sviluppi degli interventi clinici basati su accettazione e mindfulness. L’ACT sottolinea l’importanza di due aspetti centrali: l’accettazione di ciò che non si può evitare e l’impegno a camminare in direzione dei propri desideri e valori. L’obiettivo dell’ACT non è quello di cambiare i contenuti dei pensieri disfunzionali ma il modo di rapportarsi ad essi, imparando a riconoscerli come prodotti della nostra mente. Nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) lo scopo è quello di aiutare il paziente ad accettare l’esperienza di colpa e confrontarlo con la possibilità di smettere di prevenire il rischio di essere moralmente imperfetto. Nel favorire l’accettazione della colpa, la rinuncia allo scopo di prevenire la colpa può implicare nel paziente con DOC una diminutio sul piano del valore morale: si ha una rinuncia senza diminutio quando il paziente valuta la possibilità di rinunciare a mettere in atto i tentativi di soluzione come qualcosa che può essere moralmente imperfetto ma compatibile con il mantenimento del proprio valore morale. L’identificazione dei propri valori personali è un passo fondamentale: rappresentano la bussola che indica la direzione, la direzione di vita prescelta. Sono il motore del cambiamento in terapia, ciò che consentirà al paziente di affrontare la sofferenza per poter vivere una vita degna di essere vissuta. Le giornate si sono strutturate in un’ottica esperienziale, per apprendere in prima persona le tecniche proposte. Come ha affermato Jon Kabat-Zinn: “L’insegnamento deve scaturire dalla pratica personale”.

Think bipolar

di Valentina Silvestre

I disturbi bipolari: dalla diagnosi al trattamento

Think bipolar” è l’espressione che ha accompagnato le giornate del corso “I disturbi bipolari: dalla diagnosi al trattamento” tenutosi a inizio marzo nella sede della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma. Un corretto processo di valutazione è il primo passo che un clinico deve compiere prima di intraprendere un trattamento. L’inquadramento diagnostico è un processo complesso: diversi disturbi possono presentare gli stessi sintomi. È proprio da qui che Marco Saettoni, psichiatra psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, ha introdotto il concetto di “fare una diagnosi corretta”. Partendo dalla fenomenologia clinica e dall’inquadramento nosografico dei disturbi bipolari, ha sottolineato l’importanza di un assessment trasversale della sintomatologia presente e di una valutazione longitudinale, che tenga conto della storia di vita del paziente. Frequente è stato il riferimento al neuropsichiatra tedesco Emil Kraepelin, che definisce la “psicosi maniaco-depressiva” caratterizzata da eccitamento e inibizione di tre dimensioni: umore, pensiero, energia.

Successivamente, lo psicologo psicoterapeuta Andrea Gragnani ha introdotto il modello cognitivo-comportamentale dei disturbi bipolari. La mente bipolare presenta una dicotomia del sé: nelle fasi espansive il sé è di tipo grandioso, capace, totipotente, forte, energico e invulnerabile; nelle fasi depressive è fallimentare, impotente, anergico, debole e vulnerabile. Il paziente bipolare è costantemente impegnato nel tentativo di evitare o prevenire lo scenario caratterizzato dalla percezione di sé impotente, senza energia, bisognoso e vulnerabile, attraverso il perseguimento dello scopo dell’autodeterminazione. Per far questo, il paziente mette in atto una strategia ipercompensatoria che possa favorire la costruzione di un sé capace, di valore, energico, autonomo e invulnerabile e ricco di potenzialità.

Nell’ultima parte della prima giornata, Lisa Lari, psicologa psicoterapeuta, ha descritto l’intervento con il paziente bipolare: lo scopo principale è il raggiungimento o il mantenimento dell’eutimia attraverso una serie di sotto-obiettivi. Il trattamento prevede una prima parte di psicoeducazione, allo scopo di favorire una maggiore consapevolezza del disturbo e del suo funzionamento. Le fasi successive sono: cambiamento e accettazione, attraverso una modificazione delle credenze; riduzione della dicotomia identitaria; regolazione delle emozioni; riduzione delle ricadute e delle vulnerabilità. L’intervento è di tipo modulare e non protocollato, caratterizzato dalla flessibilità sulle fasi del trattamento e su obiettivi e strumenti.

Ad aprire la giornata del sabato è stata la psicologa psicoterapeuta Stefania Iazzetta, che ha presentato l’esperienza di intervento di gruppo per pazienti bipolari svolta a Grosseto. Il modello di riferimento è quello degli psicologi Francesc Colom ed Eduard Vieta, con quattro sessioni aggiuntive.

Caratteristiche dell’intervento proposto sono: la psicoeducazione per i pazienti e per i familiari, in modo che possano avere un ruolo attivo nella gestione del disturbo, gli interventi di tipo comportamentale come, ad esempio, l’attivazione e l’inattivazione comportamentale, e gli interventi di tipo cognitivo. Nello specifico, è stato illustrato l’utilizzo della Life Chart (retrospective e prospective) non solo come ricostruzione dettagliata della storia del paziente e come monitoraggio dell’umore ma anche, secondo un’ottica cognitivista, come uno strumento di indagine dei contenuti cognitivi del paziente, al fine di far emergere rappresentazioni, credenze e scopi della persona e di evidenziare come questi stati mentali possano influenzare l’andamento del tono dell’umore.

La giornata si è conclusa con la descrizione dell’intervento sulla noia, quella condizione che determina sofferenza psicologica e pattern comportamentali disfunzionali e che, nei disturbi bipolari, può rappresentare un campanello d’allarme per nuove fasi di scompenso timico.

Il corso si è distinto per l’aspetto pratico: ampio spazio è stato dedicato alle esercitazioni e alla presentazione di casi clinici attraverso simulate che hanno coinvolto i partecipanti, che hanno potuto sperimentare le difficoltà di approccio e di gestione, soprattutto in relazione a specifiche fasi del disturbo, del paziente bipolare.

 

Clinica della mente ossessiva

di Valentina Silvestre e Cecilia Laglia

Primo weekend del ciclo di workshop dedicato al disturbo ossessivo compulsivo

A gennaio scorso si è svolto, presso la sede della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Verona, il primo weekend del ciclo di workshop “Clinica della Mente Ossessiva”.
La prima giornata è stata aperta dal neuropsichiatra infantile, psicoterapeuta cognitivista e direttore delle Scuole di Psicoterapia Cognitiva dell’Associazione di Psicologia Cognitiva APC Francesco Mancini, che ha evidenziato l’obiettivo del corso di creare una rete di psicoterapeuti che si occupino di disturbo ossessivo-compulsivo e condividano non solo una rappresentazione del funzionamento del paziente ossessivo ma anche le modalità di intervento. Mancini ha spiegato come rendere uniforme un intervento sia estremamente vantaggioso in termini di efficacia del trattamento: condividere un modello di riferimento e il razionale dell’intervento consente un confronto tra professionisti e una migliore comprensione e risoluzione soprattutto in caso di difficoltà, incongruenze o inefficienze.
Secondo il neuropsichiatra, l’approccio cognitivista ha dato un enorme contributo allo studio del disturbo ossessivo-compulsivo, tuttavia “è fondamentale non subordinare il disturbo alla tecnica”. Mancini ha infine delineato e schematizzato il modello di funzionamento e la formulazione di una concettualizzazione razionale del profilo interno del DOC.
Olga Ines Luppino, insieme con Katia Tenore, ha parlato dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta (E/RP), un intervento di efficacia empirica che prevede una prima fase di esposizione allo stimolo elicitante il timore ossessivo per un tempo maggiore a quello normalmente tollerato e la successiva rinuncia alla messa in atto di comportamenti di ricerca di sicurezza. L’E/RP è un intervento evidence based e richiede una preparazione del paziente: l’esposizione perdura fino alla scomparsa del disagio e può essere applicata solo in fase avanzata del percorso di trattamento. La giornata è stata caratterizzata da un’impostazione nettamente pratica: i partecipanti sono stati suddivisi in piccoli gruppi per consentire esercitazioni sulla formulazione del caso clinico, la ricostruzione dello schema del disturbo e l’esposizione graduata.
Nella seconda giornata, Stefania Fadda ha esposto e approfondito le varie tecniche di intervento che si possono utilizzare nella pratica clinica, per ridurre il senso di responsabilità e accettare il rischio del paziente con DOC. La fase di ristrutturazione cognitiva ha l’obiettivo di ridurre le assunzioni di minaccia di colpa o di contaminazione del paziente ossessivo. È stato dedicato ampio spazio alle esercitazioni in piccoli gruppi: il vantaggio è stato quello di toccare con mano le difficoltà che si possono incontrare nel lavoro con questa tipologia di pazienti.
A chiusura di questo primo weekend, Angelo Maria Saliani ha presentato l’intervento con i familiari, descrivendo i processi interpersonali che coinvolgono non solo le persone che vivono a stretto contatto con il paziente DOC ma anche gli interlocutori abituali. Le possibili reazioni alla sintomatologia ossessivo-compulsiva si inseriscono su un continuum i cui estremi sono accommodation e antagonismo, entrambi fattori di mantenimento del DOC. Tuttavia non risultano essere le uniche modalità di interazione disfunzionale: Saliani ha descritto sette trappole interpersonali osservate nell’esperienza clinica, che comportano un fallimento sistematico dei tentativi di aiuto. Più efficaci risultano gli interventi di psicoeducazione e auto-osservazione delle trappole: la conoscenza del disturbo e il monitoraggio dei propri comportamenti consente di trasformare i dialoghi da viziosi in virtuosi. Esercitazioni, simulate e role playing sono stati un’ottima occasione di riflessione e confronto nonché di applicazione di quanto appreso durante l’ultima giornata.

Appuntamento a marzo per il secondo weekend!

Per approfondimenti:

Francesco Mancini, La mente ossessiva: curare il disturbo ossessivo compulsivo, 2016, Raffaello Cortina Editore

Coscienza e Dissociazione

di Federica Iezzi

Simposio in memoria di Giovanni Liotti: “Coscienza e dissociazione”

Con uguale calore e con la stessa vicinanza che avevano distinto la platea circa un anno fa, in occasione del ricordo della sua ultima presenza pubblica alla celebrazione per i “40 anni della Psicoterapia Cognitiva”, il 18 Gennaio 2019, a Roma, la sala del Teatro Italia applaude Giovanni Liotti. Si raccoglie in sua memoria, ricordando il poderoso lascito di intellettuale, di clinico e teorico capace di sviluppare, in una raffinata analisi di matrice evoluzionista, un modello del mentale che solca traiettorie unificanti nelle conoscenze multidisciplinari che animano il fervido dibattito della psicopatologia dal XX secolo ad oggi.

Apre i lavori, in veste di Chairman, il Prof. Francesco Mancini, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta, Direttore delle scuole APC e SPC, al quale si unisce il Dott. Maurizio Brasini, didatta della SPC di Roma e Ancona, che ricorda Gianni come un “costruttore di ponti” epistemologici, come docente, collega e amico che con la sua poderosa opera lascia ciò che può essere meglio definita dal termine inglese “legacy”: non solo un’eredità ma soprattutto un dono sul quale si fonda un legame da onorare.

La prima relazione, a cura del Prof. Nino Dazzi, Professore Ordinario di Psicologia dinamica all’Università La Sapienza di Roma, riconduce i lavori liottiani sulla psicopatogenesi dei disturbi dissociativi all’opera pioneristica su trauma e dissociazione di Pierre Janet a partire da “L’automatismo psicologico. Saggio di psicologia sperimentale nelle forme inferiori della attività umana” (1913). Nel testo la spiegazione di alcune forme patologiche viene ricondotta ad un modello dell’attività psichica caratterizzato dalla presenza, al di sotto della vita cosciente, di una vita subcosciente costituita dalle emozioni elementari e dagli istinti. Per Janet i disturbi dissociativi derivano dal fallimento della “sintesi mentale” e dalla conseguente “disaggregazione” per cui gruppi di idee (le «idee fisse subconsce», o «frammenti scissi della personalità»), si pongono al di fuori del controllo della coscienza traducendosi in atti automatici o subcoscienti. Il trattamento propone un modello suddiviso in fasi allo scopo di curare la dissociazione ravvisabile nei pazienti e portarli all’integrazione della loro personalità.

Il secondo intervento, a cura del Prof. Antonio Semerari, Psichiatra e Psicoterapeuta, Didatta APC e SPC, ripercorre il sodalizio tra Guidano e Liotti nel collocare la Teoria dell’Attaccamento all’interno della nuova cornice cognitivista. Gli autori sostenevano che il principio di coerenza regola i processi mentali, garantendo continuità al senso di sé, e che l’Attaccamento ha il ruolo fondamentale di fornire strutture di significato attraverso le quali mantenere una coerenza nell’identità. Tuttavia, mentre per Guidano tali strutture di significato venivano continuamente perturbate da esperienze non immediatamente integrabili, per Liotti è l’Attaccamento stesso a poter dare origine all’incoerenza, sotto forma di disorganizzazione nelle rappresentazioni e nel comportamento. Tale disorganizzazione procede nel venir meno delle funzioni integratrici della coscienza, dove per coscienza Liotti intende una coscienza interpersonale la cui soggettività è imprescindibile dall’Altro. Tali postulati conducono alla definizione dell’assetto dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI; Liotti e Monticelli, 2008) i quali influenzano momento per momento la relazione. Attraverso l’analisi degli SMI è possibile formulare gli obbiettivi terapeutici, la costruzione e il mantenimento dell’alleanza terapeutica, nonché delle sue fratture e riparazioni.

Nell’intervento successivo, la Dott.ssa Lucia Tombolini, Psichiatra e Psicoterapeuta, mette in evidenza la relazione esistente tra l’utilizzo di metafore, i sintomi clinici riportati dal paziente e la conoscenza di sé, all’interno della cornice di pensiero di Giovanni Liotti e alla luce delle docenze da lui tenute nei primi anni ‘80 nel corso di formazione in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale, raccontate con aneddoti non privi di malinconia. “La conoscenza di sé, che appare nell’esperienza soggettiva, come una sorta di dialogo interiore, è la più evidente opera della coscienza umana”, scriveva Liotti nel 1982. Questo postulato mette in luce il primo fondamentale aspetto della coscienza, ovvero “l’effetto su di sé”, una funzione riflessiva che comporta l’esistenza di una continuità tra la conoscenza di sé espressa nella memoria autobiografica e le memorie implicite, sensoriali, percettive o emotive della persona. In terapia, le metafore servirebbero dunque a rilevare lo sfondo implicito del ricordo della persona, attraverso un veicolo di somiglianza con i contenuti della memoria dichiarativa e autobiografica, talora dissolta, come accadeva per l’Uomo dei Chiodi. Il paziente, attraverso l’uso delle metafore, tenta di descrivere sé stesso su un piano semantico attraverso conoscenze implicite che non riesce a tradurre in un codice verbale completo.

Nella complessità del continuo fluire delle emozioni e dell’umore nelle situazioni interpersonali, le metafore divengono veicolo di significato: esse si comprendono insieme, in un’esplorazione congiunta che gradualmente rileva il senso intimo dell’esperienza soggettiva.

In conclusione, il Prof. Benedetto Farina, Psichiatra e Psicoterapeuta, Professore Ordinario in Psicologia Clinica presso l’Università Europea di Roma, nel suo intervento “Il futuro delle idee di Giovanni Liotti: dalla dissociazione della coscienza alla dis-integrazione mentale, implicazioni teoriche e cliniche”, ripercorre gli sviluppi degli studi sul Trauma e Dissociazione (1992). Nel dettaglio, la Disorganizzazione nell’Attaccamento (AD) è il precursore della dissociazione nell’adulto, predispone sia alla dissociazione che a successivi traumi e agisce tramite il conflitto tra i sistemi motivazionali innati e l’esposizione a significati impliciti, frammentati e contraddittori. Nella prima opera liottiana la dissociazione è, per definizione, dissociazione della coscienza, della memoria e della identità, coincide con la compartimentazione ed è il risultato della dissonanza cognitiva prodotta dal conflitto motivazionale. La dissociazione opera dunque in maniera da tenere le informazioni segregate o dissociate dalla processualità della coscienza. Nella seconda fase della sua opera, la dissociazione rappresenta il venir meno delle capacità integrative superiori, non colpisce solo la coscienza, la memoria e l’identità ma tutte le funzioni integrative, tra cui le funzioni esecutive e la metacognizione.

Infine, il Prof. Farina illustra i contributi delle neuroscienze e degli studi sulle Adverse childhood experiences, in cui viene messa in luce l’influenza del contesto interpersonale traumatico nel generare credenze patogene e nel procedere verso la dis-integrazione dei livelli evoluzionisticamente e funzionalmente più elevati della mente. La riflessione conduce alla distinzione tra dis-integrazione mentale e dissociazione, ove per la prima s’intende il venir meno della normale integrazione delle funzioni mentali superiori, o delle funzioni esecutive, mentre per la seconda la riorganizzazione patologica conseguente al meccanismo disintegrativo con la presenza di più centri di coscienza, di “più di un sé”, segregati e non integrati, che condurrebbe allo sviluppo di personalità multiple (Liotti e Farina, 2011).

Il Simposio dedicato alla memoria di Giovanni Liotti si stringe, a chiusura, attorno all’immagine di “Gianni” come illuminista, riferimento chiaro tra le numerose diramazioni della psicopatologia fino ai giorni nostri, e nella riflessione, quasi un monito: “la coscienza non è ciò che rende chiara tutta la vita mentale ma qualora la fiaccola venga a mancare il rischio è di cadere nell’oblio della ragione”.