La salute del sonno nell’età evolutiva

di Debora Meneo, Carlo Buonanno e Chiara Baglioni

Effetti e rischi dei cambiamenti nel pattern sonno-veglia nell’età dello sviluppo e dell’adolescenza

Il sonno è un processo psicofisiologico necessario per la nostra sopravvivenza, regolato dal sistema nervoso centrale e che occupa circa un terzo della nostra vita. Nei primi anni di vita passiamo più tempo dormendo che svegli e fino alla fine dell’adolescenza abbiamo bisogno che il nostro sonno occupi uno spazio importante della giornata per poter ottenere un buon funzionamento a livello mentale e fisico. Durante l’età dello sviluppo, infatti, i cambiamenti nel pattern sonno-veglia si associano ai progressi nella maturazione cerebrale. Nonostante l’importanza del sonno per lo sviluppo, le problematiche a esso associate sono diffuse in età pediatrica. Infatti, la maggior parte dei bambini apprende ad addormentarsi da solo attraverso associazioni positive create all’addormentamento dalle interazioni con i genitori. I disturbi comportamentali del sonno sono molto frequenti nell’età dello sviluppo e riguardano circa il 30% dei bambini e il 10% degli adolescenti. Il trattamento di psicoterapia a orientamento cognitivo comportamentale è indicato come intervento di prima linea per i disturbi comportamentali del sonno in tutte le età. La terapia, basata su ampia evidenza empirica, include una famiglia di tecniche e strategie dirette a modificare credenze e atteggiamenti relativi al sonno. L’intervento è diretto esclusivamente ai genitori quando i bambini sono molto piccoli, può coinvolgere il bambino in età scolare e si rivolge principalmente al ragazzo o alla ragazza durante l’adolescenza. La problematica più prevalente è il disturbo di insonnia, che si presenta come una difficoltà di inizio o di mantenimento del sonno, o di risveglio precoce, associata a un disagio rilevante durante il giorno. Secondo i criteri diagnostici internazionali (DSM-5, APA, 2013 e Classificazione Internazionale dei Disturbi del Sonno, AASM, 2014), nell’età evolutiva il disturbo di insonnia si può manifestare anche attraverso una resistenza ad andare a dormire negli orari indicati dai genitori, o una capacità selettiva di iniziare e/o riprendere il sonno solo in alcune condizioni, come per esempio esclusivamente se presente il genitore. Dato che gli orari di sonno dei bambini sono spesso definiti dalla famiglia, può capitare che il disturbo di insonnia si associ a un disturbo del ritmo circadiano. L’interazione tra un sonno discontinuo e di scarsa qualità, con orari irregolari o non appropriati rispetto al ritmo solare e sociale e con una quantità di sonno ridotta, rappresenta un problema sempre più diffuso. In generale, è stata osservata una tendenza verso un addormentamento tardivo in età pediatrica: i bambini sono spesso messi a letto più tardi rispetto a quanto il loro orologio circadiano permetterebbe normalmente; questo, a sua volta, contribuisce a un altro trend verso la riduzione della durata del sonno nei bambini. Durante lo sviluppo, il bisogno di sonno è più alto che in età adulta (dalle 9-11 ore in età scolare alle 8-10 ore in adolescenza). Tuttavia, bambini e ragazzi nel mondo occidentale riportano una tendenza a dormire meno rispetto a quanto raccomandato dalle linee guida internazionali. Dati precedenti all’insorgenza della pandemia da Covid-19 nella popolazione italiana hanno mostrato come bambini e adolescenti italiani tendono ad andare a dormire circa un’ora più tardi in confronto ai coetanei del Nord Europea o degli Stati Uniti e a riportare una quantità del sonno minore rispetto al loro bisogno fisiologico. Dati raccolti durante il periodo di pandemia in Italia hanno mostrato un’allarmante prevalenza di sintomi di insonnia nei bambini più piccoli, nei bambini in età scolare e negli adolescenti. Tuttavia, definire quando un sonno insufficiente diventa disfunzionale in questa fase di vita può rilevarsi operazione non semplice. La maggior parte degli studi sul sonno nei bambini si è focalizzata su una singola dimensione, come la durata appropriata per l’età o la presenza di difficoltà nell’addormentamento. Nel 2014, prendendo in considerazione l’età adulta, Daniel Buysse ha proposto di definire cos’è un sonno sano in un’ottica multidimensionale. Le dimensioni sono: soddisfazione, livello di vigilanza diurna, tempo del sonno, efficienza e durata. Ognuna di queste dimensioni è risultata connessa alla salute e alterazioni in ognuna di esse si associano a esiti negativi dal punto di vista del funzionamento della persona e della salute fisica e mentale. Integrando il concetto di salute del sonno proposto da Buysse nel 2014 e nell’applicarlo ai bambini, Donald Meltzer e colleghi nel 2021 aggiungono una sesta dimensione della salute del sonno in età pediatrica: i comportamenti relativi al sonno. All’interno di tali comportamenti rientrano sia la regolarità del pattern di sonno che le routines all’addormentamento. Un pattern di sonno irregolare, segnato da un’alta variabilità in orario e durata del sonno da giorno a giorno, è risultato nocivo per la qualità del sonno dei bambini e associato a problematiche comportamentali. Una routine consistente aiuta a rafforzare la normale regolazione del ciclo sonno-veglia; inoltre, l’uso di strategie di addormentamento sotto forma di routine in accordo alla regolazione del sonno aiutano a creare un momento interattivo che nutre la capacità del bambino di addormentarsi in modo indipendente. Routines che non sono consistenti o non compatibili con l’igiene del sonno possono, invece, alimentare la resistenza all’addormentamento, un orario di sonno tardivo e, di conseguenza, una durata del sonno ridotta. Per esempio, molti bambini sono esposti alla televisione o a dispositivi elettronici in generale prima o durante l’addormentamento, con un conseguente ritardo dell’orario di sonno e della sua durata. Queste abitudini possono associarsi a livelli di attivazione psicofisiologica che sono incompatibili con il sonno. È importante sottolineare che i disturbi del sonno in età pediatrica sono una problematica che ha effetto su tutto il sistema familiare. Molti genitori sviluppano ansia e preoccupazione per il sonno dei propri figli e questo, a sua volta, incide sulla loro capacità di gestire lo stress e di avere un buon riposo. In una recente intervista apparsa su The Guardian, il dottor Dimitri Graviloff, direttore del servizio per i disturbi del sonno in età pediatrica dell’Oxford University Hospital, sottolinea come l’apprensione dei genitori verso la salute del sonno dei bambini abbia portato molti a richiedere l’aiuto di consulenti privati, che non sempre hanno una formazione professionale adeguata. Infatti, come il dottor Graviloff avverte, si tratta di un’industria non regolamentata, all’interno della quale non ci sono standard di formazione per i consulenti o di scientificità per gli interventi o consigli erogati. Il prezzo che molti genitori pagano è alto, non solo sul versante economico, ma anche sul versante delle possibili ripercussioni di interventi non basati sull’evidenza sulla salute del sonno dei bambini. È quindi sempre più importante avere informazioni basate sull’evidenza da comunicare alle famiglie e includere i bambini stessi, quando l’età lo permette e il prima possibile, nell’educazione sul sonno, in modo da fornire loro strumenti di auto-regolazione che potranno usare anche in futuro per prevenire problematiche di sonno a lungo termine.

Per approfondimenti
Bacaro, V., Chiabudini, M., Buonanno, C., De Bartolo, P., Riemann, D., Mancini, F., Baglioni, C. (2021b). Sleep Characteristics in Italian Children During Home Confinement Due to Covid-19 Outbreak. Clinical neuropsychiatry, 18(1), 13–27. https://doi.org/10.36131/cnfioritieditore20210102

Bacaro, V., Gavriloff, D., Lombardo, C., & Baglioni, C. (2021a). Sleep Characteristics in the Italian Pediatric Population: A Systematic Review. Clinical neuropsychiatry, 18(3), 119–136.  https://doi.org/10.36131/cnfioritieditore20210302

Buysse D. J. (2014). Sleep health: can we define it? Does it matter?. Sleep, 37(1), 9–17. https://doi.org/10.5665/sleep.3298

Meltzer, L. J., Williamson, A. A., & Mindell, J. A. (2021). Pediatric sleep health: It matters, and so does how we define it. Sleep medicine reviews, 57, 101425. https://doi.org/10.1016/j.smrv.2021.101425

Articolo The Guardian: https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2021/may/29/losing-my-mind-can-baby-sleep-gurusreally-help-exhausted-parents

Foto di Matheus Bertelli:
https://www.pexels.com/it-it/foto/ragazza-che-si-appoggia-la-testa-sulla-sua-mano-mentre-chiude-gli-occhi-573253/

Che cos’è la felicità

di Carlo Buonanno

Topolino, Faust e la promozione di emozioni positive in età evolutiva

Se vi chiedessero di scegliere tra l’elisir di lunga vita e la felicità, cosa scegliereste? Io avrei scelto Mickey Mouse. Topolino non è un bambino, non è sposato e non ha nemmeno uno zio ricco. Pippo, fedele e stralunato come Pluto, è l’amico che, maldestro, gli guarda le spalle. Topolino è un adolescente e non sarà mai nonno, è integerrimo, ha l’anima del detective delle cause impossibili e aiuta il commissario Basettoni a incastrare Gamba di Legno o Macchia Nera.
Topolino è felice, ma ha lo sguardo offuscato e lotta con i demoni per una somma virtù. Ma che cos’è che lo rende così sorridente? È davvero felice? Ed è possibile diffondere la felicità come un contagio benefico?
Recentemente è stata pubblicata una ricerca condotta su un campione di adolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), che nel titolo promette di rispondere in parte alla domanda. Lo studio è stato realizzato da Caterina Villirillo, Claudia Perdighe, Elena Cirimbilla e Gilda Franceschini, psicologhe e psicoterapeute della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma. Si tratta di uno studio pilota che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un protocollo sperimentale di promozione del benessere, che mira a migliorare la qualità e la quantità delle relazioni interpersonali negli adolescenti con DSA. Il protocollo è nato da una duplice riflessione. Le relazioni interpersonali soddisfacenti, in particolar modo con i pari, hanno un ruolo critico per la felicità in età evolutiva e, dunque, anche nei ragazzi con DSA; nell’80% dei casi, i ragazzi con DSA manifestano problematiche di tipo relazionale, laddove la presenza di un buon supporto sociale è un fattore di protezione per la salute mentale. Ma di quale felicità si parla? La felicità intesa come “eudemonia”, vale a dire connessa a una valutazione globale di sé come persona virtuosa e che vive in linea con i propri valori morali. Proprio come Topolino.
Anche Faust, insidiato da Mefistofele e guardato da Dio con ammirazione per lo stesso motivo, supera i limiti della conoscenza, conducendo una vita dedita allo studio e alla virtù. Questa è una felicità che ha uno scopo, motore della condotta individuale e fondamento della morale. Non una felicità effimera, infantile, che si consuma rapidamente nell’attimo in cui si scioglie in bocca il sapore di una caramella, ma una felicità pratica e impegnata. In questi termini, la felicità coincide con uno stato di benessere e soddisfazione che si esprime sia nella presenza di emozioni positive sia, soprattutto, nel buon funzionamento psicologico, inteso come capacità di mettere in atto quotidianamente comportamenti che favoriscono il benessere e riflettono i propri valori. Contro ogni pregiudizio, questo tipo di felicità sembra essere tipico degli adolescenti, mentre nei bambini la felicità è edonica, legata agli aspetti concreti del piacere quali il gioco, le attività di gruppo, il numero di amicizie, le frequenze delle visite agli amici. E a proposito di praticità, gli ingredienti che in età evolutiva correlano con la felicità si dispongono lungo una gerarchia concreta che vede all’apice le relazioni interpersonali con i coetanei e poi l’autonomia, la competenza, avere una buona autostima, avere un sistema di valori da perseguire, avere un locus of control interno. Il protocollo sviluppato dalle autrici è stato realizzato assemblando tecniche di tipo cognitivo-comportamentale standard con procedure mutuate dall’Acceptance and Commitment Therapy. Il protocollo si sviluppa in dieci sedute a cadenza settimanale, più due di follow-up a cadenza quindicinale e si divide in tre fasi:

  • La prima fase, “Conosco me stesso e i miei valori”, è dedicata alla promozione della consapevolezza dei punti di forza e di debolezza del soggetto e alla condivisione di obiettivi da raggiungere in riferimento ai propri valori.
  • La fase centrale, “Mi impegno a perseguire i miei valori e i miei obiettivi”, è focalizzata sull’individuazione di micro-obiettivi da raggiungere settimanalmente, allo scopo di realizzare gli obiettivi stabiliti nella fase precedente. In questa fase, una parte importante è dedicata sia alla ristrutturazione di eventuali credenze disfunzionali, sia all’acquisizione di abilità assertive.
  • La fase conclusiva, “Io più abile socialmente e consapevole delle mie risorse”, consiste nella valutazione degli obiettivi raggiunti e nella generalizzazione delle competenze apprese.

Dall’analisi qualitativa dei dati pre e post-trattamento emerge una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione rilevati nella fase di pretrattamento, un aumento dell’autostima e dell’autoefficacia e un aumento della qualità e della quantità dei rapporti interpersonali. Inoltre, dai risultati è emerso un miglioramento significativo nel rendimento scolastico. Le abilità acquisite sono confermate anche al follow-up di un mese. In definitiva, pare che l’adolescenza sia la vera età della ragione e la felicità è roba terribilmente impegnata. Tra un’indagine di Topolino e la dura ricerca di Faust, oltre i limiti della conoscenza.

Per approfondimenti

Villirillo, C., Perdighe, C., Cirimbilla, E., & Franceschini, G. (2021). Promuovere la felicità: uno studio pilota con un campione di ragazzi con Disturbo Specifico di Apprendimento. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, Italian Journal of Cognitive and Behavioural Psychotherapy, 27(1) pp 17-44.

La mente catastrofica

di Fabrizia Tudisco

a cura di Carlo Buonanno e Andrea Gragnani

Tecniche cognitive per la riattribuzione della stima della minaccia

In diversi disturbi psicologici sono stati osservati differenti tipi di bias cognitivi responsabili della genesi e del mantenimento delle credenze disfunzionali.

Nei soggetti ansiosi ritroviamo frequentemente un bias specifico legato alla sovrastima della probabilità che un evento minaccioso possa verificarsi. Numerosi studi su pazienti con diagnosi di disturbi d’ansia segnalano una tendenza a sovrastimare le probabilità di accadimento di un evento negativo rispetto a coloro che non hanno tale diagnosi. Questo bias si presenta solo quando i soggetti fanno previsioni di eventi che si collocano all’interno del loro specifico dominio psicopatologico (es. i soggetti con disturbo di fobia sociale sovrastimano la possibilità di accadimento di eventi negativi all’interno di contesti sociali, ma non per altri eventi negativi non-sociali).

Questa tendenza a sovrastimare il danno è uno dei nuclei di intervento in psicoterapia cognitiva. Le tecniche più utilizzate a questo scopo sono: la tecnica della piramide capovolta, la tecnica della torta e la tecnica della probabilità cumulata. Si tratta di procedure che favoriscono una valutazione dell’evento negativo in relazione ad altri possibili scenari, che facilitano la distrazione dell’attenzione dall’ipotesi focale negativa a ipotesi alternative e a favore di una rappresentazione più completa (e meno terrifica) della realtà.   Ma queste tecniche, funzionano?

In uno studio del 2003 condotto su un campione non clinico, Andrea Gragnani, Francesco Mancini et al. ne hanno valutato l’efficacia, ipotizzando che potessero causare una significativa riduzione della probabilità percepita di accadimento di un evento negativo. In tutti i gruppi coinvolti nello studio, i risultati ottenuti hanno dimostrato come le tecniche impiegate fossero in grado di ristrutturare la sovrastima della probabilità della catastrofe temuta.

In uno studio più recente, pubblicato nel 2019 sulla rivista Clinical Neuropsychiatry, gli psicologi e psicoterapeuti Amelia Gangemi, Andrea Gragnani, Margherita Dahò e Carlo Buonanno hanno ripreso questo lavoro, ampliandolo e includendo un gruppo di controllo, per verificare l’efficacia dell’intervento attraverso le tre tecniche, comparando i risultati con quelli di un gruppo che non riceve il trattamento e procedendo a un follow up a quattro settimane per verificare la stabilità dei risultati. Gli esiti hanno confermato il dato precedente, dimostrando un’effettiva riduzione della stima della probabilità che l’evento peggiore si verifichi nei gruppi sperimentali ma non in quello di controllo (il gruppo, cioè, che non aveva beneficiato di alcun trattamento) e un mantenimento degli esiti trascorse le quattro settimane. Oltre alla potenza delle tecniche, altro dato interessante che emerge è la riflessione sui processi cognitivi sui quali ogni tecnica agisce. Le tecniche della piramide e della torta avrebbero il potere di contrastare il meccanismo cognitivo di focalizzazione sull’ipotesi peggiore, stimolando l’analisi di diverse possibilità di accadimento degli eventi, oltre a quelle temute. La tecnica della probabilità cumulata ridurrebbe l’iniziale sovrastima della probabilità di accadimento di un evento negativo comparandola con la chance di stimare la sequenza più probabile di eventi che guiderebbe all’esito temuto.

I risultati ci mostrano che questi strumenti aiutano il paziente a sganciarsi dall’ipotesi negativa temuta, ri-orientando l’attenzione verso segnali che disconfermano la minaccia.Se qualcosa che spaventa è meno probabile che accada, allora ci sarà più predisposizione a considerare ipotesi alternative, incoraggiando il paziente ad aderire al trattamento, esponendosi maggiormente agli stimoli temuti, accettando di correre il rischio che ciò di cui ha più paura possa accadere.

Studi futuri si potranno focalizzare sull’osservazione degli esiti della somministrazione delle tecniche in campioni di popolazione clinica, individuando gli specifici domini sintomatici dei singoli disturbi d’ansia e promuovendo una maggiore comprensione sul ruolo del mantenimento del bias di sovrastima della minaccia all’interno delle classi di disturbi.

Per approfondimenti: 

Gangemi A., Gragnani A., Dahò M., Buonanno C. (2019) – Reducing probability overestimation of threatening events: An Italian study on the efficacy of cognitive techniques in non-clinical subjects – Clinical Neuropsychiatry https://www.clinicalneuropsychiatry.org/download/reducing-probability-overestimation-of-threatening-events-an-italian-study-on-the-efficacy-of-cognitive-techniques-in-non-clinical-subjects/

  

L’origine del narcisismo

di Paola Manno, Annalisa L’Abbate, Melania Catania e Silvia Zappatore

Il 21 Giugno 2019, presso l’Hotel Tiziano, si è svolto il convegno “L’origine del Narcisismo”. Sono intervenuti il Dr. Pietro Muratori (IRCCS Fondazione Stella Maris , Pisa), il Prof. Sanders Thomaes (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo dell’Università di Utrecht) ed il Dr. Carlo Buonanno (didatta e membro Equipe Età Evolutiva APC/SPC).

Il Dr. Pietro Muratori, ha introdotto il tema del narcisismo in età evolutiva presentando la Child Narcisism Scale (CNS), uno strumento self-report unidimensionale di rapida somministrazione (10 item) dotato di una buona coerenza interna.

Il Prof. Sanders Thomaes, ha illustrato le caratteristiche del narcisismo in età evolutiva: un’immagine grandiosa di sé che cerca conferme nella relazione e ricerca la validazione esterna. Parte del primo intervento è stata dedicata alla presentazione di studi che mettono in relazione tratti narcisistici, autostima e aggressività; su come differenti stili di parenting possono contribuire allo sviluppo di tratti narcisistici. Sono stati presentati i risultati di alcune ricerche che hanno indagato la relazione tra tratti narcisistici e bullismo e tra tratti narcisistici e disturbi alimentari.

Il Dr. Carlo Buonanno ha introdotto un riflessione volta a comprendere in che modo i dati di ricerca presentati siano applicabili e contestualizzabili all’ambito clinico.

Il Prof. Thomaes, ha poi focalizzato il secondo intervento sul costrutto di autostima in età evolutiva e il Better Than Average Effect (BTAE), ovvero la tendenza dei bambini a sovrastimare le proprie abilità associata ad una definizione di sé più benevola in relazione ad un obiettivo da raggiungere. Tale tendenza, sembra avere un valore adattivo: agevolare l’esplorazione dell’ambiente e l’apprendimento consentendo di perseverare nell’attività.

Nei giorni 21, 22 e 23 Giugno ha poi avuto luogo, presso la sede APC di Lecce, il corso di formazione “Il Coping Power Program: un protocollo di intervento sui disturbi da comportamento dirompente”, condotto dal Dr. Pietro Muratori e dal Dr. Carlo Buonanno e promosso dall’ equipe per l’età evolutiva della scuola APC/SPC di Roma.

Il Coping Power Program (CPP) è un programma applicabile in contesti clinici e di prevenzione, sviluppato per la gestione della rabbia e il controllo dell’aggressività nei bambini dai 7 ai 14 anni. E’ un protocollo cognitivo-comportamentale evidence based che prevede una componente dedicata ai bambini, illustrata dal Dr. Muratori ed una rivolta ai genitori, presentata dal Dr. Buonanno, da svolgersi in setting di gruppo paralleli.

Il corso, che ha incontrato grande interesse da parte dei numerosi partecipanti, ha fornito utili strumenti per il trattamento dei disturbi da comportamento dirompente.

Il modulo CPP per i bambini è strutturato in 34 sessioni di gruppo che si prefiggono di potenziare l’abilità di intraprendere obiettivi a breve e a lungo termine; l’organizzazione e le abilità di studio; il riconoscimento e la modulazione della rabbia; il perspective taking; il problem-solving in situazioni conflittuali; l’abilità a resistere alle pressioni dei pari e le abilità sociali e l’ingresso in gruppi sociali positivi

Il modulo per i genitori mira a sviluppare e potenziare fondamentali funzioni parentali tra cui la capacità di stabilire regole chiare, di gratificare il bambino e fornirgli attenzione positiva, di promuovere e organizzare le sue abilità scolastiche, di migliorare la comunicazione in famiglia ed il problem solving nei momenti di conflitto, nonché di gestire lo stress genitoriale.

È stato appreso come, per il raggiungimento di questi obiettivi sia fondamentale l’organizzazione coerente e consapevole del setting di gruppo, che rappresenta la situazione ideale per l’apprendimento e la sperimentazione di abilità sociali e relazionali in un ambiente supportivo e non giudicante, sia per i bambini che per i loro genitori.

Nella mente dello stalker

di Fabrizia Tudisco
a cura di Carlo Buonanno

 Quante volte ci capita di spiegare il comportamento persecutorio, lo stalking, come l’esito di una psicopatologia? E’ davvero così?

La ricerca scientifica che mira alla comprensione del comportamento tipico dello stalker ha contribuito alla costruzione di stereotipi, secondo i quali i comportamenti persecutori rappresentano l’espressione di psicopatologia. Tantissimi i dati che hanno contribuito a strutturare questa ipotesi. Una delle motivazioni che potrebbe spiegare questi risultati risiederebbe nel fatto che la maggior parte delle ricerche condotte in questo ambito hanno preso in considerazione campioni di individui ricoverati presso ospedali psichiatrici, partendo quindi già dal presupposto che ci fosse un disturbo psichiatrico di fondo. Il passo successivo risiedeva nello spiegare i comportamenti persecutori come logica conseguenza dei disturbi, in particolare disturbi psicotici, dell’umore, di personalità e disturbi da uso di sostanze. Due sembrano quindi essere i limiti fondamentali della ricerca scientifica: ipotizzare che sia inevitabilmente il disturbo psicologico a determinare il comportamento molesto e condurre valutazioni psichiatriche in assenza di metodologia di raccolta e analisi dei criteri diagnostici condivisa.
E’ proprio sulla base di questo che gli autori di un interessante studio pubblicato nel 2018 e condotto alla Fordham University di New York hanno provato a stabilire un sistema valutativo ripetibile, che possa ridurre la probabilità di incorrere nei limiti diagnostici che abbiamo evidenziato; inoltre, i ricercatori hanno utilizzato un campione formato da una popolazione di stalker non necessariamente proveniente da un contesto psichiatrico. Altro obiettivo dello studio era verificare che, al contrario di quanto affermato dalle ricerche precedenti, i disturbi psicologici non rappresentano la condizione necessaria e sufficiente affinché il comportamento esiti nello stalking. Allo studio hanno partecipato 137 soggetti accusati di stalking e coinvolti in un programma di intervento. I partecipanti sono stati assegnati a quattro categorie diagnostiche sovrapposte (psicotici, ansiosi, uso di sostanze e disturbi di personalità); una quinta categoria corrispondeva a una non diagnosi.
I risultati dello studio hanno dimostrato che il 27,7% non presentava alcun disturbo. Questi dati potrebbero riflettere la tendenza dei clinici a sovrastimare la patologia dietro il comportamento di stalking, proprio come ipotizzato dagli autori. In più, rispetto ai livelli di aggressività e violenza, dai risultati non sono emerse differenze significative tra gli stalker con e senza psicopatologia. La psicopatologia, quindi, non correla con i livelli di aggressività presenti nel comportamento molesto e persecutorio.
I dati emersi disconfermano, inoltre, la forte correlazione che la letteratura riporta tra stalking e psicoticismo: nello studio infatti sono solo 14 i soggetti con questa psicopatologia. Inoltre, mentre le precedenti ricerche hanno enfatizzato la presenza di disturbi di personalità del cluster B, in questo studio sono emersi altri tipi di disturbi di personalità (schizoide, narcisistico e paranoide). Per quanto riguarda i dati sugli stalker con diagnosi di disturbi da uso di sostanze, i risultati sono coerenti con la letteratura esistente, secondo cui l’uso di sostanze aumenta in generale il rischio di incorrere in storie di crimini o di violenza.
In sintesi, la psicopatologia assume un ruolo marginale nella comprensione della vulnerabilità e delle caratteristiche cliniche dello stalking, laddove più di un quarto del campione non mostra segni di rilevanza clinica. Questo dato suggerisce che per la spiegazione del fenomeno esaminato la ricerca dovrà orientarsi sull’esame dei fattori di rischio non clinici, utilizzando protocolli standardizzati e condivisi.

 

Riferimenti bibliografici:

Alicia Nijdam-Jones,Barry Rosenfeld, Jacomina Gerbrandij, Ellen Quick, Michele Galietta (2018) Psychopathology of Stalking Offenders: Examining the Clinical, Demographic, and Stalking Characteristics of a Community-Based Sample

Quei bravi ragazzi

di Carlo Buonanno

Che relazione c’è tra la psicopatia e l’eroismo?

Antonio Spavone, ‘O malommo, è stato uno tra i più temuti e rispettati boss della Camorra.
Nel 1966, Spavone è a Firenze, detenuto nel carcere delle Murate. Il 4 novembre l’Arno rompe gli argini e copre la città di melma. In pochi sanno che, prima che gli angeli del fango facessero il loro ingresso sulla scena internazionale, ‘O malommo sta per guadagnarsi la grazia dal Presidente Saragat. Mentre i detenuti cercano scampo dalle acque che invadono l’edificio, Spavone trova il tempo di salvare tre carcerati, due agenti di custodia e la figlia del direttore. Nel caos alimentato dalla paura, il pericoloso criminale eviterà anche lo stupro di due detenute e di una guardia carceraria. Niente fiction ma autentici atti di eroismo.
Che relazione c’è tra la psicopatia e l’eroismo?
In una recente ricerca, è stato preso in esame il ruolo dell’orgoglio come promotore di comportamenti prosociali in soggetti psicopatici. L’orgoglio rappresenta un’alternativa alla colpa nella promozione della socializzazione. Un dato osservato già da Freud negli anni venti, quando il padre della psicanalisi suggeriva l’esistenza di un Super-Io che punisce i comportamenti inappropriati con l’induzione di colpa e un Io che invece ricompensa con l’orgoglio i comportamenti adeguati. A metà anni novanta Lykken teorizza come, in soggetti con propensione alla psicopatia, l’esposizione a un ambiente che favorisce le esperienze di orgoglio partecipa al mantenimento di una rappresentazione di sé positiva. Sentirsi buoni e competenti poi aiuta a incanalare le propensioni negative in modalità adeguate e più adattive. Tuttavia, l’orgoglio non sarebbe un costrutto unitario. Ne esisterebbero almeno due tipi, un orgoglio autentico e un orgoglio superbo (vanità). Il primo, adattivo, è orientato al merito e caratterizzato da correlati cognitivi del tipo “Ho messo in piedi la squadra, perché mi sono allenato”. Il secondo, invece, è un fenomeno più vicino al narcisismo maligno, con i corrispettivi correlati cognitivi del tipo “Ho messo in piedi la squadra perché ho talento”. Un altro costrutto, ampiamente descritto nella letteratura sull’antisocialità, è la fearless dominance, l’assenza di paura che, insieme all’orgoglio, rappresenterebbe per gli autori della ricerca l’ingrediente fondamentale dell’eroismo.
I risultati hanno però deluso le aspettative. L’ipotesi principale, secondo la quale l’orgoglio inibisce i comportamenti antisociali e promuove atti di eroismo, è stata solo parzialmente dimostrata. Nei soggetti con alti livelli di fearless dominance, l’orgoglio autentico può potenziare l’associazione tra la fearless dominance e i comportamenti pro-sociali (leadership adattiva), una relazione che però non si estende all’eroismo. Con una buona dose di incredulità, inoltre, è l’orgoglio superbo, quello cattivo, a moderare la relazione tra l’impulsività e i comportamenti antisociali, ma in una maniera protettiva.
Insomma, c’è speranza per quei bravi ragazzi e un ambiente che inoculi massicce dosi di orgoglio sembra in parte funzionare per farli sentire bravi davvero. Resta da capire se poi questo sia sufficiente a sostenere da solo il senso di giustizia. Chissà cosa ne pensano i detrattori delle moderne crime series alla Gomorra, quelli che inneggiano alla censura e che denunciano il rischio di contagio. A scanso di equivoci, ‘O malommo è stato eroe per un giorno. Sanguinario boss della camorra per tutta la vita.

 

Per approfondimenti:

Thomas H. Costello, Ansley Unterberger1, Ashley L. Watts1 and Scott O. Lilienfeld (2018) Psychopathy and Pride: Testing Lykken’s Hypothesis Regarding the Implications of Fearlessness for Prosocial and Antisocial Behavior. Frontiers in Psychology, 20;9:185. doi:10.3389/fpsyg.2018.00185