Think Good, Feel Good

di Claudia Perdighe

I colleghi che hanno rispettivamente tradotto e curato la versione italiana di “Think Good, Feel Good” Allenati a pensare diversamente per sentirti meglio, Elena Cirimbilla e Giuseppe Romano, mi hanno chiesto di leggere questo libro per una eventuale recensione. Lo ho preso in mano ed è stato un amore a prima vista. Proverò quindi a spiegare per quali buone ragioni merita di essere letto da qualunque terapeuta, anche se come me non si occupa di psicoterapia in età evolutiva.

La prima cosa che mi ha colpito è il fatto che nel primo capitolo c’è una presentazione della psicoterapia cognitiva essenziale, semplice nel linguaggio e chiarissima nei concetti che spiega in modo essenziale cosa è la psicoterapia cognitiva e su quali principi scientifici si basa. Il rasoio di Occam usato bene. In particolare mi ha impressionato l’abilità dell’autore di spiegare in poche parole sia le specificità delle cosiddette tre onde della CBT (il comportamentismo, il cognitivismo e le terapie terza onda) e sia il quanto siano integrabili senza forzature, non solo su un piano tecnico (nell’uso di tecniche efficaci, anche se sviluppate in “un’altra onda”), ma anche su un piano concettuale; ad esempio, l’autore evidenzia la non contraddizione nell’usare le procedure di terza onda che “non hanno lo scopo esplicito di modificare le cognizioni”, e basarsi su una teoria che prevede che il cambiamento dei sintomi segua il cambiamento della cognizione (il fatto che, per esempio, la mindfulness non agisca in modo esplicito sulla cognizione, non implica che non la modifichi e che il cambiamento avvenga a quel livello!).

Un secondo ottimo motivo per leggere questo libro è che, da non esperta del tema, ho avuto l’impressione che contenga una “cassetta degli attrezzi”, nei termini dell’autore, completa. Non ci sono protocolli per singoli disturbi, ma ci sono tutti gli strumenti di cambiamento utili nel curare i disturbi emotivi, nel costruire competenze e, in ultimo, migliorare complessivamente il funzionamento e il benessere del bambino. Le procedure tipiche della CBT sono presentate in capitoli,  in forma già adattata all’età evolutiva e spesso tradotte in schede di lavoro direttamente applicabili; per esempio, il debating prevede delle schede con le domande tipiche della discussione che si possono o compilare insieme o dare come strumento da usare da solo al paziente.

In ultimo, una cosa che mi ha colpito molto è l’idea del paziente e dei disturbi mentale che traspare, che definirei di grande fiducia nel paziente e nelle sue risorse: i sintomi e le difficoltà del paziente (e dei genitori) sembrano concettualizzate nella mente del terapeuta sempre come modalità disfunzionali si, ma anche sempre orientate a soddisfare bisogni, perseguire scopi e desideri del tutto legittimi e condivisibili.

Stallard P. (2021), Think Good, Feel Good. Allenati a pensare diversamente per sentirti meglio. (Edizione italiana tradotta da E. Cirimbilla e curata da G. Romano), Roma, Giovanni Fioriti Editore

Come ti senti oggi?

di Elena Cirimbilla

La competenza emotiva nei bambini

Nel corso dello sviluppo, i bambini maturano una sempre crescente competenza emotiva. Di fatto, imparano a denominare, comprendere e gestire le proprie emozioni. Il processo è piuttosto lineare: un bambino che saprà riconoscere, comprendere e denominare un’emozione sarà anche in grado di interrogarsi su cosa fare in merito, confrontarsi o chiedere aiuto. Il punto di partenza è quindi che il bambino possa fermarsi (e soffermarsi) sulle proprie emozioni, per cogliere e capire come si sente.

In terapia, può essere utile, all’inizio della seduta, accogliere i bambini con il “termometro delle emozioni”, uno strumento che, oltre a essere divertente, li porta a scegliere tra le varie emozioni proposte e a pensare qualche minuto a come effettivamente si sentono. Questo consente poi di aprire il dialogo su scenari vissuti, momenti piacevoli o spiacevoli. Sembra banale, ma capita che i bambini ne rimangano entusiasti e spesso, se indaghiamo, possiamo ricevere una semplice risposta: “non me lo chiede mai nessuno”.

Quanto spesso ai giorni nostri viene sottolineata l’importanza di spiegare le emozioni ai bambini, di insegnare loro a tollerarle ed esprimerle? La famiglia, la scuola e gli educatori si impegnano quotidianamente per osservare e tenere in considerazione i segnali dei piccoli, rimandando loro strategie più opportune di gestione della rabbia o di espressione della tristezza. Ma quanto spesso capita di chiedere a un bambino come si sente? Probabilmente la percezione sarà di farlo sempre. Ma se ad esempio confrontiamo la frequenza di questa domanda con la classica “com’è andata a scuola?” potremmo accorgerci che, di fatto, la domanda diretta sulle emozioni non è così usuale.

Dopotutto è naturale, non chiederemmo al nostro partner “come ti senti oggi?”, ma piuttosto un tipico “com’è andata al lavoro?” ed è probabile che la risposta sarà articolata, con esempi di momenti positivi o negativi. Nel caso dei bambini, che possono apparire più resilienti di noi adulti, è altrettanto probabile che riceveremo semplicemente un “bene” oppure una timorosa confessione di un brutto voto. Spesso quel “bene” così scarsamente argomentato infastidisce l’adulto che vorrebbe sentirsi parte della giornata del bambino. Se la condivisione risulta difficile può essere utile guidare il bambino nell’atto di soffermarsi sulle proprie esperienze e sui propri stati emotivi, ponendo il primo tassello nello sviluppo della competenza emotiva. Così, potremmo pensarlo come un esperimento e con un piccolo cambio di prospettiva inserire nelle nostre abitudini quotidiane una semplice frase per nulla scontata: “come ti senti oggi?”. Proponendo una gamma di emozioni tra cui scegliere e nelle quali il bambino può sentirsi rispecchiato e accompagnato nell’esprimersi, l’adulto offrirà uno spazio di riflessione e di riconoscimento emotivo, favorendo la condivisione delle esperienze e dei vissuti emotivi.

Per approfondimenti:

Di Pietro M. (2014). L’ABC delle mie emozioni 4-7 anni, corso di alfabetizzazione socio-affettiva secondo il metodo REBT, Edizioni Erickson, Trento

Foto di Andrea Piacquadio da Pexels

Alla scoperta della gentilezza

di Elena Cirimbilla

Come il comportamento in età evolutiva può influenzare il successivo sviluppo sociale dell’individuo

Nel momento in cui pensiamo alla gentilezza, nelle nostre menti compaiono immagini legate a concetti come compassione, empatia, generosità o altruismo. Tali concetti appartengono al “comportamento prosociale”, inteso come l’agire in modo gentile, cooperativo e compassionevole, in una costellazione di atti volontari orientati al beneficio altrui.

L’età evolutiva, grazie alla scoperta e interazione continua con il prossimo, si configura come uno dei periodi critici che influenzano il successivo sviluppo sociale dell’individuo.

Durante l’infanzia e l’adolescenza, la progressiva capacità del soggetto di assumere la prospettiva dell’altro consente la decodifica delle emozioni e la comprensione degli stati mentali del prossimo e contribuisce allo sviluppo dei comportamenti prosociali.

Numerosi studi si sono occupati di indagare questo tipo di comportamento nei giovani e, in particolare, le successive ripercussioni sullo sviluppo sociale.

In un recente studio, un campione di giovani è stato suddiviso in quattro gruppi, da bassa ad alta prosocialità. I quattro profili sono stati suddivisi in base al livello di comportamento prosociale mostrato dai giovani, misurato con item come: “Il bambino sembra preoccupato quando gli altri bambini sono in difficoltà”, “Il bambino è gentile verso i pari” o ancora “Il bambino offre aiuto o conforto quando gli altri bambini sono turbati”.
Due anni dopo è stata esaminata l’associazione tra i profili sociali individuati e le relazioni tra pari nella prima adolescenza, partendo dall’idea che elevati livelli  di comportamento prosociale potessero essere legati a relazioni interpersonali più positive negli anni a seguire. Le variabili misurate in adolescenza riguardavano, in particolare: l’aggressività, l’esclusione sociale, il bullismo e la vittimizzazione.

Coerentemente con l’ipotesi e le precedenti ricerche, gli autori hanno evidenziato come il comportamento prosociale sia un predittore critico delle successive relazioni tra pari.

I risultati hanno infatti mostrato che il gruppo caratterizzato da bassa prosocialità era significativamente più a rischio di mostrare aggressività e bullismo e di sperimentare vittimizzazione ed esclusione sociale rispetto ai giovani di tutti gli altri profili sociali. Al contrario, i ragazzi altamente prosociali hanno riportato bassi punteggi in tutte le aree problematiche.

In altre parole, i ragazzi che avevano ottenuto bassi punteggi sugli indicatori dei comportamenti prosociali avevano rapporti tra pari più problematici nella prima adolescenza, all’opposto di quelli con elevata prosocialità.

I risultati della ricerca favoriscono una riflessione sull’importanza di attuare comportamenti a beneficio del prossimo, in una chiave altruistica e orientata all’altro. In più, gli studi evidenziano che essere gentili o, in generale, compiere atti prosociali aumenta il benessere. In linea con la letteratura, i dati di una ricerca in pubblicazione di un gruppo di psicologi e psicoterapeuti della Scuola di Psicologia Cognitiva di Roma (SPC), coordinato dalla dott.ssa Claudia Perdighe, mostrano una correlazione positiva tra felicità, moralità e gratitudine.

In quest’ottica, condividere la merenda, mandare un messaggio carino a un amico, aiutare il compagno in un compito o ascoltarlo quando si sente triste, possono configurarsi come piccoli, ma fondamentali, gesti quotidiani.

Accompagnare i bambini e ragazzi nella ricerca e nella scoperta della gentilezza può sembrare difficile o impegnativo ma, come ogni cosa nuova, è possibile allenarsi. Ad esempio, insieme a nostro figlio, fermiamoci di tanto in tanto e soffermiamoci sul ricordo di un momento in cui si è stati disponibili o gentili con qualcun altro, in cui è stato offerto il proprio aiuto o un abbraccio e, se è vero che la gentilezza è contagiosa, proviamo anche a notare i momenti in cui gli altri lo sono con noi.

Per approfondimenti:

Hui B.P.H, Ng J.C.K., Berzaghi E., Cunningham-Amos L.A., Kogan A. (2020). Rewards of kindness? A meta-analysis of the link between prosociality and well-being. Psychological Bulletin doi: dx.doi.org/10.1037/bul0000298

Iannucci A., Albanese A., Cascone R., Cirimbilla E., Maravolo R., Mignogna C., Mignogna V., Napoli E., Patriciello M., Pelosi G., Rosini P., Villirillo C., Giacomantonio M., Perdighe C., (2017) “Standard morali: ostacolo od opportunità per la felicità?”. In pubblicazione

Ma T.L., Zarrett N., Simpkins S., Vandell D.L., Jiang S. (2020). Brief report: Patterns of prosocial behaviors in middle childhood predicting peer relations during early adolescence. Journal of Adolescence, 78:1-8. doi: 10.1016/j.adolescence.2019.11.004

Foto di Alexander Suhorucov da Pexels

Che cos’è la felicità

di Carlo Buonanno

Topolino, Faust e la promozione di emozioni positive in età evolutiva

Se vi chiedessero di scegliere tra l’elisir di lunga vita e la felicità, cosa scegliereste? Io avrei scelto Mickey Mouse. Topolino non è un bambino, non è sposato e non ha nemmeno uno zio ricco. Pippo, fedele e stralunato come Pluto, è l’amico che, maldestro, gli guarda le spalle. Topolino è un adolescente e non sarà mai nonno, è integerrimo, ha l’anima del detective delle cause impossibili e aiuta il commissario Basettoni a incastrare Gamba di Legno o Macchia Nera.
Topolino è felice, ma ha lo sguardo offuscato e lotta con i demoni per una somma virtù. Ma che cos’è che lo rende così sorridente? È davvero felice? Ed è possibile diffondere la felicità come un contagio benefico?
Recentemente è stata pubblicata una ricerca condotta su un campione di adolescenti con Disturbo Specifico di Apprendimento (DSA), che nel titolo promette di rispondere in parte alla domanda. Lo studio è stato realizzato da Caterina Villirillo, Claudia Perdighe, Elena Cirimbilla e Gilda Franceschini, psicologhe e psicoterapeute della Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma. Si tratta di uno studio pilota che ha l’obiettivo di valutare l’efficacia di un protocollo sperimentale di promozione del benessere, che mira a migliorare la qualità e la quantità delle relazioni interpersonali negli adolescenti con DSA. Il protocollo è nato da una duplice riflessione. Le relazioni interpersonali soddisfacenti, in particolar modo con i pari, hanno un ruolo critico per la felicità in età evolutiva e, dunque, anche nei ragazzi con DSA; nell’80% dei casi, i ragazzi con DSA manifestano problematiche di tipo relazionale, laddove la presenza di un buon supporto sociale è un fattore di protezione per la salute mentale. Ma di quale felicità si parla? La felicità intesa come “eudemonia”, vale a dire connessa a una valutazione globale di sé come persona virtuosa e che vive in linea con i propri valori morali. Proprio come Topolino.
Anche Faust, insidiato da Mefistofele e guardato da Dio con ammirazione per lo stesso motivo, supera i limiti della conoscenza, conducendo una vita dedita allo studio e alla virtù. Questa è una felicità che ha uno scopo, motore della condotta individuale e fondamento della morale. Non una felicità effimera, infantile, che si consuma rapidamente nell’attimo in cui si scioglie in bocca il sapore di una caramella, ma una felicità pratica e impegnata. In questi termini, la felicità coincide con uno stato di benessere e soddisfazione che si esprime sia nella presenza di emozioni positive sia, soprattutto, nel buon funzionamento psicologico, inteso come capacità di mettere in atto quotidianamente comportamenti che favoriscono il benessere e riflettono i propri valori. Contro ogni pregiudizio, questo tipo di felicità sembra essere tipico degli adolescenti, mentre nei bambini la felicità è edonica, legata agli aspetti concreti del piacere quali il gioco, le attività di gruppo, il numero di amicizie, le frequenze delle visite agli amici. E a proposito di praticità, gli ingredienti che in età evolutiva correlano con la felicità si dispongono lungo una gerarchia concreta che vede all’apice le relazioni interpersonali con i coetanei e poi l’autonomia, la competenza, avere una buona autostima, avere un sistema di valori da perseguire, avere un locus of control interno. Il protocollo sviluppato dalle autrici è stato realizzato assemblando tecniche di tipo cognitivo-comportamentale standard con procedure mutuate dall’Acceptance and Commitment Therapy. Il protocollo si sviluppa in dieci sedute a cadenza settimanale, più due di follow-up a cadenza quindicinale e si divide in tre fasi:

  • La prima fase, “Conosco me stesso e i miei valori”, è dedicata alla promozione della consapevolezza dei punti di forza e di debolezza del soggetto e alla condivisione di obiettivi da raggiungere in riferimento ai propri valori.
  • La fase centrale, “Mi impegno a perseguire i miei valori e i miei obiettivi”, è focalizzata sull’individuazione di micro-obiettivi da raggiungere settimanalmente, allo scopo di realizzare gli obiettivi stabiliti nella fase precedente. In questa fase, una parte importante è dedicata sia alla ristrutturazione di eventuali credenze disfunzionali, sia all’acquisizione di abilità assertive.
  • La fase conclusiva, “Io più abile socialmente e consapevole delle mie risorse”, consiste nella valutazione degli obiettivi raggiunti e nella generalizzazione delle competenze apprese.

Dall’analisi qualitativa dei dati pre e post-trattamento emerge una significativa riduzione dei sintomi di ansia e depressione rilevati nella fase di pretrattamento, un aumento dell’autostima e dell’autoefficacia e un aumento della qualità e della quantità dei rapporti interpersonali. Inoltre, dai risultati è emerso un miglioramento significativo nel rendimento scolastico. Le abilità acquisite sono confermate anche al follow-up di un mese. In definitiva, pare che l’adolescenza sia la vera età della ragione e la felicità è roba terribilmente impegnata. Tra un’indagine di Topolino e la dura ricerca di Faust, oltre i limiti della conoscenza.

Per approfondimenti

Villirillo, C., Perdighe, C., Cirimbilla, E., & Franceschini, G. (2021). Promuovere la felicità: uno studio pilota con un campione di ragazzi con Disturbo Specifico di Apprendimento. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, Italian Journal of Cognitive and Behavioural Psychotherapy, 27(1) pp 17-44.

Un workshop sul Rescripting

di Elena Cirimbilla

Il 23 Gennaio 2021 si è tenuto il Workshop online dal titolo “Il Rescripting: un metodo per intervenire sulle esperienze dolorose precoci”, organizzato dalle Scuole di Psicoterapia Cognitiva SPC e APC e condotto dal Professor Arnoud Arntz, psicologo, psicoterapeuta, tra i massimi esperti di Schema Therapy (Per saperne di più sulla Schema Therapy) nel panorama internazionale e tra i più importanti ricercatori nel campo dell’Experimental Psychopathology e della Schema Therapy.

La tecnica ’“Imagery With Rescripting” (IWR), il tema del Workshop, è un elemento base della Schema Therapy ed è volta a operare sui significati e sulle emozioni conseguenti alle esperienze infantili, partendo dall’idea che le radici dei vissuti emotivi attuali si collocano proprio in tali esperienze.

I bisogni del paziente, le sue memorie precoci e le emozioni connesse sono stati gli ingredienti principali del Workshop, in una costante e coinvolgente trattazione ad opera del Professor Arntz che, con una modalità attiva ed empatica, ha permesso ai partecipanti di entrare nel vivo del tema, da un punto di vista pratico ed esperienziale.

Dopo aver aperto l’incontro con una rassegna di evidenze scientifiche a sostegno dell’efficacia dell’IWR, il Professor Arntz si è dedicato alla descrizione della tecnica nel dettaglio.

Il protocollo base si divide in tre step:

  • Il paziente immagina il ricordo di un’esperienza traumatica precoce
  • Il terapeuta si inserisce nell’immagine e interviene sulla minaccia
  • Il terapeuta dirige l’attenzione sui bisogni del paziente/bambino

La prima fase del protocollo, la rievocazione del ricordo, è possibile attraverso l’accesso alle memorie infantili del paziente o attraverso un “ponte affettivo” a partire da un’esperienza problematica del momento presente e prevede che il paziente si “immerga” nel proprio ricordo, guidato dal terapeuta nell’uso dei cinque sensi.

Nella seconda e terza fase il terapeuta si inserisce nella memoria, in un contesto di totale vulnerabilità del paziente, per compiere un intervento teso alla Ri-scrittura di un ricordo intimo e traumatico. In questi step il terapeuta “agisce” nel ricordo del paziente mentre quest’ultimo entra in contatto e comunica le proprie emozioni, bisogni e desideri.

In queste fasi, la partecipazione attiva, attenta ed empatica del terapeuta è stata abilmente sottolineata dal Professor Arntz con quella che forse è la frase che più racchiude l’essenza del Rescripting: “Sono qui per te, ci sono io a proteggerti”.

Per i partecipanti è stato possibile entrare nel vivo della tecnica grazie a simulate e role playing proposti dal docente che, dopo aver interpretato il ruolo del terapeuta, lo ha ceduto, a turno, a tutti i presenti.

Dopo aver permesso a tutti di “allenarsi” con la tecnica, il Professor Arntz si è dedicato alla trattazione della variante del protocollo che prevede l’intervento diretto del paziente sul ricordo, attraverso quella parte del sé che è “adulta”: il terapeuta viene quindi sostituito da un sé adulto che ha le risorse per comprendere, validare e proteggere il suo sé bambino.

Di nuovo, in un’alternanza di spiegazioni, dimostrazioni e simulate, condite da un elevato tono emotivo, Arntz ha mostrato le fasi di questo protocollo, che prevede il passaggio ripetuto tra il sé bambino e il sé adulto.

L’ultima parte del Workshop è stata dedicata alle possibili problematiche e difficoltà che si possono incontrare nell’applicazione della tecnica, anticipando dubbi ed eventuali timori degli uditori e alle possibili altre applicazioni pratiche.

In conclusione, al termine della giornata, il partecipante torna a casa (anche se a casa eravamo già) con una nuova tecnica da inserire nel proprio bagaglio di conoscenze e con un pizzico di accoglienza emotiva ed empatia in più, grazie alla capacità del Professor Arntz di trasmettere il proprio desiderio e tenacia nell’aiutare il proprio paziente, il cui “aggressore deve essere combattuto con tutte le forze”, comunicando a tutti noi che davvero, di fatto, è lì per il paziente, per aiutarlo a proteggersi.

 

Saper uscire dal protocollo

di Elena Cirimbilla

Dal manuale a Dragon Ball: la flessibilità del terapeuta in età evolutiva

Il termine “flessibilità” indica, in senso figurato, la “facilità a variare, a modificarsi, ad adattarsi a situazioni o condizioni diverse”. Nel lavoro clinico o di ricerca, frequentemente si incontra la raccomandazione al terapeuta di essere flessibile. Ciò significa, se osserviamo il significato del termine, adattarsi alle condizioni del paziente.

Certamente occorre tener conto delle esigenze del paziente in ogni fase di vita, ma l’età evolutiva richiede una particolare attenzione all’adattamento dei contenuti al livello di sviluppo. A partire da questa necessità, il terapeuta ha la possibilità di rifarsi a numerosi manuali che propongono modalità ludiche con le quali è possibile adattare l’intervento al bambino.

Così, qualche tempo fa, a un piccolo paziente è stato proposto l’uso del “semaforo”, uno strumento per il problem-solving (volto cioè all’apprendimento di strategie di risoluzione dei problemi), tipico dell’intervento cognitivo comportamentale con l’età evolutiva. Con molto entusiasmo, è stato costruito lo strumento e ne è stata condivisa la modalità di utilizzo. All’incontro successivo però, il semaforo non aveva funzionato, il paziente non era riuscito a utilizzarlo e farlo suo e, non ultimo, aveva avvertito un senso di inadeguatezza per questo.

Uno strumento semplice, divertente e adatto all’età del bambino che i manuali suggeriscono non era stato utile. Che fare?

Sarebbe stato possibile riproporlo, provando a capire se gli fosse sfuggito qualcosa o se non lo avesse applicato nel modo giusto, ma il rischio di farlo sentire nuovamente inadeguato era elevato. A questo punto diviene fondamentale la flessibilità del terapeuta, intesa non solo come la capacità di non aderire rigidamente ai protocolli, ma, soprattutto nel lavoro con i bambini, la capacità di costruire e cucire sul piccolo paziente il processo o lo strumento più adatto a lui. In tal senso, la flessibilità nel lavoro in età evolutiva si può intendere come la capacità di distanziarsi dal manuale, di cogliere il razionale dietro agli strumenti per riadattarli sulla base delle passioni e degli interessi del bambino, al fine di permettergli di essere agente e attore del cambiamento.

Attraverso il gioco, le immagini, gli esempi concreti e le metafore a lui familiari, legate ad aspetti di vita conosciuti e sperimentati, il terapeuta può costruire assieme al bambino uno strumento nuovo, personalizzato, che lo accompagni nel processo sul quale si sta intervenendo. Non è inusuale che il terapeuta legga i fumetti o veda i cartoni a cui il bambino è appassionato, in una prima fase per costruire una buona alleanza, ma successivamente per poter utilizzare ciò che il bambino ama e in cui è semplice coinvolgersi al servizio della terapia.

E così all’incontro successivo, nel lavoro sul problem solving, il “semaforo” che il manuale tanto decantava era diventato “Karin”, il gatto maestro di arti marziali di Dragon Ball.

 

Per approfondimenti:

Di Pietro M., Bassi E. (2013). L’intervento cognitivo comportamentale per l’età evolutiva. Strumenti di valutazione e tecniche per il trattamento. Trento: Erickson Edizioni

Foto di Jennifer Murray da Pexels