La scelta di Alida

a cura di Giordana Ercolani

Soffrire è, senza dubbio, un’esperienza soggettiva che può essere difficile da sperimentare e ancor più da condividere. Possono emergere infatti valutazioni di auto-critica, poichè il solo fatto che si stia soffrendo può farci sentire fragili, minacciati, sbagliati e dunque più soggetti a perdite e/o giudizi negativi. Tutto questo amplifica il dolore emotivo, alimentando anche un senso di incomprensione e solitudine molto comune.

Per questa ragione vogliamo condividere la storia di Alida; affinché il coraggio di raccontarsi anche nella sofferenza psicologica possa essere dimostrazione di “normalità” e perché la condivisione dell’esperienza terapeutica di cambiamento possa aiutare chi sta soffrendo a considerare la possibilità di chiedere aiuto.

Ciao,
mi chiamo Alida e ho 28 anni; soffro di DOC dall’età di 10.

Non sapendo cosa fosse esattamente, mi sono sempre sentita una “bambina strana”, “un po’ particolare”, un po’ troppo fissata per la pulizia e con pensieri ricorrenti su contaminazione e contatti con cose/persone che avrebbero potuto in qualche modo danneggiarmi.

Resa insicura da queste paure e vergognandomene molto, facevo di tutto per camuffare, compiacere gli altri, fare ironia su di me, tutte cose che (col senno di poi) sono state nocive per la mia autostima.

Dopo il 2020, la situazione è esplosa, sfuggendo dal mio controllo. Se fino a quel momento ero riuscita ad imbrigliare il DOC nella mia quotidianità di studentessa universitaria con una buona media, figlia presente e affidabile, sorella e amica con (apparentemente) nessuna difficoltà…di lì in poi tutto cambiò.

Ero terrorizzata, impaurita dal contatto con gli altri e con gli oggetti. Ero reticente ad uscire di casa. I pensieri erano così presenti e pervasivi da distogliermi dallo studio, tanto che cominciai ad andare fuoricorso. Le compulsioni che il DOC mi suggeriva rubavano letteralmente le mie giornate e tutta la mia energia vitale.

Non avevo voglia di vedere persone né di condividere spazi e cose. Per paura disdicevo gli appuntamenti con i miei amici e colleghi all’ultimo momento e  mi fingevo molto impegnata per non doverne prendere di nuovi. Mi ero spenta, depressa, resa irriconoscibile a me stessa.

Al culmine di questa sempre più esasperata situazione, mi rendo conto che avevo urgente bisogno di chiedere aiuto così, dopo vari tentativi non andati a buon fine, intraprendo un intervento specifico per il DOC. Mi rivolgo a uno psichiatra che mi ha sapientemente affidato alle cure specialistiche di una psicologa psicoterapeuta, competente in materia e con una formazione certificata.

Il suo modo sicuro ma delicato e gentile, le ha permesso di valicare confini rigidi che a nessuno avevo mai permesso di oltrepassare e dietro i quali mi trinceravo, piena di vergogna e paura. Per la prima volta mi sono sentita ascoltata e compresa, mai derisa, fuori luogo o giudicata.

Abbiamo iniziato a ricostruire i meccanismi del mio funzionamento, sino ad arrivare alla mia vulnerabilità al disturbo. Da lì in poi rimettere insieme i pezzi è stato un passaggio naturale: più il puzzle prendeva forma, più le catene del mio DOC si spezzavano, facendomi sperimentare per la prima volta nella vita, adulta e consapevole, la libertà.

Alcuni concetti come quello di scelta, responsabilità e senso di colpa, sono stati fondamentali per sbloccarmi da quella condizione. Ogni mia difficoltà palesata, per quanto assurda mi sembrasse, è stata affrontata in terapia e resa gestibile con accettazione, impegno e tempo.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un abitante invisibile della nostra mente, tuttavia questo scomodo inquilino dai toni perentori prende tanto più spazio quanto più siamo disposti a cederne! Scegliere di non mettere in atto le compulsioni, correre il rischio e tollerare l’ansia che arriva, più forte che mai, se non si mettono in atto le compulsioni riduce lo spazio occupato dal DOC.

La prima volta in cui ho scelto di “correre il rischio” è stato per partecipare ad una lezione di yoga in uno spazio aperto a piedi nudi, in un posto che non conoscevo e con persone estranee (il tutto fonte di grande ansia per me perché rappresentava diverse minacce). Accogliere tutta quella paura, disgusto e ansia mi è servito: è stata la prima volta in cui mi sono sentita libera! Avevo spezzato la catena! Ero stata libera di scegliere, di assecondare la mia volontà nel partecipare a qualcosa che desideravo e di cui il DOC, invece, voleva privarmi.

Ricordo di essere tornata a casa stanchissima quella sera, ma felice: avevo scelto di correre il rischio e con mia sorpresa ci ero riuscita! Solo una prima dimostrazione di quanto potere io avessi di seguire ciò che volevo per me, anziché subire quello che mi veniva imposto dal DOC. Da lì non ho più smesso di scegliere; ho fatto altri piccoli grandi passi, finalmente consapevole di avere forza nelle mie gambe.

Oggi la mia vita è pressoché “normale”; sto imparando che non sono responsabile di ogni cosa che, nel bene e nel male, mi accade. Sto imparando che la vita è fatta di coincidenze e di occasioni che creano momenti, belli e brutti, e vanno vissuti tutti. Non voglio privarmi di vivere per la paura di contaminarmi o compromettere in qualche modo la mia salute e integrità. Chiudermi in casa spendendo il mio tempo a proteggermi, pulendo e mettendo in atto altre compulsioni, non aveva nulla a che fare con la vita. Io posso avere delle responsabilità ma non posso controllare, prevedere o fare una stima esatta di tutto ciò che mi sta intorno; questo ora lo accetto. Più di tutto sto imparando giorno per giorno a concedermi la libertà di sbagliare perché “non ci avevo pensato”.

Se stai leggendo questo articolo e soffri di DOC, chiedi aiuto.

È un consiglio dato da chi ne soffriva in forma molto grave e oggi invece riesce a vivere.

Conosco a cosa si va incontro. Conosco quanto ti possa sembrare impossibile, quanta ansia ti assale al solo pensiero di non ascoltare quella voce ma credimi ne vale la pena. Meglio soffrire per conquistarsi la vita che vivere in una spirale di sofferenza.

Al di là della paura c’è un mondo di esperienze che puoi fare, di possibilità, di cose che puoi toccare. Scegliendo, si diventa più forti. Spero che queste parole, frutto di tanta strada, ti siano d’aiuto.

 

Foto di Nataliya Vaitkevich: https://www.pexels.com/it-it/foto/resto-cambiamento-possibilita-chance-6120219/

Quando una storia può aiutare a cambiare

di Francesca Romani e Giordana Ercolani

Ogni individuo nel corso della propria storia di vita può attraversare situazioni in grado di contribuire alla costruzione di credenze e regole su sé stesso e su gli altri. Questo processo inizia fin da bambini. Infatti è proprio nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza che le esperienze quotidiane con i genitori, prima, e successivamente con i compagni ed altri adulti significativi (es. familiari, insegnanti, allenatori etc.) sono in grado di suggerire una versione del mondo che con il tempo potrebbe irrigidirsi e diventare la sola “lente” con cui leggere gli eventi, le persone e sé stessi. Dunque quando questa “lente” si è costruita sulla base di esperienze accompagnate, ad esempio, da sensazioni di intensa frustrazione, critica, inadeguatezza, rifiuto o esclusione con conseguenti emozioni di rabbia, senso di colpa, ansia o tristezza, la sofferenza emotiva segue, solitamente, una traiettoria negativa che può condurre a profili psicopatologici più o meno precoci.

Nella psicoterapia Cognitivo-comportamentale (CBT) è consuetudine affrontare con il paziente proprio questo sistema di regole e credenze che caratterizza tipicamente il suo funzionamento psicologico, dedicando maggiore attenzione a quelle responsabili della sofferenza.

L’obiettivo è quello di ridurne la rigidità, favorire una defocalizzazione dall’ipotesi peggiore e affiancarvi punti di vista alternativi (Buonanno, Gragnani, 2021) con un successivo incremento della flessibilità psicologica responsabile di più alti livelli di benessere. Anche negli interventi con bambini e ragazzi si procede allo stesso modo; sebbene la giovane età può far credere che tale sistema non sia poi così disfunzionale, è esperienza comune per i terapeuti dell’età evolutiva imbattersi in idee già estremamente rigide e pervasive, inserite in quadri di sofferenza emotiva già ben strutturati.

In CBT tale processo di ampliamento del punto di vista e disponibilità a considerare una versione differente delle cose riguardanti se stessi e gli altri, prende il nome di ristrutturazione cognitiva.

Tante sono le tecniche e gli strumenti in grado di favorirla e tra questi si trovano anche le favole per bambini. Riprendendo l’esempio della “lente” usato poco fa, potremmo dire che una storia ha il potere di ridurne l’utilizzo e alimentare l’assunzione di una nuova prospettiva da cui guardarsi intorno per poi trarre conclusioni. Di fatto, nel caso delle favole, grazie al processo di identificazione con le situazioni e i personaggi, è possibile prima di tutto normalizzare la propria sofferenza; sapere infatti che anche altri soffrono come soffriamo noi ci fa sentire meno soli. Altresì la lettura di una storia, anche se di fantasia, può offrire la possibilità di rintracciare nelle vicende altrui, temi di sofferenza simili ai propri e avere così la possibilità di prendere in esame delle alternative che prima di allora non si erano considerate.

Pertanto, da un’esigenza clinica di questo tipo nasce la storia de “Il cappello Matteo” che siamo qui a condividere affinché possa essere di aiuto non solo al bambino per cui è stata scritta ma anche a tutti quelli che come lui, dopo una delusione, si sono ritrovati a pensare di non essere abbastanza di valore per ottenere l’affetto e la vicinanza degli altri, decidendo così di isolarsi e rinunciarvi per sempre.

 

Il cappello Matteo: clicca qui per scaricare la storia completa in formato pdf

Illustrazione di @disegniperlasalutementale

 

Riferimenti bibliografici
Buonanno C., Gragnani A. (2021). Le tecniche di ristrutturazione cognitiva. In: Perdighe C., Gragnani A. (a cura di) (2021). Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Prevenire la sofferenza in età evolutiva

di Giordana Ercolani

Nuove prospettive e linee di intervento al Congresso Intermedio SITCC 2022      

Metti una società scientifica e professionale con oltre 2000 soci che si occupano di psichiatria, neuropsichiatria infantile, psicologia clinica e psicoterapia. Una tradizione di quasi 40 anni di lavoro dedicato all’approfondimento di aspetti teorici, clinici e applicativi nell’approccio cognitivo comportamentale. Un gruppo di colleghi che in questa società scientifica esprimono il loro particolare interesse sulla psicoterapia dell’età evolutiva.
Aggiungi un programma scientifico ricchissimo, che in tre giornate ha offerto: tre workshop dal taglio pratico su modelli specifici di intervento in età evolutiva; due tavole rotonde sul tema dei disturbi specifici dell’apprendimento e dei disturbi di personalità, in un’ottica di sviluppo e nell’arco di vita; la main relation del prof. Steven C. Hayes, ideatore e co-sviluppatore dell’Acceptance and Commitment Therapy; sei simposi paralleli in cui sono stati presentati lavori clinici e di ricerca relativi all’applicazione della terapia cognitivo comportamentale (CBT) in età evolutiva.

Infine, immagina la tanta voglia di stare insieme e di confrontarsi dopo un lungo periodo di pandemia e la location suggestiva di una città sul mare come quella di Ancona: il risultato è senza dubbio un’esperienza positiva. Così è stato il Congresso Intermedio SITCC 2022 intitolato “La terapia Cognitivo Comportamentale in età evolutiva: nuove prospettive e linee di intervento”.

Grazie al lavoro svolto dal comitato scientifico, rappresentato dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva APC-SPC e la Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva SBPC, per tutti i soci è stato possibile partecipare al primo congresso SITCC dedicato interamente all’età evolutiva. L’imbarazzo della scelta sui panel da seguire è stato costante, ma al tempo stesso l’indecisione è stata piacevolmente modulata dalla soddisfazione nel vedere così tanti terapeuti distribuiti nelle aule e dalla possibilità di confrontarsi con colleghi che avevano seguito simposi diversi dai propri. Sono stati, infatti, davvero tantissimi gli spunti di riflessione da cogliere durante le tre giornate di lavoro, nella comune convinzione che, grazie a una vincente integrazione tra scienza, pratica clinica e creatività, sia possibile intervenire nel percorso di vita dei nostri giovani pazienti prima che diventino degli adulti sofferenti. A partire dalla giornata di workshop, si è potuto sperimentare, ad esempio, quanto con la Theraplay si possa avere accesso al mondo interno di bambini e adolescenti con attività che apparentemente sembrano “solo” ludiche. Ciò avvalora ulteriormente quanto una puntuale rappresentazione del funzionamento del paziente nella mente del suo terapeuta, unita a un razionale strategico che ne tenga conto, siano elementi fondamentali in grado di trasformare una “semplice” pratica di confronto giocoso in una preziosa occasione di consapevolezza, elaborazione della sofferenza e cambiamento. Allo stesso modo, proseguendo con i simposi e le tavole rotonde, è stato possibile constatare, a conferma di quanto già riscontrabile nella pratica clinica quotidiana, come quei bambini e ragazzi che fin dai primi anni di vita si trovano costretti a confrontarsi con una vulnerabilità neuropsicologica crescano costruendo una immagine di sé stessi e del mondo attorno strettamente vincolata a esperienze di svantaggio in molti domini di vita. Il risultato è una marcata ricaduta negativa sull’immagine di sé e sulle relazioni interpersonali, spesso origine di sofferenza psichica che, se trascurata o considerata solo marginalmente, li porterà con grande probabilità ad essere degli adulti ancor più problematici. Riassumere tutto in poche righe è davvero un’impresa impossibile, non resta che aspettare il prossimo congresso organizzato dai colleghi dell’area di Interesse sulla Psicoterapia dell’Età Evolutiva e parteciparvi, così da essere ancora più numerosi e alimentare uno scambio scientifico sempre più stimolante.

Foto di Artem Podrez:
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Non posso, non devo, non voglio…

 

Il rapporto tra scopi e anti-scopi nella genesi della sofferenza psicologica

Nel corso della terapia il Sig. S. si esprime sempre con frasi che specificano bene come dovrebbe e non dovrebbe essere: “Non voglio essere dipendente da nessuno, non voglio essere debole, non voglio essere un fallito, non voglio somigliare ai miei genitori, voglio essere amato e sostenuto”. Per evitare il realizzarsi di questi scenari temuti S. riferisce di impegnarsi molto sul lavoro, di sacrificarsi e controllare i suoi pensieri e comportamenti. Tuttavia tali strategie sembrano causargli disagio, ansia generalizzata e preoccupazioni ipocondriache sino a farlo sentire proprio come suo padre che descrive come spento, solo e fallito.
Proprio come il nostro Sig. S. ogni altro individuo rappresenta se stesso e il mondo che lo circonda secondo strutture di significato definite “credenze” e orienta naturalmente i propri processi cognitivi e le proprie condotte sulla base di stati desiderati, definiti invece “scopi”, la cui soddisfazione potrà avvenire attraverso una modificazione della realtà, al fine di renderla il più possibile aderente a ciò che ci si è idealmente rappresentati oppure con la prevenzione di ciò che si teme maggiormente. In altre parole, ciò che perseguiamo, per cui ci battiamo, e che governa e dirige l’attenzione, la memoria e più in generale il pensiero, oltre che i comportamenti, ricopre un ruolo fondamentale nel funzionamento psicologico di ciascuno. Negli anni, la teorizzazione di tale concetto (scopo) è stata centrale e dibattuta dalle diverse discipline e correnti psicologiche.
Alcuni sottolineano la presenza di scopi evolutivi e innati, altri parlano di scopi esistenziali; il cognitivismo approfondisce il rapporto fra scopi-credenze e sofferenza psicologica, evidenziando la differenza fra scopi strumentali e scopi terminali.
Il cognitivismo, in ogni caso, definisce il ruolo degli scopi come un elemento fondamentale dell’organizzazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’individuo. Infatti, proprio in relazione a gli scopi, il cognitivismo spiega come la sofferenza psicologica sia supportata dalla presenza di convinzioni automatiche negative, rigide e assolutistiche, su se stessi, su gli altri e sul mondo, che possono minacciare o compromettere tali scopi in modo più o meno definitivo.
L’esperienza quotidiana di ciascuno ci suggerisce, e la letteratura scientifica lo conferma, che uno scopo compromesso o minacciato sarà fonte di sofferenza psichica la cui intensità solitamente è direttamente proporzionale sia a quanto lo scopo è nucleare nel funzionamento della persona, sia a quanto questo scopo venga investito, o ancor più iper-investito, in termini di valore conferito e dispendio di energie impiegate per perseguirlo. Francesco Mancini e Claudia Perdighe in un interessante articolo forniscono una chiara spiegazione di cosa si intenda per compromissione e minaccia di uno scopo. Nel dettaglio gli autori intendono per compromissione “una rappresentazione della realtà diversa dallo stato desiderato, ove lo stato desiderato è la rappresentazione del mondo verso cui tendere” e per minaccia “una rappresentazione di un evento al quale si attribuisce o del quale si riconosce il potere di compromettere uno o più scopi personali”.
Talvolta, però, si formulano desideri, aspirazioni (e con questi altresì credenze e regole) anche al negativo: “Non posso/voglio essere debole, non voglio essere dipendente e bisognoso, non voglio essere come mia madre, non devo arrabbiarmi. Un simile stato mentale, in cui ci diciamo quello che mai vorremmo essere (anti-scopo), sembra giocare un ruolo cruciale nella genesi e nell’accrescimento del dolore emotivo”.
Da questa prospettiva è evidente quale rilevante ruolo abbiano le credenze che si intrattengono in merito a scopi e anti-scopi. Dunque, cosa avviene quando ci prefiguriamo nella mente gli scopi al contrario, ovvero formulando le aspirazioni al negativo e anticipando scenari temuti?
Cosa significa per l’individuo “non posso essere debole, non devo essere bisognoso o non posso essere arrabbiato”? Quali emozioni vengono esperite e come sono gestite? Dunque, inseguire o fuggire?
Talvolta potrebbe essere proprio il focus sullo scopo VS anti-scopo a determinare differenze individuali che a loro volta generano uno stato mentale orientato al perseguimento o alla fuga.
 Roberto Lorenzini spiega, infatti, come al mondo del perseguimento si affianchi quello della fuga motivata dall’anticipazione dello scenario temuto e dalla prevenzione del rischio che esso si verifichi. In questo caso non saremmo, dunque, guidati dalla spinta verso il raggiungimento del risultato bensì dalla prevenzione o dall’evitamento del fallimento. Seguendo questa concettualizzazione, si potrebbero pertanto delineare due configurazioni dissimili rispetto all’attenzione rivolta verso gli scopi o gli anti-scopi e le loro diverse declinazioni nei diversi profili di sofferenza e psicopatologia.
Per fare un esempio, quanto è saliente nel Sig. S. la relazione tra lo scopo dell’essere amabile/accudito/riconosciuto e lo scopo di essere debole vs forte?
Nell’ottica di questa concettualizzazione, infatti, ci si imbatte spesso in progetti di vita, il più delle volte inconsapevoli, in cui non ci si impegna tanto a perseguire ciò che effettivamente renderebbe più serena l’esistenza, quindi verso scopi raggiungibili, bensì si impiegano consistenti dosi di energie per evitare i loro antagonisti – gli antiscopi, sacrificando cosi preziose opportunità pur di aggirare scenari catastrofici altamente temuti.
Si innesca, dunque, uno stato mentale orientato alla prevenzione e finalizzato a sorvegliare l’investimento su scopi ed anti-scopi in modo trasversale: ad esempio nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, a prescindere dal posizionamento di scopi e antiscopi (essere moralmente integro/degno, essere non colpevole/non sporco) il funzionamento del disturbo sembra risiedere in un atteggiamento iper-prudenziale secondo il quale non è contemplata, in nessuna misura, la possibilità di esporsi anche ad un piccola quota di rischio.
In virtù di quanto esposto, identificare i propri scopi e anti-scopi permette da un lato di fare luce sulla loro origine e sul loro significato, dall’altro di individuare le credenze che vi si legano, le emozioni esperite e i comportamenti più o meno problematici messi in atto per promuoverli o tutelarli. Nel caso del Sig. S. potrebbe essere proprio il conflitto fra le due posizioni (atteggiamento promozionale/atteggiamento di prevenzione) a generare sofferenza. Ad esempio il suo iniziale approccio di tipo promozionale “essere forte, affermato, autonomo, allegro, soddisfatto” cede difronte ad un evento di vita spiacevole (condizione medica transitoria) portandolo a sviluppare un atteggiamento di tipo preventivo (di inibizione ed evitamento) in risposta alla minaccia di scopi per lui nucleari di appartenenza, autonomia ed amabilità, compromessi dalla condizione di malattia (debole/malato=non amabile e solo).
Pertanto, nel corso del trattamento, è stato utile riflettere sui costi dei suoi comportamenti di controllo e sul senso del suo iper investimento portandolo così, nel tempo, a ristrutturare le credenze “non voglio essere debole” sino ad accettare il rischio di poter esperire sofferenza e quindi debolezza e vulnerabilità senza per questo rinunciare alla piacevolezza dell’esistenza.
Concludendo, tracciare una mappatura di scopi e anti–scopi si mostra funzionale a svelare velocemente i temi centrali della persona, il loro grado di soddisfazione/compromissione e le determinanti cognitive e comportamentali correlate; il tutto con l’intento di conoscere la provenienza e il funzionamento della sofferenza psicologica al fine ultimo di sviluppare un percorso di psicoterapia capace di promuovere un processo di ristrutturazione e cambiamento.

Per approfondimenti

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre?
il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.