Sentirsi al sicuro

di Sabrina Bisogno

Cosa accade quando si ha la percezione di un pericolo imminente

Durante la manifestazione di apertura dell’ultimo congresso della Società Italiana di Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva, uno dei chair ha affermato: “In condizioni di sicurezza, ci assomigliamo un po’ tutti”.

Lo psicologo e psicanalista Peter Fonagy, professore alla University College di Londra e ospite del congresso, ha ricordato il vissuto di profonda alienazione sperimentato quando, profugo ungherese, si è ritrovato in Inghilterra e, per far fronte al proprio malessere, ha intrapreso un percorso di cura. Ha quindi sottolineato quanto sia potenzialmente danneggiabile lo “strato epidermico” che ci protegge dalla malattia mentale e come sentirsi al sicuro sia un fattore protettivo per la psiche.

Ma cosa vuol dire sentirsi in pericolo?

Possiamo affermare che ciascun essere umano ha un personale impianto di sorveglianza, ossia il sistema nervoso autonomo, che è pronto a rilevare segnali di pericolo grazie alla “neurocezione”: ciò che sente istintivamente il corpo.

Quando viene rilevato un pericolo, l’attivazione del sistema nervoso simpatico permette strategie di difesa, di attacco o fuga. E quando non si è in grado né di lottare né di fuggire, il tratto dorso vagale della branca parasimpatica permette la sopravvivenza attraverso l’immobilizzazione.

Questo è ciò che accade a ciascun essere umano di fronte ad un pericolo reale e oggettivo, come ad esempio la comparsa improvvisa di un animale minaccioso.

Tuttavia è interessante tener presente che questo accade anche di fronte a pericoli meno oggettivi ma ugualmente percepiti come significativi e imminenti, come ad esempio la minaccia di un rifiuto, di un abbandono o di una umiliazione: quando dunque il pericolo non è fuori ma è legato ai contenuti mentali e a come ci si sente in specifiche situazioni.

Quando invece ci si percepisce in una condizione di sicurezza, queste strategie di auto-protezione sono depotenziate, silenti, e a essere attivo è il tratto ventro vagale della branca parasimpatica. Quando ci si sente al sicuro, quindi, il sistema nervoso autonomo non è impegnato nel reclutare energie per difendersi e ci si sente calmi.

In una condizione di pericolo percepito, tutte le energie sono investite nella difesa e non c’è spazio per l’apprendimento sociale. Manca quella sufficiente sensazione di fiducia che permette la sperimentazione, il cambiamento, la costruzione di relazioni, l’intimità.

Ricordare quindi che il cervello umano funziona nello stesso identico modo sia che si tratti di un pericolo oggettivo e facilmente riconoscibile (animale minaccioso) sia che si tratti di un pericolo soggettivo (paura di restare soli, di essere rifiutati, etc.) aiuta a comprendere come mai si sperimenti la sensazione di non essere “lucidi” o in grado di gestire le  proprie reazioni di fronte ad alcuni stimoli specifici.

Nel momento in cui viene percepito il pericolo, anche se non a un livello di piena consapevolezza, il sistema nervoso autonomo disattiva le funzioni superiori non necessarie e attiva quelle primitive volte alla sopravvivenza. Se si avverte ad esempio il rischio di essere abbandonati, si ha quindi la sensazione di poter non sopravvivere e si agisce al fine di salvarsi.

E allora ci si ritrova, spesso senza neppure sentirsi pienamente al comando, ad attaccare o fuggire o bloccarsi.

Questi presupposti teorici hanno un significativo impatto sui modelli operativi di coloro che a più livelli si occupano di salute mentale, perché chiariscono quanto possa essere essenziale implementare lo stato di sicurezza e aiutano a comprendere come mai l’essere umano si mostri resistente al cambiamento. I comportamenti umani, infatti, se pur disfunzionali, rappresentano spesso l’istintivo tentativo di sopravvivenza e quando si è impegnati a sopravvivere emotivamente, non c’è spazio per nessuna riflessione o azione di buon senso.

Una maggiore consapevolezza di sé e dei propri personali segnali di minaccia aiuta a modulare e padroneggiare meglio i comportamenti.

Foto di MART PRODUCTION da Pexels

Il tempo del bene perduto

 

di  Alessandra Lupo

Noi non apprezziamo il valore di ciò che abbiamo mentre lo godiamo; ma quando ci manca o lo abbiamo perduto, allora ne spremiamo il valore. William Shakespeare

Stiamo vivendo tempi di grande paura e incertezza. Tutti ci sentiamo in costante minaccia di un nemico invisibile. Le emozioni che fanno da padrone in questa battaglia epidemiologica sono sostanzialmente la paura, la noia, la rabbia e la tristezza per aver perso buona parte delle nostre abitudini quotidiane. Ci sentiamo in trappola, dobbiamo convivere con la riduzione degli spazi vitali, con la rinuncia di situazioni sociali che prima “anestetizzavano” un po’ il nostro vivere.

Ma cosa succede ora che abbiamo dovuto fermarci?

Tutti cerchiamo, nel nostro piccolo, di mantenerci in costante movimento, aumentando tutte le azioni individuali e sociali, cercando di scandire il tempo che dobbiamo forzatamente vivere nelle nostre mura domestiche.

Sono in costante aumento i contatti attraverso i social e le videochiamate. Skype, Whatsapp e altre applicazioni sembrano essere diventate l’unico tratto d’unione verso il mondo esterno. Sui nostri balconi si organizzano flashmob, si canta l’inno d’Italia tutti insieme e si aspetta l’ora d’aria per fare la spesa e organizzarsi per uscite di prima necessità.

Tutto questo può bastare a farci stare bene?

Il senso di vuoto, di noia, nonostante le molteplici attività che cerchiamo di attivare, sembra un placebo a basso dosaggio, in quanto rimanere a contatto con noi stessi aumenta i pensieri e le riflessioni che forse solo in punta di morte ci si ritroverebbe a fare. Può succedere di rimuginare sulla propria vita, sulle occasioni perse, sulle mancanze, sui nostri wish/desideri che ora, come non mai, diventano sempre più intensi e visti come irraggiungibili.

È molto facile cadere nella tristezza e nella disperazione. La tristezza è, infatti, quell’emozione di base che si attiva nel momento in cui stiamo sperimentando una condizione di perdita di un bene che consideriamo importante. La perdita può riguardare beni affettivi, beni materiali, ma anche beni astratti, come la libertà. Entrare in uno scenario di perdita può avvicinarci alla soglia psicopatologica della depressione, spesso correlata alla sensazione di deprivazione, e alla percezione di aver subito un danno ingiusto e irreparabile, con la compromissione di uno scopo cruciale. La reazione depressiva ha due caratteristiche fondamentali: il dolore per la perdita e la riduzione delle attività, che a sua volta rimanda al pessimismo e alla anedonia.

Questa quarantena ha scattato una fotografia di quello che abbiamo, mettendo in evidenza le mancanze, enfatizzando la condizione esistenziale di ognuno di noi.

Quello che possiamo fare in questo tempo di pausa dalla nostra routine è verificare quali sono i nostri bisogni emotivi, individuarli e promuovere delle azioni che ci portino verso il raggiungimento di essi.

Per approfondimenti
Rainone, A., Mancini, F. (2018). La mente depressa. Comprendere e curare la depressione con la psicoterapia cognitiva. Franco Angeli Editore

 

#andratuttobene

di Emanuela Pidri

Il Coronavirus e il contagio emotivo

L’attuale emergenza sanitaria fa emergere la nostra parte più emotiva, considerata come incontrollabile e disfunzionale quando, tuttavia, può rappresentare una risorsa vantaggiosa. Gli esseri umani, pur sforzandosi di essere razionali, infatti, sono profondamente emotivi. Le emozioni sono fondamentali per il funzionamento dell’uomo, sono delle scorciatoie che servono a combinare insieme pensieri, comportamenti, reazioni e sistemi corporei autonomi. La mente umana procede per assimilazione: ciò che è nuovo viene valutato per quanto assomiglia a qualcosa che si conosce ma ciò che si vede ora non assomiglia a nulla che si è già vissuto. Viene richiesto giornalmente di effettuare un esame di realtà attendibile. Ognuno prova paura per il Coronavirus, paura che protegge ma che può trasformarsi in angoscia perché è un nemico invisibile, incontrollabile, imprevedibile. Si sperimenta panico o ansia generalizzata poiché tutte le situazioni vengono percepite come rischiose; ansia anticipatoria poiché l’organismo reagisce prima che il fatto si manifesti; ipocondria, percependo ogni minimo sintomo come un segnale di infezione da Coronavirus; solitudine e isolamento, dato dalle restrizioni sociali e affettive. Irritabilità, insonnia, attacchi di panico possono amplificare lo stress di questa fase di emergenza. Il personale sanitario, incluso il personale che opera in RSA, non sempre pronto a fronteggiare emergenze di tale entità e di cui poco si parla, si espone al pericolo, con un atto di coraggio, per il bene comune. Sperimenta accanto a questi vissuti emotivi un forte senso di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri e ogni giorno trova in sé forte motivazione. I professionisti d’aiuto che prestano la loro opera negli scenari di emergenza possono subire gli effetti negativi dello stress conseguente alla frequente e ripetuta esposizione a eventi psicologicamente impegnativi. Per evitare di incorrere in disturbi come quello post traumatico da stress, il burnout o la somatizzazione sul fisico, è importante applicare strategie personalizzate e individuali per gestire questo stress (de-briefing, supporto psicologico). Il limite fra una funzionale attivazione (eustress o stress positivo) e un eccesso di allerta con comportamenti poco lucidi e controproducenti (distress o stress negativo) è sottile. Le strategie di adattamento possono essere incentrate sull’emozione o sul problema. Nel primo caso, esse cercano di migliorare lo stato d’animo della persona, diminuendo lo stress emotivo da essa provato; nel secondo, esse mirano invece a gestire il problema che è causa di dolore.
È importante: capire chi sta controllando cosa; occuparsi con serietà del problema seguendo i protocolli; informarsi da fonti attendibili; rimanere ancorati alla realtà; creare reti di supporto parentali e amicali virtuali. Lo stress gioca un ruolo importante nell’abbassamento delle difese immunitarie: è importante gestirlo, ad esempio attraverso la Mindfulness. La pratica meditativa: riduce l’infiammazione cellulare e i livelli di cortisolo nel sangue; incrementa l’attenzione, la memoria e la capacità di concentrazione; aiuta l’organismo a rallentare il battito cardiaco e a raggiungere un buon equilibrio cardiovascolare; permette di gestire al meglio la rabbia e le altre emozioni negative, con ricaduta benefica sia sulle relazioni sia sulle prestazioni professionali; aumenta la soglia di attenzione e la capacità di prendere decisioni; aiuta a sviluppare la corteccia prefrontale sinistra che dà padronanza su sé stessi e permette di risolvere più facilmente i problemi. Ognuno può costruirsi uno spazio mentale di resistenza di fronte al contagio emotivo della paura o del dolore creando una riserva di emozioni positive in grado di aiutarci. La capacità di riconoscere e affrontare lo stress lavorativo è una competenza strategica per tutti i professionisti della salute. Un atteggiamento psicologico valido può aiutare non solo chi lo attua ma anche gli altri, innescando un circuito virtuoso, e aumentando la resilienza dei singoli, della famiglia, della comunità.

 

Per approfondimenti

Cantelli G. (2008) Lo stress nell’operatore dell’emergenza. Emergency oggi; 6

Cudmore J. (2006) Preventing Post traumatic stress disorder in accident and emergency nursing (a review of the literature). Nursing in Critical Care; 1

American Psychiatric Association (2013). DSM-5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Laposa J.M., Alden L.E., Fullerton L.M. (2013) Work stress and posttraumatic stress disorder in ED nurses/personnel (CE). Journal of Emergency Nursing; 29

Monti M. Lo stress acuto negli operatori d’emergenza e sue complicanze. Descrizione e criteri di intervento nel personale. Relazione convegno AISACE, 2011

Coronavirus: la pandemia della paura

di Ornella Natullo

Non sapere più a chi credere può spaventare più di una malattia

Ai tempi dei miei genitori, quando la televisione forniva delle informazioni, tutti la ritenevano “fonte attendibile e sicura”, pertanto, pure di fronte a notizie nefaste, loro si sentivano al sicuro, protetti e guidati. Ai tempi nostri, al contrario, siamo tutti diffidenti: abbiamo scoperto troppi inganni, intrighi internazionali, sono nate e diffuse teorie complottistiche sotto l’egida di scoperte “sensazionali”, vediamo i nostri “punti di riferimento” politici ed economici cambiare direzione a seconda di interessi a noi più o meno noti… Insomma, non ci fidiamo più di nessuno!

Inoltre, siamo sommersi, differentemente dal passato, da informazioni provenienti da centinaia di fonti: TV, radio, internet, giornali cartacei e online, opinionisti, social, WhatsApp… Migliaia di informazioni tra cui è difficilissimo districarsi e che ci fanno sentire persi. La nostra mente, infatti, non è in grado di sopportare una tale quantità di informazioni contemporaneamente; la memoria a breve termine, o memoria di lavoro, può contenere ogni istante solo alcune informazioni e le seleziona per un processo di elaborazione solo se tali informazioni risultano essere “coerenti” rispetto agli scopi che in quel preciso momento stanno predominando nella singola persona. Per questo motivo, quando una informazione compromette lo “scopo di sicurezza” dell’individuo, quindi è una informazione che presenta un potenziale rischio che si sta correndo, la nostra mente comincia a funzionare seguendo un semplice principio dettato dall’istinto di sopravvivenza: inizia a lavorare secondo il principio Better safe than sorry, ovvero combatte alacremente per risolvere il dubbio che sia possibile o meno scartare l’ipotesi peggiore (in questo caso, poter morire o far morire qualcuno per il contagio da Coronavirus). Quindi si scartano le informazioni più ottimistiche a favore di quelle maggiormente pessimistiche. Purtroppo, però, per quanti sforzi la nostra mente possa fare per eludere l’ipotesi catastrofica, ci sarà sempre qualche elemento, dettaglio, informazione nuova o ragionamento che porterà a non risolvere il dubbio, poichè non esiste in natura la possibilità di portare a zero la probabilità di un evento, resterà sempre una quota di rischio incontrollata. Questa spirale cognitiva produce ansia, angoscia, terrore!

Ho fatto un esperimento giorni fa in una chat di WhatsApp che comprende centinaia di persone (non me ne vogliano le cavie): ho inoltrato un messaggio vocale con all’interno una ipotesi complottista sul Coronavirus. Le reazioni sono state di fastidio (“Un’altra informazione da processare, oh no!”), di rifiuto (“Dimmi se la fonte è attendibile sennò questa informazione la elimino”), di scherno (usare la satira è una delle strategie per distanziarsi da qualcosa che ci infastidisce)… Insomma, non ce la facciamo più! Stiamo praticamente cedendo di fronte alla sovrabbondanza di stimoli a cui siamo sottoposti.

Quindi che succede quando dobbiamo decidere a cosa credere?

Ci sono almeno due processi da considerare.

Il primo: ricorriamo alla formula più comune (“Se stanno chiudendo le scuole ecc. allora vuol dire che…”) e ognuno sceglie la propria conclusione allarmistica o menefreghista che sia. Anche questo ragionamento è parte di un corredo comune di euristiche del ragionamento umano: il Behaviour as input è quel tipico ragionamento che parte dall’osservazione di un comportamento (in questo caso: stanno chiudendo i luoghi di incontro collettivo) per renderlo la prova di un effettivo pericolo, per cui quel comportamento viene inteso come un tentativo di prevenire quella minaccia (morire per contagio da Coronavirus).

Il secondo: di fronte a una tale quantità di informazioni discordanti o semplicemente abbondanti, ci comportiamo come Pascal che ragionava sull’esistenza di Dio; come decidere se crederci o meno? Il ragionamento di Pascal consisteva nel fatto che, non avendo prove né della sua esistenza né della sua non esistenza, non gli restava che scommettere, e la scommessa può essere valutata sulla base dei rischi che si corrono. Se credo in Dio e mi sbagliassi, potrei rischiare di aver limitato la mia vita terrena, facendo sacrifici in nome della religione; se non credo in Dio e mi sbagliassi, vivrei liberamente ma il costo sarebbe più elevato poichè patirò le pene dell’Inferno per la vita dissoluta condotta. Così tendiamo a dare credito alle ipotesi più improbabili, talvolta implausibili, perchè si teme di sottovalutare una minaccia consapevolmente, cosa che induce a una elevata quota di senso di colpa.

Riconoscere, infine, di essere vittima di una condizione di insicurezza, dovuta ai fattori di cui sopra, aiuterebbe a non farsi travolgere dalle proprie emozioni ed a ripristinare una modalità di valutazione degli eventi più scientifica e oggettiva. Il senso di sicurezza, infatti, può maggiormente essere garantito se alleniamo la nostra mente a produrre “pensieri utili” e funzionali, ovvero correggere gli errori di ragionamento, che inducono paura e terrore anche quando la realtà oggettiva dei fatti non dimostra che ciò che pensiamo sia vero in quel momento.

Dobbiamo, in sostanza, imparare a essere legati alla “realtà oggettiva dei fatti”: sapere cosa è il Coronavirus, come non contagiarsi o trasmetterlo ad altri, seguire le regole igieniche “normali” ricordate da tutti, ed essere fiduciosi che tutto andrà bene. Sebbene non si possa escludere l’ipotesi peggiore, accettare infine che nessuno possa evitare che questo accada e quindi quanto possa essere disfunzionale, per la propria vita, spendere del tempo e tante energie nel tentativo di prevenire un evento che non dipende da noi.

Per approfondimenti

Gangemi A., Mancini F. e van den Hout M.A. (2007),”Feeling guilty as a source of information about threat and perfomance”. In Behaviour Research and Therapy, 45, pp. 2387-2396.

Mancini F. (a cura di), (2016), “La mente ossessiva”, Raffaello Cortina Editore

Lopatcka C., Rachman S. (1995), “Perceived responsibility and compulsive checking: An experimental analysis”. In Behavioural Reserarch and Therapy, 33, pp. 673-684.

Van den Hout M.A., Gangemi A., Mancini F., Engelhard I.E., Rijkeboer M.M., van Dams M., Klugeist I. (2014), “Behavior as information about threat in anxiety disorders: A comparison of patients with anxiety disorders and non-anxious controls”. In Journal of Behavoir Therapy and Experimental Psychiatry, 45, pp.489-495.

 

Il bene pubblico e il male nascosto

di Roberto Petrini

Quando la paura si trasforma in aggressività e l’altro diviene un rivale

La paura è il più grande inibitore del comportamento altruistico e orienta le condotte verso la violenza. Questo sentimento, che orienta i processi di valutazione e di decisione, è sfruttato ad arte da chi vuole ottenere dalla massa un certo tipo di comportamento. Si accresce, con i mass media, una specifica paura, per poi far accettare una soluzione predeterminata; è noto che si accetta più facilmente una riduzione della propria libertà per avere in cambio una maggiore sensazione di sicurezza.

In situazione percepite come incerte e urgenti, si cerca di agire velocemente anche a discapito della completezza d’informazioni, la ragione passa in secondo piano, la paura si trasforma in aggressività, l’altro diviene un rivale.

Arriviamo a convincerci che il male certo è preferibile a un bene incerto, un bene che qualora non si realizzasse, porterebbe a un dolore superiore rispetto alla prospettiva conosciuta di un male noto.

Se un comportamento perdura attraverso le epoche geologiche, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria.

Negli animali l’aggressività ha la funzione di selezionare i migliori, gli consente di riprodursi di più, di regolare la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. I contendenti, nell’aggressività ritualizzata, convengono però nel non superare certi limiti: il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura sembra però quello più vicino a noi, cioè la scimmia, e come l’uomo ha poca pietà per i suoi simili.

Nelle situazioni conflittuali prevalgono egoismo e paura e, di norma, diminuiscono fiducia e altruismo; ma anche se sottoposti a condizioni che incutono paura, esiste sempre la possibilità di fare una scelta di libertà e andare oltre se stessi verso qualcuno da amare, verso un compito da compiere. L’altruismo prospera in un clima di fiducia e stima. La cooperazione non è mai stabile ed è influenzata dall’immagine che l’altro ha di noi, di quella parte che spesso non accettiamo né vediamo.

Quando sono in gioco risorse comuni, ognuno deve fare la propria parte per salvare il mondo, il bene ha una dimensione pubblica, il male deve rimanere nascosto: se è reso noto, esso non può non essere perseguito.

In tempi brevi l’egoismo sembra pagare, poiché si affianca bene all’atteggiamento indolente dove si ottiene il massimo con il minimo sforzo.

Il tempo fugge: dimostriamo e impieghiamo il nostro potere di bene senza rimandare, più la vita è sprecata e povera più è alta l’angoscia di morte.

Fare del bene offre vantaggi anche al donatore, aumenta la percezione di sicurezza, inibisce i sensi di colpa, fa superare i sentimenti d’invidia, dà ottimismo.

L’altruista ha un potere e intende usarlo, si percepisce come efficace nell’affrontare e portare a termine un compito specifico; rifiutarsi di agire significa, per lui, collaborare con situazioni che in fondo condanna.

L’altruismo ha bisogno di essere educato e non può essere ingenuo! L’idealista deve essere realista e disilluso, consapevole delle fragilità umane. Il premio sarà il passare oltre se stessi e dimenticarsi per poi incontrare un significato da realizzare o qualcuno da amare.

Per approfondimenti:

“Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita” di G. Cucci. Cittadella Editrice. 2015

“Logoterapia e analisi esistenziale” di V. Frankl. Editore Morcelliana. 2005

“Non devi avere paura”: imperativi da evitare

di Monica Mercuriu

La paura ha uno scopo protettivo, permette a un bambino di non mettersi in pericolo, di poter pensare prima di agire, lo tutela dal non farsi male

Molto spesso gli adulti, i genitori, e le altre figure di riferimento per i bambini, di fronte ad un evento, che potenzialmente potrebbe intimorire un bambino, sia esso rappresentato da una novità, da una persona, evento o luogo sconosciuti, denotati da caratteristiche minacciose (luoghi bui, essere lasciati da soli con bambini che non si conoscono, partecipare ad una gara sportiva), rivolgendosi al bambino, utilizzano la frase: “Non devi avere paura”.
Sarà mai possibile non avere paura quando tutto il mio corpo, i sensi e i miei pensieri mi fanno percepire un pericolo? E soprattutto: perché un bambino non dovrebbe avere paura in quelle circostanze? Leggi tutto ““Non devi avere paura”: imperativi da evitare”

La paura è un dono della natura

di Roberta Trincas

I timori sono parte del bagaglio biologico di tutti gli esseri umani. È sano accettarli senza vergogna e ridurre il loro potere quando sono sproporzionati rispetto al pericolo

Capita spesso di avere pensieri come: “Non dovrei avere paura” o “Sono un debole se ho paura”. Generalmente le persone tendono a considerare la paura e l’ansia come emozioni negative o vergognose. Tuttavia, ci sono buoni motivi per considerare la paura come naturale e fondamentale per la sopravvivenza, nonostante in alcuni casi possa sembrare irrazionale e inutile. paura_disney
Secondo una prospettiva evoluzionistica, tutte le nostre paure hanno la funzione di favorire la sopravvivenza della specie. All’interno di quest’ottica, lo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale statunitense Robert Leahy offre alcune interessanti osservazioni sulle origini dei nostri disturbi d’ansia nelle condizioni di vita primitive: la paura di un attacco da parte di estranei poteva associarsi a comportamenti adattivi come tenersi lontani dagli stranieri, proteggere il territorio, ricercare vicinanza con la famiglia o la tribù; la paura dei predatori, al contrario, poteva associarsi all’esigenza di evitare gli animali e il buio o di aggregarsi al gruppo per avere protezione. Timori che possono aver aiutato i nostri antenati a evitare esiti dannosi.
Le paure che un tempo potevano essere utili per la sopravvivenza oggi sembrano far parte di alcuni disturbi d’ansia. L’agorafobia – la paura degli spazi aperti -, per esempio, senza dubbio si ricollega al timore di essere attaccati dai predatori durante l’esposizione in spazi aperti. Il disturbo post-traumatico da stress potrebbe avere origine dalla convenienza di tenersi lontani da pericoli già sperimentati nel ruolo di testimone o di vittima. Il disturbo d’ansia generalizzata sembrerebbe essere una versione moderna della lungimiranza: le preoccupazioni delle tribù, infatti, potevano avere il semplice intento di anticipare le calamità e prepararsi ad esse. Leggi tutto “La paura è un dono della natura”