Il tema del giudizio nella fobia sociale e il contributo del movimento Punk – prima parte

di Roberto Petrini e Vittorio Lannutti

Quando una risorsa ci appare necessaria ma limitata, oppure distribuita in modo iniquo tra le parti; se percepiamo segnali di sfida, ma anche quando ci sentiamo giudicati si attiva in noi il sistema motivazione competitivo (Liotti, Monticelli 2008).

Se pensiamo di poter far valere le nostre ragioni potremmo dar vita a una contesa dove potremmo uscirne vincitori e in posizione dominante e provare quindi orgoglio, oppure sottometterci, o rimanere coinvolti in una lotta. Se pensiamo che l’altro abbia maggiori capacità nella contesa ci sembrerà utile sottometterci e allora compariranno collera, paura, ma anche vergogna. (Liotti, Monticelli 2008).

Di sicuro un grande compito di vita in adolescenza è legato al tema della competizione, la meta di questo comportamento è la definizione del rango sociale di colui che si appresta a divenire un adulto (Gilbert 1999).

Il passaggio dalla cura dei genitori al gruppo dei coetanei è fondamentale, ma occorre guadagnarsi il rispetto e la stima che prima erano garantite dai genitori. Nelle relazioni sociali “adulte” chi offre amicizia a alleanza, protezione emette anche dei giudizi sul destinatario di quelli che possono essere anche descritti come “beni sociali”. Le interazioni sociali richiedono una complessa psicologia in un processo dinamico reciproco dove si valutano affidabilità, valore, forza, impegno, e volontà di reciprocare.

Battersi per lo status e il riconoscimento sociale è fondamentale, e quando ci sentiamo inferiori decidiamo di isolarci, e iniziamo a vedere il mondo in chiave pessimistica. Shively 1998 in alcuni studi di laboratorio ha notato che le scimmie che passavano più tempo da sole erano quelle che nella scala gerarchica erano posizionate in fondo.

Se penso di non essere all’altezza e ho timore del giudizio altrui probabilmente mi ritirerò e penserò che visto che mi percepisco così anche gli altri probabilmente ravvisino in me tali problemi. Il tema centrale potrebbe divenire quello di non fare brutta figura e come strategia principale si potrebbe scegliere l’evitamento delle situazioni potenzialmente pericolose.

Competere per l’attenzione, l’accettazione degli altri, per l’affetto, sembra sia l’unico modo per ottenere accettazione sociale. Come suggerisce Nietzsche siamo diventati “delle bestie dalle guance rosse” proviamo vergogna se è a rischio la nostra buona immagine.

Spesso giudichiamo noi stessi in conformità di come ci giudicano gli altri, e legarci alla valutazione degli altri, mantiene e aggrava il problema. Se valuto me stesso sulla base dei segnali di stima che ricevo, mi metto in una condizione di sottomissione fin dall’inizio della relazione. La percezione di fragilità disporrà la persona ad avere ansia e probabilmente per rassicurarsi cercherà di prevedere possibili minacce, continuando così a fare inferenze sulle possibili interazioni e nel tentativo di controllarle si invischierà in un circolo vizioso.

Probabilmente si andrà ad immaginare tutta una serie d’immagini e pregiudizi negativi, in quanto l’attenzione è posta sul fatto di sentirsi inadeguati e in balia del giudizio altrui. Nel tentare di trovare una soluzione a questo grande problema probabilmente si andranno ad evitare quelle situazioni che potrebbero causare una brutta figura, e gli eventi temuti con il passare del tempo si moltiplicheranno.

 

Foto di Willo M.: https://www.pexels.com/it-it/foto/graffiti-funky-del-cranio-sulla-porta-nera-chiusa-a-chiave-953457/

Né bonobo Né Scimpanzé

di Roberto Petrini

La condivisione ci ha fatto superare le difficoltà evolutive e oggi ci aiuta ad affrontare il Coronavirus

Sei milioni di anni fa, l’umanità si separò dalla linea evolutiva comune delle grandi scimmie. Prima si differenziarono gli Orango, poi i Gorilla e, per ultimi (quindi gli antenati comuni più prossimi), i Bonobo e gli Scimpanzé. I Bonobo sono scimmie molto empatiche e risolvono le tensioni con comportamenti come il gioco e il sesso; gli Scimpanzé sono meno pro-sociali e decidono spesso le dispute con la violenza.

Noi Homo siamo “scimmie bipolari”, a volte collaborativi ed empatici, a volte gerarchici e violenti, ma sembra proprio che la capacità che ci ha maggiormente condotto a superare le difficoltà evolutive sia stata la cooperazione. Certo, è stata importante anche l’organizzazione gerarchica della società, come anche la creazione di un maschio super alfa come Dio, che ci ha trasmesso leggi morali alle quali sottometterci, perché la sottomissione gerarchica è un meccanismo molto più antico e potente della moderna vergogna e senso di colpa.

Milioni di anni fa, il nostro antenato in comune, per far fronte alle sfide imposte dall’ambiente, iniziò a sviluppare una collaborazione di base, detta anche strumentale. In questo tipo di cooperazione ancestrale e basica, c’è il continuo monitoraggio del comportamento degli altri partecipanti ad una azione congiunta, per vedere se stanno facendo la loro parte. È una proto-collaborazione basata sull’individualismo e il controllo, come si verifica in questo periodo di infezione da Coronavirus: “Stai rispettando le prescrizioni o stai andando a correre? In bici? Quante volte porti fuori il cane? Stai uscendo troppo spesso per fare la spesa?”.

In seguito, individui con la stessa simultanea percezione e comprensione del mondo, iniziarono a coordinarsi per cercare di raggiungere obiettivi comuni e scegliere, come collaboratori, solo i partner similmente meritevoli. Il cooperatore scorretto, per non restare solo, anche se forte e aggressivo, era spinto a conformarsi (“la penso diversamente ma assecondo la decisione della maggioranza”) per evitare la solitudine, che voleva dire morte certa.
Ogni deviazione dalla norma iniziò a dover essere giustificata nei termini dei valori condivisi dal gruppo, per essere compresa e accettata, e il trasgressore perdonato: “Esco, sì, ma per andare in farmacia, per fare la spesa settimanale, per andare a lavoro”.

In conclusione, il nostro antenato comune, a differenza delle altre grandi scimmie come gli Scimpanzé e i Bonobo, ha acquisito la grande capacità dell’“autogoverno normativo”, cioè l’abilità di autoregolarsi socialmente basandosi su delle strutture culturali e, conseguentemente, di configurare la realtà in una prospettiva utile a risolvere i conflitti.

Nel processo collaborativo moderno perché la persona sia motivata a contribuire, deve percepire una situazione di equità, dove la fiducia nel fatto che l’altro coopererà aumenta l’impegno della persona nel fare la sua parte. Le persone che condividono azioni, comportamenti ed emozioni hanno come “premio evolutivo” il sentimento di vicinanza e la creazione di un legame con l’altro. Milioni di anni fa è comparso il genere Homo, sopravvisse al raffreddamento globale, alla siccità e alle carestie grazie al coordinamento e alla condivisione.
“Ricordati di spogliare gli avvenimenti dal tumulto che li accompagna – scriveva Seneca – e di considerarli nella loro essenza: capirai che in essi non c’è niente di terribile se non la nostra paura”.

Per approfondimenti:

Michael Tomasello “Diventare Umani” Raffaello Cortina Editore. Frans De Waal “il bonobo e l’ateo” Raffaello Cortina Editore 

La palude masochistica

di Roberto Petrini

Il mantenimento del problema nel carattere masochista: capire come uscire a “riveder le stelle”

Il carattere, come descritto dallo psichiatra e psicoterapeuta statunitense Alexander Lowen, può essere definito come un comportamento tipico con cui si affronta la vita, nel tentativo di trovare un equilibrio tra le richieste dall’ambiente e le esigenze e bisogni della persona.
Per adattarci all’ambiente, il nostro comportamento deve essere fluido e adeguato alla situazione, non possiamo rispondere a stimoli diversi con i nostri repertori di comportamento e pensiero tipici; se lo facciamo, le richieste di chi ci circonda, inizieranno a sembrarci inadeguate ed eccessive o cominceremo a sentirci inadeguati noi.Il carattere di una persona è facilmente rilevabile quando osserviamo gli altri, se invece rivolgiamo l’attenzione verso noi stessi e proviamo a essere introspettivi, spesso dobbiamo fare i conti con pensieri razionalizzanti che giustificano il nostro comportamento. 

Nel carattere descritto come masochistico, l’aggressività è rivolta contro se stessi, ma c’è anche un elevato risentimento verso gli altri, ci si sente spesso sotto pressione e sofferenti con la sensazione di esplodere. La frustrazione si esprime spesso sotto forma di lamenti, che hanno anche l’esito di tormentare le persone più prossime. La persona vive un conflitto irrisolvibile, è cosciente della realtà ma al tempo stesso non l’accetta e al contrario la combatte. Si sente in trappola e più lotta più sprofonda, cerca di ottenere approvazione e affetto con un metodo che tuttavia gli restituisce solo frustrazioni e sfiducia.

Il masochista vuole essere aiutato ma non crede nella bontà dell’aiuto e non crede nemmeno in se stesso. Da bambino, non gli sono mancati l’amore e l’accudimento delle figure genitoriali, ma è stato sottoposto a numerose critiche e offese, spesso accusato d’incapacità e inettitudine. La struttura del comportamento masochista spesso si forma, infatti, in una famiglia con un padre passivo e sottomesso e una madre dominante che si auto sacrifica per il bene della famiglia, cercando però di controllare il comportamento del figlio colpevolizzandolo e assillandolo e non permettendone atteggiamenti di libertà e protesta.

Per uscire dalla palude, occorre divenire consapevoli di cosa si fa per tentare di risolvere la situazione e come gli altri poi rispondano ai propri tentativi di soluzione, occorre osservare come poi le difficoltà si stabilizzino e si trasmettano ad altre aree di funzionamento. Spesso, purtroppo, accade che proprio i nostri tentativi di soluzione e le strategie che adottiamo per risolvere il problema siano essi stessi causa del mantenimento del problema. È importantissimo, quindi, fare attenzione a ciò che si ripete nel nostro comportamento e in quello altrui, e pensare a una nuova via che attivi altri cicli relazionali. 

Questo è il lavoro che dovrà essere affrontato nella psicoterapia: far fronte ai meccanismi responsabili del mantenimento della sofferenza e porre attenzione massima sulle situazioni attivanti, antecedenti al comportamento problematico, ma anche su quello che succede dopo. Sapere non basta: per uscire dalla palude non serve solo conoscere e capire, occorre sperimentare nuovi comportamenti “impegnati”, andare oltre i soliti pensieri circolari e non usarli per rassicurarci, per illuderci che ragionando da soli sulla questione riusciremo a trovare una soluzione. Quando si esprimerà tutto il rancore accumulato, probabilmente la rabbia lascerà il posto alla tristezza, al dolore e all’angoscia; uno stato penoso ma necessario, una situazione che dovrà essere accettata per rompere definitivamente il circolo vizioso nel quale si è incastrati e intravedere la libertà che ci attende fuori della palude. 

Le istituzioni ponte di affetti

di Roberto Petrini
Perché competere è cosi importante per determinare la nostra identità e il nostro successo individuale?
Lo psicologo britannico John Bowlby, partendo dalle intuizioni di Konrad Lorenz, comprese per primo come agisce la disposizione innata a cercare cura e conforto quando ci troviamo in una situazione di pericolo, malattia o solitudine; per ricevere aiuto ci orientiamo verso chi consideriamo più forte e saggio. Bowlby è consapevole di come il sistema che descrive influenzi anche gli altri sistemi motivazionali come la cooperazione e la costruzione delle relazioni interpersonali.
Molte delle nostre motivazioni ci spingono a costruire legami interpersonali e ci guidano poi nella costruzione di significati che useremo per adattarci all’ambiente. Le relazioni interpersonali positive come i farmaci sono in grado di regolare i nostri neurotrasmettitori nei punti strategici del nostro cervello. Relazioni basate sulla fiducia, tolleranza e rispetto fanno crescere la disponibilità della serotonina, mentre le relazioni aggressive e competitive ostacolano la disponibilità di questo neurotrasmettitore.
 Per sentirci “nutriti affettivamente”, dobbiamo per forza riferirci a un gruppo, dove grazie alla condivisione, si realizzano dei legami positivi e grazie a questi un clima di fiducia e ottimismo. Il principio consumistico opera anche nei gruppi, le economie di cambiamento incoraggiano le rotture a svantaggio della riconciliazione, del ricongiungimento e mediazione dei conflitti.
Nel gruppo, se domina l’atteggiamento competitivo, spesso non si forma nessun vincolo sentimentale e i sentimenti ostili alla fine arrecheranno dei danni.Il clima agonistico ci farà essere rapidi nelle nostre valutazioni, rigidi e rigorosi, attenti ai segnali di pericolo; proveremo rabbia, paura, invidia, disprezzo e saremo orgogliosi. Questo tipo di pensiero ci porterà a considerare solo le nostre ragioni e quelle dei nostri compagni di scontro, ma non ci metterà in condizione di decentrarci e quindi in grado di cogliere le ragioni dell’altro; alimenterà il sospetto e la polarizzazione dei pareri.
I vincitori alla fine si trasformano in vinti: per legge di natura, “la fiumana del progresso”, descritta da Giovanni Verga, alla fine travolge tutti. Mastro don Gesualdo, dopo aver conquistato potere e rispetto, è schiacciato dall’aridità degli affetti di chi lo circonda, dalla solitudine.
I beni primari, nella maggior parte delle società, non sono scarsi. Allora perché competere è cosi importante per determinare la nostra identità e il nostro successo individuale? Non è più vantaggioso collaborare per raggiungere obiettivi comuni per poi dividersi e condividere gioie e risultati? Come fare adesso che la fiducia e la generosità dei singoli è stata logorata da decenni di condizioni disoneste?
Le istituzioni ponte di affetti come l’oratorio, la sede di partito, la società sportiva, il circolo, le associazioni creano un collegamento di fiducia e affetti tra le persone, aumentano tolleranza e visione ottimistica del mondo. I gruppi che generano relazioni emotive ci discostano dal pensiero individualista, pongono un obiettivo sentito come comune, che avvicina le persone e crea legami e valori condivisi. Spesso siamo più felici quando ci mettiamo da parte e andiamo verso qualcun altro, oltre noi stessi, verso un gruppo dove viene soddisfatto il nostro bisogno di dare e ricevere nutrimento affettivo.
Il grado di fiducia tra le persone, le reti relazionali che si creano e la disponibilità a cooperare determinano la motivazione individuale a vedere e poi a salire su quel ponte che ci collega gli uni agli altri.

Il bene pubblico e il male nascosto

di Roberto Petrini

Quando la paura si trasforma in aggressività e l’altro diviene un rivale

La paura è il più grande inibitore del comportamento altruistico e orienta le condotte verso la violenza. Questo sentimento, che orienta i processi di valutazione e di decisione, è sfruttato ad arte da chi vuole ottenere dalla massa un certo tipo di comportamento. Si accresce, con i mass media, una specifica paura, per poi far accettare una soluzione predeterminata; è noto che si accetta più facilmente una riduzione della propria libertà per avere in cambio una maggiore sensazione di sicurezza.

In situazione percepite come incerte e urgenti, si cerca di agire velocemente anche a discapito della completezza d’informazioni, la ragione passa in secondo piano, la paura si trasforma in aggressività, l’altro diviene un rivale.

Arriviamo a convincerci che il male certo è preferibile a un bene incerto, un bene che qualora non si realizzasse, porterebbe a un dolore superiore rispetto alla prospettiva conosciuta di un male noto.

Se un comportamento perdura attraverso le epoche geologiche, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria.

Negli animali l’aggressività ha la funzione di selezionare i migliori, gli consente di riprodursi di più, di regolare la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. I contendenti, nell’aggressività ritualizzata, convengono però nel non superare certi limiti: il lupo schiena l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco dell’avversario ma si scontra solo frontalmente. L’animale più violento in natura sembra però quello più vicino a noi, cioè la scimmia, e come l’uomo ha poca pietà per i suoi simili.

Nelle situazioni conflittuali prevalgono egoismo e paura e, di norma, diminuiscono fiducia e altruismo; ma anche se sottoposti a condizioni che incutono paura, esiste sempre la possibilità di fare una scelta di libertà e andare oltre se stessi verso qualcuno da amare, verso un compito da compiere. L’altruismo prospera in un clima di fiducia e stima. La cooperazione non è mai stabile ed è influenzata dall’immagine che l’altro ha di noi, di quella parte che spesso non accettiamo né vediamo.

Quando sono in gioco risorse comuni, ognuno deve fare la propria parte per salvare il mondo, il bene ha una dimensione pubblica, il male deve rimanere nascosto: se è reso noto, esso non può non essere perseguito.

In tempi brevi l’egoismo sembra pagare, poiché si affianca bene all’atteggiamento indolente dove si ottiene il massimo con il minimo sforzo.

Il tempo fugge: dimostriamo e impieghiamo il nostro potere di bene senza rimandare, più la vita è sprecata e povera più è alta l’angoscia di morte.

Fare del bene offre vantaggi anche al donatore, aumenta la percezione di sicurezza, inibisce i sensi di colpa, fa superare i sentimenti d’invidia, dà ottimismo.

L’altruista ha un potere e intende usarlo, si percepisce come efficace nell’affrontare e portare a termine un compito specifico; rifiutarsi di agire significa, per lui, collaborare con situazioni che in fondo condanna.

L’altruismo ha bisogno di essere educato e non può essere ingenuo! L’idealista deve essere realista e disilluso, consapevole delle fragilità umane. Il premio sarà il passare oltre se stessi e dimenticarsi per poi incontrare un significato da realizzare o qualcuno da amare.

Per approfondimenti:

“Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita” di G. Cucci. Cittadella Editrice. 2015

“Logoterapia e analisi esistenziale” di V. Frankl. Editore Morcelliana. 2005

Collaborare per difendersi dai lupi

di Roberto Petrini

La cooperazione genera legami, aumenta fiducia e tolleranza, ma è un “bene” fragile molto facile da logorare e difficile da ricostituire

Se un comportamento perdura nel tempo, significa che è al servizio della sopravvivenza della specie che ne è depositaria. Negli animali, l’aggressività seleziona i migliori, regola la gerarchia all’interno dei gruppi, serve alla conquista e alla difesa del territorio. Essi, però, si accordano nel non superare certi limiti (aggressività ritualizzata): il lupo assale l’avversario ma non lo morde mai alla gola, il cervo non colpisce mai il fianco del rivale ma si scontra solo frontalmente.
L’animale più violento in natura è quello più vicino a noi, cioè la scimmia e come l’uomo ha poca pietà per i suoi simili. L’uomo, addirittura, compie massacri senza essere presente sui luoghi del crimine e così non è nemmeno più esposto al dolore e ai rimorsi.
Fortunatamente, competere non è stata mai l’unica soluzione per accedere alle risorse materiali, per risolvere i conflitti, per accedere ai ranghi superiori. Oltre alla selezione naturale e alla mutazione, ha operato come principio fondamentale dell’evoluzione la cooperazione.
La caccia al cervo è un esempio di come il gruppo degli uomini è cresciuto collaborando. Lo psicologo evoluzionista Michael Tomasello lo spiega così: “Nella caccia al cervo, ognuno preferisce collaborare in vista delle ricompense che questo porterà a ciascun individuo e al gruppo. Il problema è come poter arrivare al punto di unire le forze. E non è una faccenda da poco, dato che ciò che io faccio in situazioni del genere dipende da ciò che penso, farai tu e viceversa, ricorsivamente, il che significa che dobbiamo essere in grado di comunicare tra noi in modo soddisfacente e di fidarci l’uno dell’altro”.
Continua esponendo cosa occorre per passare al comportamento collaborativo, individuando tre condizioni essenziali:

  • abilità e motivazioni per l’intenzionalità condivisa;
  • tolleranza e fiducia reciproca;
  • presenza di norme sociali pubbliche.

Collaborare significa percepirsi di pari valore e lavorare insieme per un vantaggio comune e dimostrarsi cooperativi e pronti ad aiutare gli altri spesso porta a ricevere in cambio altre offerte di aiuto e collaborazione. Un altro fattore che spinge in direzione della cooperazione è costituito dalle norme e dai valori del gruppo come anche l’essere sottoposti al giudizio altrui.
È oramai chiaro che le disuguaglianze crescono insieme a tutti gli effetti collegati a essa, per primo la riduzione della mobilità sociale e l’accesso equo alle risorse. La norma ha perso potere e spesso non riesce a garantire che sia tutelata la giustizia, quindi diminuisce la fiducia nel prossimo: la nostra propensione all’altruismo e ai legami si logora, i circoli, gli oratori, le sedi di partito si svuotano.

La competizione falsata tipica delle politiche neoliberiste promuove economie consumistiche di cambiamento che rovinano i legami sociali e incoraggiano le rotture a discapito della mediazione e del ricongiungimento, con il risultato di un capitale sociale che s’impoverisce sempre di più.
La disuguaglianza viola la nostra aspettativa di giustizia e logora i beni relazionali.
Solo disponendosi in cerchio i cavalli selvatici si difendono dai lupi.

Per approfondimenti:

Tomasello M. (2010). “Altruisti nati”. Bollati Boringhieri

Tomasello M. (1999). “Le origini culturali della cognizione umana”. Tr. It. il Mulino, Bologna 2005

Liotti, Fassone, Monticelli (2017) “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali” R. Cortina editore

S.O.S. cameretta: la vergogna

di Roberto Petrini

Uno spazio per pensare, per cercare di capire, ma anche per giudicare successi e insuccessi rispetto a un obiettivo

La vergogna è un’emozione spiacevole e intensa, da ridimensionare al più presto. Se ci vergogniamo, proviamo un forte stimolo a nasconderci, sentiamo anche forte rabbia e dolore, ci sentiamo inadeguati, indegni, incapaci. La vergogna sconvolge l’attività in corso e ci costringe a concentrarci su di noi.
Charles Darwin ha ripetutamente scritto che la vergogna dipende dalla sensibilità alle opinioni altrui, buone o cattive. Il non essere all’altezza di uno standard di condotta, di un modello, di una norma, genera questa emozione morale, dove ci si vede piccoli, impotenti, bloccati e feriti. Diveniamo consapevoli della nostra inadeguatezza e proviamo una sorta di disprezzo nei confronti della nostra immagine, la svalutiamo.
La vergogna viene spesso erroneamente confusa con la colpa. Se il messaggio è “attenzione, stai trasgredendo, devi rimediare!” si tratta indubbiamente di colpa perché nella vergogna il comando è molto più violento ed è un giudizio globale negativo che blocca o spinge a nascondersi o a fuggire.
Abbiamo modelli di riferimento e sistemi di valori che ci dicono quando trasgrediamo o se facciamo una determinata azione con successo. Ci sono persone che usano criteri troppo esigenti per giudicare sé stesse e altre che incolpano sempre gli altri per gli insuccessi e si prendono il merito dei successi.
Genitori con alte pretese crescono, a loro volta, figli che pretendono molto da sé stessi: quando non sono all’altezza, si sentono a disagio e se si considerano i responsabili del fallimento, provano vergogna. La vergogna è uno strumento efficace per far interiorizzare valori e modi di comportamento e di condotta, ma se indotta in modo eccessivo diviene motivo di disagio.
L’uso della mimica del disgusto-disprezzo per far sì che il bambino provi vergogna ha i suoi vantaggi (evita di alzare la voce e di fare scenate in pubblico, di usare punizioni corporali) come la minaccia del ritiro dell’amore paterno o materno, ma questi metodi generano attribuzioni globali negative, cioè l’ingrediente essenziale della vergogna.
Se questa emozione sgradevole è aggirata, negata, rimossa, eserciterà comunque la sua azione nociva intrapsichica poiché potremmo non capire quello che ci succede e utilizzare l’ideazione in modo eccessivo per prendere le distanze e cercare così di dissipare la spiacevole sensazione che proviamo. Nella vergogna riconosciuta avremmo l’inverso, cioè un’abbondante reazione emotiva e un’ideazione ridotta al minimo.
Nel caso dell’aggiramento della vergogna a una momentanea sensazione dolorosa segue un’ossessiva reiterazione della scena, dove cerchiamo di non concentrare l’attenzione su quello che sentiamo nel tentativo di ridurre il dolore e magari cerchiamo di porre l’attenzione su altro, su altre emozioni. Tali strategie di sostituzione emotiva hanno una funzione adattiva poiché ci proteggono dalla sofferenza, ma l’emozione continuerà a esistere e ci sentiremo confusi. Il modo migliore per fare i conti con questa emozione, come con le altre, è di accettarla, cioè farsene carico e poi lasciare che si dissolva col tempo. Alla fine finirà per affievolire e sarà sostituita da altre emozioni o pensieri.
Per approfondimenti:
Lewis M. (1992). “Il sé a nudo”. Giunti editore