Fare da madre al proprio padre

di Emanuela Pidri

Caregiver, stress assistenziale e strumenti di sostegno

L’ampiezza del fenomeno della demenza, l’incidenza e la sintomatologia che si istaura progressivamente nella vita della persona che ne è affetta implicano il coinvolgimento di un numero sempre più numeroso di persone impegnate nella cura e nell’assistenza.  I familiari sono i “caregivers” che per primi sono coinvolti, a livello emotivo e a livello di gestione quotidiana, nella cura e nell’assistenza delle persone colpite da demenza. Al caregiver viene richiesta flessibilità nella riorganizzazione della struttura familiare e un impiego di risorse psico-sociali per trovare strategie per meglio gestire i bisogni del malato. Tutto ciò genera, nel caregiver, elevati livelli di stress fisico ed emotivo, quali ad esempio ansia, sentimenti di inadeguatezza, irritabilità, sensi di colpa e solitudine. L’impatto emotivo dei familiari con la malattia del proprio caro e il peso dell’assistenza ha portato a  definire la demenza come una “malattia familiare” (Family Bordain). Al fine di migliorare le condizioni dei caregivers, sarebbe utile intervenire in due direzioni: 1) incentivare gli interventi volti a ridurre le restrizioni del tempo personale (centri diurni, assistenza domiciliare); 2) dare ai caregivers la possibilità di usufruire di interventi psicologici e psicoterapici finalizzati ad affrontare il senso di fallimento e lo stress fisico. È importante creare attorno ai caregivers un ambiente individuale o di gruppo non giudicante, in cui ognuno possa sentirsi libero di raccontare la propria esperienza e il proprio vissuto emotivo. L’intervento psico-educazionale utilizza un programma strutturato che fornisce informazioni adeguate riguardo la malattia, le risorse e i servizi disponibili, per meglio comprendere il problema e mettere in atto delle strategie di gestione quotidiana del malato. I gruppi di auto-mutuo aiuto, inoltre, attraverso la condivisione di esperienze simili, permettono ai caregivers di percepire come normali e naturali le proprie emozioni e reazioni comportamentali. Tali tipologie di gruppo, pur costituendo delle ottime iniziative di sostegno, non sono però da considerarsi sostitutive di una adeguata psicoterapia individuale o di gruppo, nella quale l’esperto non si limita al ruolo di facilitatore, ma assume un ruolo terapeutico volto al miglioramento della qualità di vita della persona. È pertanto fondamentale aderire ad un piano di trattamento psicoterapico. Un tipo di psicoterapia risultata efficace è la Cognitive behavioral therapy (CBT) di gruppo con l’utilizzo di vari metodi e strumenti. La CBT di gruppo prevede l’uso di strumenti di valutazione dell’ansia e della depressione provate dal caregiver (Brief Symptom Inventory) e del carico assistenziale (Caregiver Burden Inventory). La CBT, inoltre, impiega strumenti di intervento specifici: diari di auto-osservazione per favorire la presa di consapevolezza e il monitoraggio delle proprie strategie di coping e problem solving; registrazione di pensieri disfunzionali e ristrutturazione cognitiva utile a smuovere meccanismi di autoanalisi indispensabili per accrescere il proprio empowerment decisionale nelle situazioni problematiche; incremento delle strategie di coping e problem solving tramite il confronto attivo; apprendimento vicario a partire da modelli di comportamento più funzionali. I gruppi CBT consentono ai caregivers di migliorare la propria regolazione emotiva e capacità di rispondere efficacemente a situazioni ed emozioni stressanti o difficili. Lo scopo ultimo è quello di permettere al caregiver di rendere più funzionale e adattiva la relazione con l’ammalato, imparando a stare bene con se stessi, accettando e convivendo con la malattia. È eticamente e clinicamente importante dare dignità e legittimità ai problemi e ai diritti dei caregivers.

Per approfondimenti

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