Costruire l’“adulto sano”

di Alessandra Mancini

Una prospettiva integrata di ACT, Mindfulness e Schema Therapy

 Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Luigi Pirandello – Uno, Nessuno, Centomila

Nella terapia dei disturbi di personalità, ci si può trovare di fronte a un’impasse nel momento in cui, per usare un’espressione pirandelliana, “si squarcia il teatrino”, ovvero quando il paziente prende coscienza delle proprie modalità di coping disfunzionali o “mode” (risposte emotive, cognitive e comportamentali con cui il paziente fa fronte alla propria sofferenza e più in generale che utilizza per rapportarsi agli altri).

A questo punto egli potrebbe chiedersi: “Chi sono dunque io?”. Il concetto di Sé sembra perdere nitidezza e ciò potrebbe generare delle resistenze al cambiamento, poiché, anche se connotato negativamente, esso consentiva una certa prevedibilità.

Da dove attingere quindi per creare una rappresentazione di Sé più funzionale?

Per la Schema Therapy (ST) lo sviluppo del “mode Adulto Sano” (la parte funzionale del Sé del paziente) costituisce un obiettivo importante. Nonostante l’importanza di questo mode, i testi di ST si focalizzano più sulla descrizione del funzionamento del “critico interiore”, ovvero l’interiorizzazione dei messaggi critici e punitivi inviati dalle figure genitoriali, e sui già menzionati mode di coping disfunzionali.

Questo tema è stato approfondito da Eckhard Roediger, direttore dell’Istituto di Schema Therapy di Francoforte, Bruce Stevens, professore alla Charles Sturt University di Camberra in Australia, e Robert Brockman dell’Australian Catholic University di Sydney, durante uno dei workshop precongressuali del convegno internazionale di ST, appena conclusosi ad Amsterdam. Gli autori propongono l’integrazione delle prospettive dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), della Mindfulness e del Contestualismo Funzionale per identificare e sviluppare le qualità dell’Adulto Sano. In particolare, dopo aver spostato l’attenzione del paziente dalla rappresentazione negativa di Sé a una prospettiva osservante, viene proposto di definire l’Adulto Sano come uno stato di percezione del “qui ed ora” (per usare termini ACT: “Mindful”); emotivamente distaccato dal dialogo interno tipico del genitore critico (in ACT: “defuso”) e in grado di vedere se stesso come contesto delle proprie esperienze (“Sé come contesto”); di essere in contatto con i propri valori e di perseguire questi ultimi tramite comportamenti funzionali (“azione impegnata”).

Una serie di studi di trasversali (studi in cui i fattori di rischio/protezione e la presenza del disturbo sono controbilanciati tra i gruppi presi in esame) condotti da Brockman e collaboratori sembra confermare la correlazione tra il mode dell’Adulto Sano e le qualità di mindfulness, flessibilità psicologica, auto-compassione e azione impegnata al perseguimento dei valori.

Secondo i relatori del workshop, l’integrazione delle qualità tipicamente esperienziali della ST con le tecniche cognitive di terza generazione può portare alla costruzione di una rappresentazione e di una consapevolezza di Sé più funzionali al perseguimento dei propri valori e quindi, a lungo termine, al soddisfacimento dei propri bisogni.
Per approfondimenti:

Roediger, E., Stevens, B.A. and Brockman, R. (2018). Contextual Schema Therapy. An Integrative Approach to Personality Disorders, Emotional Dysregulation and Interpersonal Functioning. Oakland, CA: New Harbinger

Tornare alla normalità dopo un trauma

di Niccolò Varrucciu

L’evento traumatico provoca un flusso di sensazioni incontenibili, travolge le normali difese dell’individuo, lo rende privo di difese e incapace di reagire

Dal punto di vista etimologico, la parola “trauma” deriva dal verbo greco τραῦμα, che significa “perforare, danneggiare, ledere, rovinare” e contiene un duplice riferimento a una ferita con lacerazione e agli effetti di un urto, di uno shock violento sull’insieme dell’organismo. Ampiamente diffuso nell’ambito delle discipline medico-chirurgiche, durante il XVIII sec. il termine è stato adottato dalla psichiatria e dalla psicologia clinica che indicano con esso la sopraffazione del soggetto da parte di uno stimolo eccessivo.

In modo molto generale, il trauma può essere definito come un evento imprevisto, improvviso e imprevedibile che la persona sperimenta come destabilizzante.

L’evento traumatico domina la capacità di risposta della persona, rimanda a una condizione d’impotenza davanti a un’esperienza sconvolgente e incontrollabile che provoca un flusso di sensazioni incontenibili, travolge le normali difese dell’individuo, lo rende privo di difese e incapace di reagire, imponendo la messa in atto di difese patologiche.

In genere, dopo un evento traumatico, il soggetto può presentare disturbi come ansia, insonnia, depressione, oltre a immagini intrusive e ricordi vividi che portano il soggetto a rivivere paure e ansie come se si trovasse nuovamente all’interno dello scenario catastrofico.

Che fare se un paziente sperimenta questi sintomi? Anche se può sembrare controintuitivo, il primo intervento da fare è la cosiddetta “normalizzazione”: è infatti assolutamente normale e fisiologico che la persona reagisca in questo modo, com’è altrettanto normale che tale sintomatologia non perduri e si estingua in modo autonomo.

Se ciò non dovesse accadere, ecco che un intervento psicoterapeutico è sicuramente di fondamentale importanza per evitare che si strutturi un franco disturbo psichiatrico, o per aiutare la persona a guarire.

Uno dei meccanismi che maggiormente mantiene la sintomatologia traumatica è l’evitamento; dopo un evento traumatico è normale avere paura, anzi è fondamentale; se però, di fronte alla paura, mettiamo in atto tentativi di soluzione disfunzionali come l’evitamento, non permettiamo a questa emozione, sgradevole ma importante, di fare il suo corso e defluire correttamente. Non solo, sforzarci per evitare di sentirla dà, in modo implicito, ancora più importanza alla nostra paura e al relativo scenario temuto.

Secondo l’Acceptance e Commitment Therapy è la rigidità psicologica che ci mantiene in uno stato di sofferenza, impedendoci di individuare soluzioni efficaci di risoluzione.

Fra gli strumenti forniti da questo paradigma, uno dei più utili per il trattamento del trauma è sicuramente la “Matrice di Polk”, che aumenta la consapevolezza sul nostro funzionamento.

Durante stati di sofferenza, le persone entrano in modalità “pilota automatico” e iniziano ad agire tentativi di soluzione che, a lungo termine, manterranno la sofferenza o addirittura lo stato di malattia. Attraverso l’utilizzo della matrice è possibile analizzare quali comportamenti sono funzionali all’evitamento e quali comportamenti sono invece utili a tornare a vivere una vita ricca e soddisfacente.

La natura grafica di questo strumento semplifica il già arduo lavoro dei pazienti, rendendo intuitivo come ci siano comportamenti di allontanamento e controllo del dolore e comportamenti significativi per la persona.

Il principale intervento della terapia ACT è quello di implementare gli stati di consapevolezza nel paziente, per poi, tramite opportune tecniche, rimodulare la veridicità e la percezione di gravità di tali stati.

Tutto questo permette di aumentare la flessibilità cognitiva, utile all’individuazione di strategie di soluzione alternative e maggiormente efficaci, che non mirino tanto all’eliminazione dell’emozione spiacevole, quanto piuttosto al graduale abbandono degli strumenti disfunzionali di controllo.

Tali tentativi di controllo, infatti, oltre a mantenere inalterata la situazione, limitano le occasioni di soddisfazione in cui la persona potrebbe incorrere, facendole perdere di vista scopi di vita per lei importante.
Per approfondimenti:

Bessel A. Van der Kolk, Alexander C. McFarlane, Lars Weisaeth, “Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili”,ediz. Ma. Gi srl, 2004, pag. 1

Giannantonio, M. (2009). “Psicotraumatologia. Fondamenti e strumenti operativi”. Torino: centro  scientifico

I successi di una terapia solidale

di Sonia di Munno

L’esperienza di un’ex allieva del quarto anno SPC di Roma

La Terapia Solidale è un programma che ha lo scopo di offrire da un lato psicoterapia a prezzi contenuti, dall’altra possibilità di esperienza agli allievi delle scuole APC e SPC. La psicoterapia è, infatti, condotta dagli allievi dell’ultimo anno della scuola SPC, supervisionati passo dopo passo da terapeuti esperti.

Come ex allieva del quarto anno SPC di Roma, sono stata coinvolta in questo programma che implicava, nel mio caso, un protocollo di dodici sedute ripetuto due volte, per trattare un paziente che chiedeva di essere aiutato a ridurre l’evitamento di situazioni per lui ansiogene, che lo ostacolavano in modo importante nel lavoro e in altre aree di vita. Il mio lavoro è stato supervisionato dalla psicoterapeuta Claudia Perdighe, esperta in Acceptance and Commitment Therapy (ACT).

Alla luce della mia esperienza, la Terapia Solidale mi sembra molto utile per entrambi i protagonisti della psicoterapia: il paziente e lo psicoterapeuta in formazione.
Le procedure ACT, in modo esperienziale e diretto, aiutano il paziente a superare i propri blocchi, permettendogli di scegliere la vita che desidera senza aspettare che lo stato emotivo si abbassi e si plachi. Permette di spostare la visuale della difficoltà togliendola dal “mirino” dell’esperienza, concentrando l’attenzione su valori e obiettivi e integrando in essi l’esperienza emotiva. Tecniche come l’espansione, la defusione, la mindfulness, condite con un pizzico di ironia e sagacia, hanno permesso al paziente di darsi la vita che voleva.

Il viaggio più lungo comincia da un solo passo: con calma, pazienza e ironia, abbiamo percorso quest’anno di vita, per lui cruciale, in cui i vecchi schemi mentali erano diventati ingombranti e pesanti da sopportare, in cui il “preferisco evitare” era diventato un mantra che gli aveva tolto la gioia di vivere e di mettersi alla prova, di confrontarsi con gli altri, di amare e di lavorare.

Stabiliti gli obiettivi, siamo riusciti a realizzarli. Dal mio punto di vista è stato importante vedere come i progetti del paziente si concretizzassero, come accettasse ansia e angoscia senza bloccarsi, e come sia riuscito ad aprirsi a esperienze che prima si era negato, vivendole e fronteggiandole qualora fossero state fallimentari. È stata una soddisfazione anche vedere come affrontava la tristezza e il senso di impotenza (esperienza molto comune nel genere umano).

Le schede esperienziali gli hanno permesso di vedere nero su bianco come stava conducendo la sua vita e come, invece, avrebbe voluto condurla, di scoprire quale fosse il gap che gli creava frustrazione e di individuare i pensieri disfunzionali che non gli permettevano di colmarlo. La sicurezza è cresciuta, il “meglio evitare” si è trasformato in “posso provarci e vedere come va”, il paziente è passato dal voler essere impeccabile al voler essere se stesso.

Come diceva Charles Darwin, “non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento”. In questo caso, non è un cambiamento per sopravvivere ma per vivere una vita migliore, una vita che si è fieri di esperire.

 

Per avere informazioni sul percorso di eccellenza di Psicoterapia Solidale delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva APC e SPC, clicca su questo link

Come gestire esperienze e pensieri dolorosi

di Francesco Mariano Arbore

I sei principi dell’Acceptance and Commitment Therapy

L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) si fonda su sei principi di base. Questi operano combinatamente al fine di gestire efficacemente le esperienze e i pensieri dolorosi e di creare una vita ricca ed essenziale. I principi sono: 1) defusione cognitiva; 2) espansione e accettazione; 3) contatto e connessione con il momento presente; 4) il “Sé Osservatore”; 5) chiarificazione dei valori; 6) azione impegnata.

Principio 1: la defusione cognitiva. Generalmente gli individui conferiscono alle immagini mentali, alle memorie e ad altre cognizioni, un valore assoluto inconfutabile, a tal punto da considerarle degli eventi minacciosi, delle regole a cui obbedire o delle verità oggettive. L’abilità della “defusione cognitiva” consiste nella disidentificazione tra i prodotti della mente e i suoi referenti, allo scopo di percepire i primi come nient’altro che frammenti di linguaggio e immagini.

Principio 2: Espansione/accettazione. L’“espansione”, come preferisce definirla lo psicoterapeuta australiano Russ Harris, si riferisce a quella pratica di fare spazio alle emozioni, sensazioni e agli stimoli spiacevoli, invece di cercare di sopprimerli e respingerli. Immaginiamo che lo stimolo spiacevole sia un treno in transito e la nostra mente una stazione. Il treno giunge a una fermata per un certo periodo, solitamente breve, per poi ripartire di nuovo e andare via, eventualmente tornando in un altro momento.

Principio 3: Contatto (connessione) con il momento presente. Sempre secondo Harris, per “connessione” si intende il vivere nel presente, focalizzandosi su ciò che stiamo facendo, e portando la piena consapevolezza sull’esperienza dell’hic et nunc con apertura, interesse e ricettività.

Principio 4: il Sé Osservatore. Il “Se Osservatore” può essere definito come una continuità di consapevolezza che è immutevole, sempre presente, ed impossibile da danneggiare. In altre parole può essere rappresentato come un luogo di monitoraggio dei processi di pensiero che ci consente di sperimentare le nostre componenti cognitive come ad esempio pensieri, emozioni, stimoli, sensazioni, immagini e regole come aspetti periferici di noi stessi, in costante mutamento e che non costituiscono l’essenza di ciò che noi siamo.

Principio 5: la chiarificazione dei valori. Questo principio dell’ACT riguarda la chiarificazione di ciò che è considerato più importante nella parte più profonda di noi stessi in cui possiamo accedere. Ciò implica il domandarsi che tipo di persona vogliamo essere, cosa è significativo per noi, e cosa vogliamo rappresentare in questa vita.

Principio 6: azione impegnata. L’ultimo principio si riferisce al fatto che la persona comprende che una vita ricca e significativa auspicata può essere creata attraverso azioni efficaci guidate dai propri valori. Non tutti gli individui dispongono di un protocollo perfetto che indica come perseguire gli obiettivi che si sono prefissati. Tuttavia non importa quante volte si “esce fuori dai binari” o da un dato percorso, in quanto abbiamo a disposizione i valori che ci forniscono ispirazione e motivazione per reintraprendere le azioni accantonate. Inoltre, sono gli stessi scopi che ricordano all’individuo circa le azioni da perseguire per giungere a quella sua vita visualizzata.

Per approfondimenti:

Harris, R. (2006). Embracing your demons: An overview of acceptance and commitment therapy. Psychotherapy in Australia (2006); 12, 4. Retrieved on 15 July, 2013, from: hyperlink.

Harris, R. (2007). The happiness trap: Stop struggling, start living. New South Wales, Australia: Exisle Publishing.

Acceptance e Commitment Therapy

di Niccolò Varrucciu

La supremazia degli studi cognitivi sugli antichi fondamenti comportamentali non è affatto scontata

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un enorme diffusione delle psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione e in particolare dell’Acceptance e Commitment Therapy, in breve ACT.

Quest’ondata di novità, dal sapore strettamente cognitivo con aggiunta di mindfulness e momento presente sembra, a prima vista, consolidare la supremazia degli studi cognitivi a dispetto dei più antichi fondamenti comportamentali, coerentemente con l’impegno dei cognitivisti degli ultimi decenni di allontanarsi dalla “semplicistica” Skinner Box. Ma è proprio così? Le psicoterapie di terza generazione sono così lontane da tutto ciò?

A sentire il dott. Harris, psichiatra australiano e autore del libro “Fare ACT”, non sarebbe proprio così, anzi. Harris descrive l’ACT come il piano superiore di una bellissima casa a tre piani: “al secondo piano – spiega – troverete la Relational frame theory, RFT, una teoria comportamentale che studia il linguaggio e la cognizione umana”. E al piano terra si trova “l’Analisi comportamentale applicata (ABA), un potente modello per la predizione e l’influenzamento del comportamento”.

Sempre Harris descrive come il terreno su cui poggia il tutto sia quello del “contestualismo funzionale”.

Molti modelli psicologici sono basati su una filosofia meccanicistica, in cui la mente è formata da elementi separati fra loro; in questi modelli, i pensieri e le emozioni disfunzionali sono viste come elementi difettosi e lo scopo del terapeuta e tentare di “aggiustare” queste parti. In quest’ottica i pensieri e le emozioni sono etichettate come disfunzionali o patologici.

Anche i nostri pazienti arrivano spesso in terapia con l’ottica “meccanicistica” di essere danneggiati, difettati o sbagliati, e alla ricerca di qualcuno che li aggiusti, un terapeuta che abbia i giusti strumenti di riparazione. Ritengono, inoltre, di sperimentare emozioni o pensieri inaccettabili, che non vogliono più “sentire”.

Nelle psicoterapie più funzionaliste si cerca di cambiare il modo di vedere le cose; l’ACT cerca di modificare il rapporto fra la persona e ciò che le causa sofferenza, sfumando, nel corso della terapia, il concetto di sintomo “nocivo” o “anormale”, e la tendenza dell’individuo a volersene liberare a ogni costo, con tutte le conseguenze secondarie che ne derivano. Nell’ACT lo scopo è specificatamente di aiutare gli esseri umani a creare una vita ricca, soddisfacente e piena di significato. Pertanto l’ACT insegna alle persone ad aumentare la consapevolezza del proprio comportamento (sia pubblico che privato), e a notare come questo funzioni nel contesto delle loro vite.

Dopo aver dato una breve descrizione dell’ACT torniamo al punto di partenza: da dove proviene?

La risposta potrà sorprendervi: proviene da una branca conosciuta come “comportamentismo radicale”, in cui qualsiasi cosa un organismo faccia è visto come un comportamento; i processi come pensare, sentire e ricordare sono tutte forme di comportamento, e sono tutti importanti.

Ci sono due suddivisioni principali del comportamento, quello pubblico, cioè direttamente osservabile dagli altri (azioni), e quello privato, ossia quello che viene osservato solamente dalla persona che lo sta eseguendo (pensare, sentire, ricordare, fantasticare, preoccuparsi, assaggiare, annusare, ecc.).

Ma se non c’è una teoria cognitiva stricto sensu, che c’è al piano terra della nostra casa?

La risposta, anche in questo caso, ha una deriva comportamentale; al piano terra si trova, infatti, la scienza del comportamento applicato, altresì detta ABA.

L’Analisi comportamentale applicata è la scienza che applica sistematicamente strategie derivanti dai principi del comportamento per migliorare comportamenti socialmente significativi. Tramite specifiche strategie è infatti possibile predire e influenzare il comportamento. Tra i principali strumenti si trova “l’analisi funzionale del comportamento”. In altre parole, si cerca di scoprire quale sia lo scopo del comportamento agito.

Nell’analisi funzionale la A sta per antecedente: “Cos’è accaduto prima di questo comportamento e cosa lo ha influenzato?”. Fra gli antecedenti ritroviamo pensieri, sensazioni, memorie, ecc.; la B sta per comportamento: nello specifico il comportamento oggetto d’indagine; la C sta per conseguenze del comportamento: “Quali effetti ha questo comportamento su sé stessi, sugli altri e sull´ambiente?

Nell’ACT, come nell’analisi del comportamento applicata, nelle psicolpatologie “neurotipiche” come nei disturbi del neurosviluppo, analizziamo spesso il comportamento problema attraverso il metodo ABC, come un primo passo per aumentare la consapevolezza di cosa veramente accade e favorire il distanziamento e il cambiamento.

In conclusione, considerando il terreno comune che sottostà ad alcune pratiche terapeutiche, approfondire paradigmi e nozioni di natura comportamentale aumenterebbe le nostre capacità terapeutiche, che spesso consideriamo, in modo arbitrario, troppo isolate e autoevidenti.

 

Accettare per realizzare i propri desideri

di Valentina Silvestre e Alessandra Micheloni

 Act in pratica: applicare le procedure dell’Acceptance and Commitment Therapy alla clinica

 Nelle giornate del 25 e 25 novembre 2017, presso la sede della Scuola di Specializzazione di Psicoterapia Cognitiva SPC-APC di Roma, si è tenuto il corso “Act in pratica: applicare le procedure dell’Acceptance and Commitment Therapy alla clinica” a cura della dottoressa Barbara Barcaccia.

Le giornate formative si sono strutturate principalmente in un’ottica esperienziale, in cui i professionisti sono stati coinvolti nella pratica delle procedure ACT a partire dal lavoro sul proprio materiale personale, il modo migliore per apprendere davvero, in “prima persona”, le tecniche proposte. La parte esperienziale è stata poi inserita in una cornice teorica di riferimento, dalla filosofia ACT alla Relational Frame Theory.

L’ACT, terapia di accettazione e di impegno nell’azione, fa parte della terza generazione della terapia cognitivo-comportamentale, e sottolinea in modo particolare l’importanza di due aspetti centrali: l’accettazione di ciò che non si può evitare, e l’impegno a camminare in direzione dei propri desideri e valori. Naturalmente, la riflessione sul tema dell’accettazione ha origine antiche, antecedenti a qualsiasi forma di psicoterapia. Di accettazione, infatti, se ne sono occupate teologia e filosofia, in particolare la filosofia stoica, che proponeva un approccio pratico ai problemi quotidiani delle persone e forniva strumenti concreti per vivere più serenamente, attraverso una serie di regole di condotta e tecniche di meditazione. Una lunga storia, quindi, nella nostra tradizione filosofica Occidentale, che si è incontrata con quella Orientale, e con i recenti sviluppi degli interventi clinici basati sull’accettazione e la mindfulness.

Con l’ACT non si vogliono cambiare i contenuti dei pensieri disfunzionali, ma come ci rapportiamo a essi, imparando a riconoscerli come prodotti della nostra mente. A volte, infatti, tentare di modificare i nostri pensieri negativi e trasformarli in pensieri più funzionali è molto difficile. E tentare di sopprimerli finisce per rafforzarli e farli venire in mente più spesso, paradossalmente, come quando ci intimiamo di non pensare a qualcosa. Anche per le emozioni negative accade qualcosa di simile: più ci impegniamo a evitarle, mandarle via, o anestetizzarle, e più aumentano i problemi, come accade, ad esempio, quando per tentare di non sentire la sofferenza emotiva si ricorre all’uso di una sostanza.

In effetti, più tentiamo di modificare o cacciare via pensieri, emozioni e sensazioni spiacevoli, più aumentano i nostri problemi.  Imparare ad accettare la comparsa di pensieri, immagini mentali, sensazioni ed emozioni, è il primo passo per poter costruire una vita ricca, piena e significativa. Certo, nessuno può aspirare a vivere una vita completamente priva di dolore, senza emozioni o pensieri negativi. L’ACT aiuta le persone ad abbandonare questo obiettivo irraggiungibile, e a mettere in atto tecniche e strategie nuove per riuscire a gestire al meglio pensieri ed emozioni, accettandone la presenza e imparando a navigare al meglio quando il mare è mosso, senza essere travolti dalle onde.

L’identificazione dei propri valori personali è fondamentale, in questa ottica: i valori sono i desideri più profondi del cuore, ciò che davvero vogliamo essere. Una volta messi a fuoco, sarà più facile impegnarsi nel faticoso cammino del cambiamento: i valori diventeranno il motore della terapia, ciò che consentirà al paziente di affrontare con coraggio l’inevitabile sofferenza, in nome della realizzazione di quello che desidera di più bello per la propria esistenza. E come ci ricorda Steve Hayes, non bisogna attendere perché questo cambiamento inizi: “Non c’è motivo di aspettare che la vita cominci. Il gioco dell’attesa può finire. Adesso”.

Epilessia: nuove prospettive

di Niccolò Varrucciu

La terapia ACT sembra essere la risposta a molti meccanismi di condizionamento dell’epilessia

Da oltre mezzo secolo, i ricercatori di tutto il mondo hanno studiato i meccanismi di condizionamento e i possibili interventi psicologici dell’epilessia, con risultati promettenti per la riduzione delle crisi. Nonostante i notevoli sforzi, tuttavia, questi provvedimenti raramente hanno avuto un impatto significativo sul modo in cui viene trattata l’epilessia; la carenza di efficacia dei trattamenti ha assunto una rilevanza notevole, a fronte di una percentuale variabile dal 25 al 40% di pazienti refrattari alla terapia farmacologica, o che sperimenta effetti negativi secondari.

La situazione generale delle persone affette da epilessia è fortemente invalidante, con alto rischio di lesioni alla testa legate alle convulsioni; disturbi psichiatrici, in particolare depressione; aspettativa di vita più breve della norma e risultati sanitari generalmente scarsi. La qualità della vita è generalmente percepita come più bassa, rispetto a quella di persone affette da altre malattie croniche; inoltre, la stigmatizzazione dell’epilessia, insieme alla minaccia di convulsioni, può creare emozioni stressanti, con il rischio di esacerbare le convulsioni stesse.

Assume, quindi, sempre maggiore importanza lo sviluppo di un trattamento psicoterapeutico efficace.

Secondo il modello di medicina comportamentale, l’epilessia è definita come una predisposizione biologica alle crisi – combinata ad altri fattori – in un certo ambiente, che aumenta o diminuisce la probabilità d’insorgenza.
Il trattamento comportamentale delle convulsioni, solitamente, include l’aumento della consapevolezza dei fattori scatenanti, del processo stesso del comportamento epilettico e di particolari funzioni delle convulsioni.

Oltre al controllo delle crisi, fondamentale nel trattamento dell’epilessia, è molto importante prendere in considerazione anche tutti i pensieri, le emozioni e le stigmatizzazioni che, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, possono ridurre drasticamente le possibilità di ottenere un’istruzione, un lavoro, o di formare una famiglia.

In questa direzione, le psicoterapie di terza generazione come l’ACT stanno diventando sempre più importanti.
I principali obiettivi dell’ACT sono creare flessibilità psicologica e costruire un repertorio comportamentale più ampio, al servizio dei valori importanti per la persona; in breve: accetta, scegli e agisci.

Rispetto all’epilessia, ciò implica accettare la propria predisposizione biologica, con paure, pensieri e ricordi associati che ne derivano e scegliere volontariamente di impegnarsi in azioni coerenti con i propri valori.

Un elemento centrale dell’ACT, chiamato “evitamento esperienziale”, consiste non solo nell’evitare le convulsioni effettive, ma anche paure, pensieri, sentimenti e ricordi legati al rischio di tali convulsioni.

Un recente studio ha randomizzato ventisette soggetti con diagnosi di epilessia, refrattari alla terapia farmacologica, in due gruppi, uno sottoposto a terapia ACT e un altro a una terapia di supporto. Gli effetti terapeutici sono stati misurati esaminando i cambiamenti nella qualità della vita e l’indice di crisi.
Entrambe le condizioni di trattamento consistevano in sole nove ore di terapia, distribuite in due sessioni individuali e due di gruppo, durante un periodo di quattro settimane.

I risultati hanno mostrato effetti significativi del protocollo ACT, rispetto all’indice di crisi e ai domini di salute psicologica e fisiologica, relazioni sociali e salute ambientale.

Un breve programma di psicoterapia, combinato con farmaci anticonvulsivanti, può aiutare a prevenire molte difficoltà derivanti da una lunga storia di malattia, con conseguente aumento di qualità e soddisfazione della vita.

Ultimo ma non ultimo, considerando il contesto ambientale in cui è stato condotto lo studio, il Sudafrica, si è dimostrato come il trattamento dell’epilessia possa essere non invasivo, a basso costo e facile da condurre, anche laddove siano presenti differenze linguistiche e culturali.

 

Per approfondimenti:

 Dahl J, Lundgren T. (2005) Behavior analysis of epilepsy: conditioning mechanisms, behavior technology and the contribution of ACT. The Behavior Analyst Today 6(3):191–202.

Wagner JL, Smith G. (2005) Psychosocial intervention in pediatric epilepsy: A critique of the literature. Epilepsy and Behavior 8:39–49.

Kwan P, Brodie MJ. (2000) Early identification of refractory epilepsy. New England Journal of Medicine 58:2–8.

Johnson EK, Jones JE, Seidenberg M, Hermann BP. (2004) The relative impact of anxiety, depression, and clinical seizure features on health-related quality of life in epilepsy. Epilepsia 45:544.

Cummins RA. (1997) Assessing quality of life for people with disabilities. In Brown RI (Ed) Quality of life for handicapped people. Stanley Thomas Ltd, Cheltenham, England, pp.116–150.

Fenwick P, Brown S. (1989) Evoked and psychogenic epileptic seizures. Acta neurological. Scandinavica 80:535–540.

Wolf P. (1992) From precipitation to inhibition of seizures: rationale of a therapeutic paradigm. Epilepsia 46(suppl 1):15–16.

Hayes SC, Stroshal K, Wilson KG. (1999) Acceptance and commitment therapy: an experiential approach to behavior change. Guilford Press, New York.

Lundgren T, Dahl J, Melin L, Kies B. Evaluation of acceptance and commitment therapy for drug refractory epilepsy: a randomized controlled trial in South Africa–a pilot study. Epilepsia. 2006 Dec;47(12):2173-9. PubMed PMID: 17201719.

“Vorrei essere felice ma non so che mi succede”

di Erica Pugliese

Imparare a provare dolore senza fare nulla per combatterlo e accogliere la propria singolarità senza desiderare di essere qualcos’altro

vorrei-essere-felice-anche-ora-che-non-e-tutto-perfettoCapita, almeno una volta nella vita, di domandarsi perché non si è felici come si vorrebbe. La sofferenza umana è, infatti, universale: qualsiasi essere umano si troverà un giorno nella condizione di provare tristezza, rabbia, ansia, vergogna, colpa o paura. Inoltre, se gli eventi dolorosi sono circoscritti, il ricordo del dolore non fa altro che riportarli in auge in qualsiasi momento. Ne consegue che, presto o tardi, ci si ritroverà a interrogarsi su come vincere la propria sofferenza.

Nei manuali d’istruzione delle tecniche di salvataggio, impiegate dagli operatori di soccorso in caso di annegamento, viene in genere scritto a caratteri cubitali di porre particolare attenzione quando il pericolante è in evidente stato di panico. Questi sbracciandosi, barcamenandosi e calciando, anche in seguito all’arrivo dell’assistente bagnante, rischierebbe infatti di annegare e far affogare il suo stesso beniamino. È curioso, ma nella vita di tutti i giorni, quando si è in preda al dolore e al panico, di fatto, esattamente come il pericolante in acqua, si cerca di fare tutto il possibile per non sentire e non provare queste emozioni con il risultato paradossale di mettere in atto una serie di azioni che fanno solo stare peggio. Si annega, nel goffo tentativo di respirare ancora, spesso portando con sé chi si offre in aiuto. Il paziente con disturbo di panico, per esempio, lotterà con tutte le sue forze contro l’ansia, la paura di morire o di impazzire. Per mantenere il controllo, svilupperà velocemente l’abilità di identificare tutti i segnali precoci di reazioni emotive e fisiche indesiderate e spenderà molto tempo a esaminare pensieri e sensazioni al fine di evitare di ricadere nella sofferenza psicologica temuta. Leggi tutto ““Vorrei essere felice ma non so che mi succede””

Workshop su ACT e Focused ACT

di Martina Migliore

Il 6-7 e 20-21 maggio si è tenuto, ad Ancona, il workshop su Act e Focused Act con Emanuele Rossi e Kirk Strosahl. Reduce da una bellissima ed intensa esperienza la quale mi ha portato a conoscere due valevoli professionisti, e un gruppo di compagni di corso fantastici, mi appresto a costruire un resoconto il più completo possibile, delle quattro giornate. DSCN1383

Nelle prime due giornate il dott. Rossi ci ha introdotto, con profonda umanità e schietta professionalità, al vasto e ricco mondo dell’ Acceptance and Commitment Therapy. Il tanto rivoluzionario, quanto semplice concetto di partenza dell’ACT, è che nessuno è malato o “rotto”: ciò che accade è che si resta impigliati, o fusi, in pensieri difficili o si tenta di evitare, annullare esperienze emotive a tal punto da rinunciare ad impegnarsi nel movimento e nell’azione verso ciò che più conta nella nostra vita, il faro nella nebbia, i nostri valori. Una delle caratteristiche principali dell’ACT è proprio la grande e variegata quantità di metafore ed esercizi, usata allo scopo di guidare il cliente, nel tortuoso e a volte scosceso percorso attraverso demoni fastidiosi, voci squillanti o aggressive sabbie mobili cognitive, fino a riportarlo a contatto con ciò che più conta, una vita ricca e significativa sotto un cielo finalmente sereno. Leggi tutto “Workshop su ACT e Focused ACT”