Accettare l’insonnia e dormire di più

di Sonia Di Munno

La flessibilità psicologica diminuisce i problemi dell’insonnia: come e perché

L’insonnia è definita dal DSM 5 (quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come una costante insoddisfazione riguardo la qualità o quantità del sonno, che può manifestarsi nella difficoltà di addormentamento o nel mantenere il sonno durante la notte oppure in un risveglio precoce la mattina, associato a un malessere clinicamente significativo che inficia il funzionamento sociale, lavorativo, scolastico o altre aree importanti. Inoltre, per essere definito disturbo, deve avere la persistenza per almeno tre volte alla settimana e per almeno tre mesi, oltre a non essere spiegata da altre cause (mediche, ambientali, fisiologiche). Questa patologia, in base alla sua durata, si può distinguere in: disturbo episodico (se i sintomi durano da un minimo di un mese a un massimo di tre mesi); disturbo cronico (da più di tre mesi) o disturbo ricorrente (con due o più episodi durante l’anno). L’insonnia è molto diffusa, basti pensare che un terzo della popolazione mondiale ne soffre, con netta  prevalenza del genere femminile (4:1) e molto frequentemente in comorbilità con altri disturbi mentali, come ad esempio depressione, ansia, disturbi bipolari (40-50% dei pazienti). La terapia cognitivo comportamentale per l’insonnia (CBT-I) è uno dei trattamenti più efficaci per questo disturbo. Vi sono vari protocolli cognitivi comportamentali che hanno dimostrato la loro efficacia, come la Tecnica del Controllo degli Stimoli, la Tecnica della Restrizione del Sonno, la Tecnica dell’Igiene del Sonno e interventi di ultima generazione come la Terapia Cognitiva, le Tecniche di Rilassamento, la Fototerapia, la Tecnica della Compressione del Sonno e altre terapie sperimentali (Mindfulness e Neurofeedback).

Cause dell’insonnia e meccanismi di mantenimento

Vari studi, condotti già dai primi anni 2000, hanno dimostrato che chi soffre di insonnia ha un’attivazione fisiologica più elevata rispetto alla media (iperarousal) durante tutto l’arco della giornata e non solo di notte. Il rimuginio sugli eventi passati e la preoccupazione per il futuro sono due tipi di attività cognitive che sembrano essere prevalenti tra gli insonni e che possono servire come eccitazione che interferisce con i processi del sonno. Inoltre, in coloro che non riescono a dormire, è frequente la preoccupazione riguardo all’insonnia e alle conseguenze che questa possa portare nella vita diurna: il che causa lo sforzo di controllare il sonno che porta a un circolo vizioso disfunzionale  (impedendo l’addormentamento poiché aumenta il livello di vigilanza e rimuginio). Altri studi dimostrano che gli insonni presentano delle credenze catastrofiche sulle conseguenze della mancanza di sonno per il funzionamento mentale e fisico e credenze dicotomiche “sonno buono” e “sonno cattivo”, dividendosi in due cluster assoluti e inflessibili. Inoltre, l’alta correlazione con uno stile di personalità perfezionistica e controllante, in cui il sonno è percepito come conseguenza di uno sforzo volontario e necessario, porta a esacerbare i sintomi dell’insonnia e rende necessario l’intervento psicoterapico e psicoeducazionale.

Terapia ACT per curare l’insonnia

Un trattamento alternativo e di nuova generazione è la terapia ACT (Acceptance and Commitment Therapy, terapia dell’accettazione dell’impegno), che mira a migliorare la flessibilità psicologica, cioè la capacità di attuare un comportamento adattivo basato su valori, nonostante l’esistenza di esperienze angoscianti. Vari studi si sono concentrati sugli effetti di questo trattamento su molti disturbi psicopatologici, come anche nell’ansia e nella depressione, riscontrando una grande efficacia della terapia sia nel breve sia nel lungo termine.
Nel 2019 è stato condotto uno studio campione che correlava la terapia ACT con la qualità del sonno, confrontandolo con altri studi campione precedenti. I risultati di questa ricerca hanno dimostrato che, sottoporre il paziente a delle sessioni di questa terapia, ha portato a un aumento significativo della durata del sonno, una riduzione dei risvegli e, in alcuni casi, a un più facile addormentamento. Tutto ciò influisce su una migliore qualità ed efficienza del sonno. Il motivo dietro gli effetti dell’ACT sul sonno sono i cambiamenti degli atteggiamenti e dei pensieri dei pazienti riguardo al sonno e alla diminuita concentrazione sulle cause dell’insonnia e al suo controllo. Questa terapia sostituisce il concetto di controllo con quello di disponibilità o accettazione: il che rende questo approccio molto adatto nel trattamento dell’insonnia, poiché i problemi del sonno rappresentano un esempio paradigmatico in cui le strategie di cambiamento intenzionale sono destinate a fallire. In particolare, la componente di accettazione potrebbe ridurre il controproducente sforzo dell’aumentare volontariamente e attivamente il tempo del sonno, portando così anche un’ulteriore attivazione mentale disfunzionale e trascurando altri valori personali della vita che possono portare benessere e soddisfazione. Inoltre, la tecnica della defusione e vedere il sé come contesto mirano a sganciarsi e a mettere in discussione le idee catastrofiche e dicotomiche sull’insonnia, portando a un maggiore rilassamento, vedendo questi pensieri non più come pericolosi o spaventosi ma come innocui. Nell’ACT vi è anche il costrutto di Mindfulness, che porta a una maggiore consapevolezza del “qui ed ora”, diminuendo il rimuginio sul passato e sul futuro. Inoltre, l’azione Impegnata basata sui valori permette al paziente di non trascurare le cose per lui davvero importanti e ad acquisire una migliore qualità della vita. Tutto ciò contribuisce ad aumentare la flessibilità psicologica, processo che è stato studiato come un buon predittore di una buona qualità del sonno.

La terapia ACT, essendo una terapia cognitivo comportamentale di terza generazione e relativamente recente, necessita ancora di altri studi  e ricerche per avvalorare questi dati di collegamento con l’insonnia, anche se già da questi prime ricerche risultano essere molto correlati e in maniera altamente significativa. Pertanto, sulla base degli studi attualmente disponibili, si può affermare che l’ACT migliora la qualità del sonno dei pazienti che soffrono di insonnia.

Per approfondimenti

Ali Zakiei, Habibolah Khazaie (2019), The Effectiveness of Acceptance and Commitment Therapy on Insomnia Patients (A Single-arm Trial Plan), Journal of Turkish Sleep Medicine 3:65-73, DOI:10.4274/jtsm.galenos.2019.74745

American Psychiatric Association (2014), DSM – 5 Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Raffaello Cortina

Elisabeth Hertenstein , Nicola Thiel , Marianne Lüking, Anne Katrin Külz , Elisabeth Schramm, Chiara Baglioni,

Kai Spiegelhalder , Dieter Riemann, Christoph Nissen (2014); Quality of Life Improvements after Acceptance and Commitment Therapy in Nonresponders to Cognitive Behavioral Therapy for Primary Insomnia; Psychother Psychosom;83:371–373 DOI: 10.1159/000365173

Lars-Gunnar Lundh (2000); An Integrative Model for the Analysis and Treatment of Insomnia, Scandinavian Journal Of Behaviour Therapy Vol 29, No 3-4, Pages 118–126

Michael L.perlis, Carla R. Jungquist, Michael T. Smith, Donn Posner_ edizione italiana a cura di Palagini, Bontempelli, Gemignani e Guazzelli (2012); Il trattamento cognitivo- comportamentale dell’insonnia,  Franco Angeli

Tsukasa Kato (2016); Impact of psychological inflexibility on depressive symptoms and sleep difficulty in a Japanese sample, Kato SpringerPlus 5:712 DOI 10.1186/s40064-016-2393-0

Superare la vergogna senza evitarla


di Sonia Di Munno

Il trattamento della vergogna nell’Acceptance and Commitment Therapy

La vergogna è uno stato emotivo doloroso basato su una percezione di sé come individuo vulnerabile o imperfetto e si accompagna spesso a molti disturbi, come l’ansia, l’autolesionismo, la depressione, il disprezzo di sé. Può diventare un fattore di mantenimento della psicopatologia e complicarne l’efficacia del trattamento: in vittime di abusi, ad esempio, la vergogna può dare origine a comportamenti di autocritica e di autodisprezzo. Dato il suo impatto sui problemi di salute mentale, è utile quindi mirare a un trattamento specifico su questa emozione.

Le caratteristiche della persona che tende a provare vergogna sono: intensificata autoattenzione, alta riflessione su di sé e, talvolta, senso di colpa. I ricercatori Stephen Parker e Rebecca Thomas hanno descritto le differenze cognitive, affettive e motivazionali tra vergogna e senso di colpa. Le due emozioni, infatti, sono diverse dal punto di vista affettivo poiché nella colpa vi è maggiore empatia verso gli altri mentre nella vergogna si è più centrati su di sé, e dal punto di vista motivazionale perché nella vergogna vi è la tendenza a isolarsi per proteggersi dagli altri mentre nella colpa il rimorso spinge a ripagare il danno (sia percepito che reale) arrecato agli altri.
Alcuni studi sulla diminuzione della vergogna hanno rilevato esiti positivi di approcci basati sulla mindfulness e sull’accettazione, tra cui la terapia cognitivo comportamentale di terza generazione dell’ACT (Acceptance an Commitment Therapy). 

Le applicazioni dell’ACT sono state oggetto di oltre 65 studi pubblicati, per un totale di 4000 partecipanti a livello internazionale. Il suo approccio originale e peculiare è basato nel modo in cui si affrontano i pensieri e le emozioni del paziente.

Per quanto riguarda la vergogna, l’ACT concettualizza una fusione cognitiva della persona con pensieri autodisprezzanti e con l’evitamento di entrare in contatto con gli stessi pensieri, sentimenti e ricordi. Nel tentativo di evitare sentimenti vergognosi, infatti, il paziente evita di percepire il potenziale supporto delle relazioni, agisce compulsivamente sugli stimoli e il che non fa altro che esacerbare questi sentimenti dolorosi. Le persone alle prese con la vergogna (come con le altre emozioni) possono sentirsi obbligati a modificarle perché credono che dovrebbero, o non dovrebbero, sperimentarle o che non possono affrontarle. Questo controllo fa in modo che il paziente rimanga “fuso” (ancorato) a questo pensiero e il che può portare a un aumento della ruminazione sulla vergogna e valutazioni negative di sé. Questo ciclo di autoperpetuazione impedisce all’individuo di apprendere altre strategie efficaci: di vedersi come qualcosa oltre la sua vergogna e di essere consapevole dei momenti in cui questo sentimento è meno preponderante. In un esperimento sulla vergogna di pazienti che abusano di sostanze, condotto nel 2011 dall’americano Jason Luoma e da suoi collaboratori, l’ACT ha influito a ridurre la vergogna ed i pensieri autovalutativi denigranti e a ridurre l’uso di sostanze, con un aumento dell’efficacia del trattamento. Queste tecniche aiuterebbero, quindi, le persone ad allontanarsi dai comportamenti di evitamento. Per questo motivo l’ACT promuoverebbe non solo di accettare i sentimenti associati alla vergogna, ma anche di accettare la natura variabile della sofferenza, nel senso che ci saranno alcuni giorni in cui la proverà di più e altri di meno, portandolo a concentrarsi sui valori e gli obiettivi importanti per vivere a pieno la propria vita.

Per approfondimenti

Gutierrez e Bryce Hagedorn. The Toxicity of Shame Applications for Acceptance and Commitment Therapy; 2013; Volume 35; Number I; Pag 43-59; Journal of Mental Health Counseling

Hayes,  Strosahl e Wilson  (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behavior change. New York: Guilford Press.

Luoma, Drake, Koholenberg, Hayes (2011). Substance abuse and psychological flexibility: The development of a new measure. Journal Addiction Research & Theory, Volume 19, 2011 – Issue 1

Parker, Thomas (2009). Psychological Differences in Shame vs. Guilt: Implications for Mental Health Counselors. Journal of Mental Health Counseling Volume 31/Number 3/July 2009/Pages 213-224

 

Sclerosi Multipla: il lato psicologico

di Barbara Basile

Il modello dell’Acceptance and Committment Therapy (ACT)

La Sclerosi Multipla (SM) rappresenta la principale causa neurologica di disabilità nella popolazione giovane-adulta, con un esordio che si presenta tipicamente tra i 14 e i 40 anni e colpisce più frequentemente le donne. La prevalenza nei Paesi occidentali, dove la patologia si presenta in misura significativamente maggiore rispetto ad altre culture, è di uno su 800. Si tratta di una malattia infiammatoria demielinizzante che colpisce diffusamente la sostanza bianca del Sistema Nervoso Centrale (SNC) sia al livello dell’encefalo che del midollo spinale. La lesione anatomopatologica tipica della SM è la placca demielinizzante, un’area in cui, dopo una fase di infiammazione acuta a carico della sostanza bianca del SNC, si verificano fenomeni di cicatrizzazione e di parziale ricostituzione della guaina mielinica (elemento fondamentale per una buona propagazione degli impulsi elettrici). Le placche presentano una distribuzione variabile e imprevedibile e, di conseguenza, i deficit correlati possono coinvolgere diverse funzioni, tra cui principalmente quelle piramidali, sensitive, cerebellari, visive e cognitive. Comprensibilmente, vista anche l’età di esordio, la malattia è caratterizzata e accompagnata da una sintomatologia di tipo depressivo e ansioso, con manifestazioni che possono includere anche rabbia e labilità emotiva, e che si sommano a uno stato di fatica cronica. La patologia depressiva è presente in una percentuale che varia tra il 25 e il 50% dei pazienti, dove stati emotivi di tristezza e di ansia inficiano notevolmente il loro livello di benessere. 

Gli interventi psicologici sono volti soprattutto a sostenere il paziente nell’accettazione della sua nuova condizione e a gestire gli aspetti emotivi che derivano dalle difficoltà fisiche e dall’imprevedibilità del decorso della malattia. Gli obiettivi del trattamento riguardano anche l’adesione alla terapia farmacologica e ai controlli medici, in modo da favorire l’outcome riabilitativo e il funzionamento psicosociale. Il modello dell’Acceptance and Committment Therapy, meglio noto come ACT, si rende particolarmente utile nei casi di patologie organiche poiché aiuta il paziente a diventare più accettante rispetto alla sua condizione che, nel caso della SM, è imprevedibile a causa della grande variabilità della malattia. 

I protocolli di intervento ACT, la cui efficacia ad oggi è stata studiata negli USA e in Svezia, prevedono un contesto gruppale, in cui si affrontano i sei nuclei di intervento principali dell’ACT. Pur non esistendo ancora un protocollo manualizzato, il trattamento prevede delle fasi specifiche. In una prima fase, si prevede la psicoeducazione sulla malattia, si spiegano ai pazienti sia i possibili sintomi che la loro base organica, con una particolare attenzione all’intrinseca imprevedibilità del suo decorso, spiegandone i diversi fenotipi. La forma più frequente di SM, la recidivante-remittente (relapsing-remitting), rappresenta circa l’85% di tutte le diagnosi e si manifesta con episodi (definite ricadute o recidive) che alterano le funzioni neurologiche a cui segue un recupero funzionale parziale o totale e un periodo di relativa stabilità (fase di remissione) fino all’episodio successivo.Nelle forme primariamente e secondariamente progressive (primary and secondary progressive), si osserva un peggioramento costante della malattia, senza fasi di remissione e di recidive, in un lasso di tempo più o meno variabile. Infine, un ultimo fenotipo di SM presenta un esito di tipo benigno (o Clinically Isolated Syndrome, CSI) ed è caratterizzato da un unico episodio, a cui segue una remissione totale. Vedi la Figura per una rappresentazione grafica dei possibili fenotipi di malattia.

In una seconda fase del trattamento, si aiuta il paziente a identificare i costi che derivano dai tentativi di controllare i pensieri, le emozioni e le reazioni fisiologiche associate alla patologia e alla sua imprevedibile manifestazione. Nelle due fasi successive, si aiuta il paziente a considerare i vantaggi legati all’accettazione della diagnosi e i relativi cambiamenti di vita e in seguito si realizzano degli esercizi esperienziali volti ad identificare i valori centrali del paziente. 

L’individuazione dei valori è un passo fondamentale per aiutare il paziente a identificare quelle azioni o quegli scopi che sono in linea con ciò che dà maggiore senso e ricchezza alla propria vita, indipendentemente dalla sua condizione.  Nella quinta fase, con la pratica della mindfulness e dell’accettazione si cerca di promuovere una maggiore flessibilità, in modo da aiutare il paziente ad adattarsi alle difficoltà e alle barriere poste dalla malattia. Infine, in un ultimo step, si insegnano le tecniche di de-fusione, o distanziamento critico, con lo scopo di ridurre l’impatto di pensieri, immagini ed emozioni negative sulla realizzazione di azioni guidate dai valori. L’applicazione dell’intervento in un contesto di gruppo permette di condividere un’esperienza comune che, nonostante la diversità dei sintomi, articolandosi in piccoli gruppi di lavoro, può incoraggiare maggiore condivisione e supporto reciproco.  Recentemente, lo psicologo australiano Kenneth Pakenham ha messo a punto uno strumento psicometrico, il Multiple Sclerosis Acceptance Questionnaire (MSAQ), volto a misurare la disponibilità e l’apertura all’esperienza emotiva in questa condizione patologica. Questo strumento può rappresentare un valido metodo per valutare l’efficacia dell’intervento ACT nella SM. 

Figura. Fenotipi di Sclerosi Multipla più diffusi.

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recidivante-remittente/primariamente progressiva/secondariamente progressiva

Per approfondimenti:

Minden SL. (1992). Psychotherapy for people with multiple sclerosis. J Neuropsychiatry Clin Neurosci. 4(2):198-213. 

Nordin, L., & Rorsman, I. (2012). Cognitive behavioural therapy in multiple sclerosis: A randomized controlled pilot study of acceptance and commitment therapy. Journal of Rehabilitation Medicine, 44(1), 87–90. http://dx.doi.org/10.2340/16501977-0898. 

Sheppard, S. C., Forsyth, J. P., Hickling, E. J., & Bianchi, J. (2010). A novel application of Acceptance and Commitment Therapy for psychosocial problems associated with multiple sclerosis. International Journal of MS Care, 12(4), 200–206. http://dx.doiorg/10.7224/1537-2073-12.4.200.

http://www.psicoterapia-cognitiva.it/un-progetto-act-per-la-sclerosi-multipla/

Clinica della Mente Ossessiva

di Valentina Silvestre e Cecilia Laglia

Secondo weekend del ciclo di workshop dedicato al disturbo ossessivo compulsivo

Nel secondo weekend del ciclo di workshop “Clinica della Mente Ossessiva”, tenutosi a fine marzo presso la sede della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Verona, Barbara Barcaccia, psicologa psicoterapeuta, ha introdotto e approfondito gli interventi di terza ondata della psicoterapia cognitiva.
La prima giornata è stata incentrata sull’applicazione della Mindfulness nel trattamento del paziente ossessivo. Il primo protocollo basato sulla mindfulness fu il programma Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), riduzione dello stress basato sulla mindfulness, descritto dal suo autore Jon Kabat-Zinn e indicato per la gestione dello stress in persone con malattie organiche e/o con difficoltà di coping rispetto al dolore e alla disabilità. Negli anni si sono sviluppati numerosi protocolli basati sulla mindfulness per i disturbi clinici, Mindfulness-Based Interventions (MBI), che ricalcano la struttura dell’intervento MBSR ma che presentano delle specificità a seconda del disturbo target. L’applicazione della mindfulness al trattamento di disturbi psicologici implica il divenire consapevoli di ciò che sta accadendo dentro di noi e ri-direzionare l’attenzione per non essere travolti dalla prepotenza dei contenuti mentali. La mindfulness è l’opposto dell’agire con il «pilota automatico», meccanicamente e inconsapevolmente. Per molti pazienti con DOC questo rappresenta un’abilità rilevante: è proprio la reattività automatica a intrusioni, emozioni e sensazioni a determinare l’innesco di circoli viziosi auto-invalidanti. In un contesto di Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT), i pazienti accettano di esporsi grazie al precedente addestramento alla mindfulness, in cui la pratica rende l’esposizione meno traumatica.
Nella seconda e terza giornata è stata messa in evidenza l’importanza dell’applicazione dell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo.
Il tema dell’accettazione ha le proprie radici nella tradizione filosofica Occidentale che si è, poi, incontrata con quella Orientale e con i più recenti sviluppi degli interventi clinici basati su accettazione e mindfulness. L’ACT sottolinea l’importanza di due aspetti centrali: l’accettazione di ciò che non si può evitare e l’impegno a camminare in direzione dei propri desideri e valori. L’obiettivo dell’ACT non è quello di cambiare i contenuti dei pensieri disfunzionali ma il modo di rapportarsi ad essi, imparando a riconoscerli come prodotti della nostra mente. Nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) lo scopo è quello di aiutare il paziente ad accettare l’esperienza di colpa e confrontarlo con la possibilità di smettere di prevenire il rischio di essere moralmente imperfetto. Nel favorire l’accettazione della colpa, la rinuncia allo scopo di prevenire la colpa può implicare nel paziente con DOC una diminutio sul piano del valore morale: si ha una rinuncia senza diminutio quando il paziente valuta la possibilità di rinunciare a mettere in atto i tentativi di soluzione come qualcosa che può essere moralmente imperfetto ma compatibile con il mantenimento del proprio valore morale. L’identificazione dei propri valori personali è un passo fondamentale: rappresentano la bussola che indica la direzione, la direzione di vita prescelta. Sono il motore del cambiamento in terapia, ciò che consentirà al paziente di affrontare la sofferenza per poter vivere una vita degna di essere vissuta. Le giornate si sono strutturate in un’ottica esperienziale, per apprendere in prima persona le tecniche proposte. Come ha affermato Jon Kabat-Zinn: “L’insegnamento deve scaturire dalla pratica personale”.

“Se non ci penso più mi sento bene”

di Caterina Parisio

Arisa e la sua mindfulness: da Sanremo alle pratiche ACT

“C’è solo un tempo importante: adesso! – diceva Lev Tolstoj – È il tempo più importante perché è l’unico tempo su cui abbiamo potere”.
La citazione dello scrittore russo, vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, è un monito per ricordare che la vita si sta svolgendo ora, in questo momento, e che il passato e il futuro esistono solamente come pensieri che avvengono nel presente. Si può pianificare il futuro, ma questo pianificare avviene nel “qui e ora”; si può riflettere sul passato e imparare da questo, ma tale riflessione avviene nel presente. Questo momento è tutto ciò che abbiamo sempre.
Siamo nel 2019, alla 69esima edizione del Festival di Sanremo. Nel brano “Mi sento bene”, l’artista Arisa canta: “Se non ci penso più mi sento bene […]. Forse è tutto questo il mio vivere, quasi elementare, semplice. Adesso voglio vivere così”.

Oltre un secolo di storia, dalla letteratura alla musica, per tracciare uno dei principi fondamentali di quella che oggi chiamiamo “pratica mindfulness”.
Nel linguaggio comune, la parola “mindfulness” è diventata sinonimo di “essere nel momento”, “essere presente” o “vivere adesso”. Essere in contatto con il momento presente è, infatti, il cuore del concetto di mindfulness: il fatto di essere presente rappresenta l’elemento fondamentale per vivere una vita congruente con i propri valori.
“Guardo una serie tv e mi sento bene, leggo il giornale e mi sdraio al mare e prendo la vita come viene”, prosegue Arisa nel testo della sua canzone, che tanto assomiglia a una delle pratiche informali della mindfluness.

Ma cosa vuol dire veramente vivere nel momento presente?

Significa essere consapevolmente “in contatto con” e “partecipi di” tutto ciò che accade in questo momento. Gli essere umani trovano molto difficile rimanere nel momento presente: è esperienza comune farsi catturare dai propri pensieri e perdere il contatto con il mondo. Si può trascorrere un sacco di tempo assorti in pensieri sul passato o sul futuro, senza essere pienamente consapevoli dell’esperienza che si sta vivendo. Entrare in contatto con il momento presente significa riportare in modo flessibile la consapevolezza sia sul mondo fisico sia su quello psicologico. Significa anche prestare attenzione consapevolmente alla propria esperienza “qui e ora” invece che andare alla deriva sui propri pensieri o attivare il “pilota automatico” sulle proprie azioni.

È importante altresì sottolineare quanto sia impossibile impedire alla mente di far riemergere ricordi dolorosi o di raccontarsi storie spaventose sul futuro; si può però imparare a lasciare che questi pensieri vadano e vengano invece di attaccarsi a questi.

Arisa direbbe di svegliarsi presto il lunedì, godere delle strade piene a Natale, stare al telefono, andare a cena fuori.
Steven Hayes, professore all’università del Nevada e fondatore dell’Acceptance and Committment Therapy (ACT), terapia di terza generazione nata per modificare la relazione tra pensieri disfunzionali ed emozioni negative, in una delle sue pratiche più conosciute di defusione dai pensieri, così direbbe:

  1. Trova una posizione comoda e chiudi gli occhi o fissali su un punto.
  2. Immagina di essere seduto in riva a un gentile ruscello che scorre e che ci siano foglie che scorrono sulla superficie.
  3. Ora, prendi ogni pensiero che sorge nella tua testa, ponilo su una foglia e lascia che sia trasportato. Fallo senza badare al contenuto positivo o negativo del pensiero, piacevole o doloroso. Anche se ci sono molti pensieri piacevoli, ponili sulle foglie e lascia che siano trasportati via.
  4. Se i tuoi pensieri si fermano, osserva il ruscello. Prima o poi i pensieri ricominceranno.
  5. Permetti al ruscello di scorrere secondo il proprio ritmo. Non accelerarlo. Non stai cercando di far scivolare via le foglie, stai permettendo loro di andare e venire con il proprio tempo.
  6. Se la tua mente ti dice “Questo è stupido” o “Non posso farlo”, poni quel pensiero su una foglia.
  7. Se una foglia si ferma, lasciala lì attorno. Non forzarla a scorrere via.
  8. Se sorge una sensazione negativa, come noia o impazienza, semplicemente riconoscila. Dì a te stesso “ecco un sentimento di noia” o “ecco una sensazione di impazienza”. Poi poni quel pensiero su una foglia e lascia che scorra via.
  9. Di tanto in tanto, i tuoi pensieri si agganceranno e potrai perdere l’attenzione. Questo è normale e naturale e potrebbe succedere. Quando realizzi che sta succedendo, gentilmente riconoscilo e riprendi.
  10. E ora, porta l’attenzione verso una fine… E apri i tuoi occhi. Guardati attorno. Nota che cosa puoi vedere e sentire, sgranchisciti un po’. Bentornato!

Ora, una cosa potrà risultare sicuramente più chiara: quanto è cara questa felicità. E, di certo, Arisa o Hayes sarebbero due perfetti compagni di viaggio per godere a pieno del momento presente, sdraiati in riva al mare.

 

Per approfondimenti:
Russ Harris (2009), Fare ACT, Ed. Franco Angeli

Trattamento intensivo del DOC a Roma

di Benedetto Astiaso Garcia

È attivo, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma, il servizio per il trattamento intensivo del Disturbo Ossessivo Compulsivo

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo affligge, in Italia, circa un milione di persone. Gli effetti sulla qualità della vita dei pazienti e dei loro familiari possono essere davvero molto negativi. In molti casi, l’intera attività quotidiana del paziente è condizionata dal disturbo, con gravi conseguenze per la vita di relazione e per il lavoro o lo studio. Esistono trattamenti di provata efficacia che consistono in cure farmacologiche e psicoterapeutiche. In accordo con diversi studi di esito, la psicoterapia cognitivo comportamentale è la psicoterapia di elezione. Il gruppo di professionisti che si occupa specificatamente di DOC, nell’ambito della Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma ha misurato l’efficacia di uno specifico protocollo terapeutico cognitivo comportamentale che ha un duplice obiettivo. Da una parte, aiutare il paziente ad accettare livelli via via crescenti delle minacce rappresentate dalle ossessioni, rinunciando in modo progressivo alle compulsioni e ad altri tentativi di soluzione, come ad esempio le richieste di rassicurazione, le ruminazioni e gli evitamenti. In questo modo si riduce l’effetto dei processi psicologici che mantengono e aggravano il disturbo. Dall’altra, si tratta di intervenire sulla vulnerabilità al disturbo che, come molte ricerche suggeriscono, consiste nel timore catastrofico di essere colpevoli, che nella maggior parte dei casi deriva da esperienze precoci di rimproveri vissuti come molto dolorosi, e dunque da evitare ad ogni costo.
Esistono tecniche utili per ridurre la drammaticità delle memorie di queste esperienze la cui efficacia è stata misurata dal Gruppo DOC che opera con il patrocinio della Scuola di Psicoterapia Cognitiva. La gravità di molti pazienti suggerisce il ricorso a trattamenti intensivi. Il Gruppo DOC offre la possibilità di un intervento di quattro settimane, intervallate da una di riposo, che consiste in:

  • Valutazione psichiatrica, formulazione del caso e batteria di test iniziale dopo le prime due settimane e alla fine del trattamento;
  • Quattro ore al giorno di addestramento alla accettazione delle ossessioni, che utilizza tecniche derivate dalla Acceptance and Commitment Therapy, tecniche di ristrutturazione cognitiva e Esposizione e Prevenzione della risposta;
  • Due ore al giorno di intervento sulle memorie tramite la Imagery with Rescripting;
  • Quattro incontri di Parent training. I familiari sono spesso coinvolti nel disturbo e, nonostante le migliori intenzioni, per comprensibili esasperazioni, alimentano il disturbo stesso. Pertanto è opportuno aiutarli a reagire e a gestire i sintomi del familiare in modo efficace.

L’esperienza del Gruppo DOC e quella di altri gruppi, mostrano che il trattamento intensivo può essere di particolare utilità per i casi più gravi e anche per le persone che, per motivi logistici, hanno difficoltà a seguire una psicoterapia a frequenza settimanale.

Le procedure di intervento e il loro rationale sono riportate nel volume “La mente ossessiva”, curato dal neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta cognitivista Francesco Mancini e pubblicato nel 2016 per Raffaello Cortina Editore.

SITCC 2018 – La relazione terapeutica nella Terza Onda: nuove generazioni a confronto

di Maurizio Brasini

Lo scopo di questo simposio, realizzato nella giornata di sabato all’interno del XIX Congresso Sitcc di Verona, nelle intenzioni dei suoi promotori (il dr. Giuseppe Romano e il dr. Maurizio Brasini), era duplice: da una parte stimolare una riflessione sul ruolo della relazione terapeutica nell’ambito di quel variegato insieme di nuovi indirizzi epistemologici, metodi, tecniche e protocolli di intervento che viene denominato “terza onda” del cognitivismo; d’altro canto consentire uno scambio tra gli esponenti dell’attuale generazione di terapeuti cognitivi cresciuta all’interno di questo movimento per certi versi frastagliato e frammentario, nella auspicabile prospettiva di una integrazione.
La dr.ssa Elena Bilotta ha presentato una rassegna degli studi esistenti (non molto numerosi) sulla relazione terapeutica nei protocolli di Mindfulness. Al di là dei risultati non conclusivi circa il ruolo della relazione terapeutica nei protocolli di mindfulness (alcuni studi per esempio suggeriscono che l’effetto principale riguardi il committment piuttosto che l’esito), la dr.ssa Bilotta ha sottolineato un aspetto di notevole interesse riflettendo sul duplice ruolo del terapeuta/insegnante di Mindfulness: da una parte depositario di un sapere codificato di tipo tecnico/scientifico, dall’altra esempio incarnato di un modo di intendere la vita (il “Maestro”). Nel superamento di questa antinomia, profondamente radicata nella storia di tutta la psicoterapia, si intravede la strada per la conciliazione di metodi e relazione in psicoterapia.
Il dr. Emanuele Rossi ha illustrato i principi fondamentali della Acceptance and Commitment Therapy. Nell’individuare le matrici scientifiche e culturali su cui Ë sviluppato questo nuovo approccio, il dr. Rossi ha invitato a considerare l’ACT nella cornice più ampia dell’incontro tra il contestualismo funzionale (compatibile con l’approccio tradizionalmente comportamensita, ma non riducibile ad esse), la Relational Frame Theory, ed alcuni fondamenti degli orientamenti umanisti. A parere di chi scrive è proprio nel recupero di questa tradizione, preziosa ma non sempre riconociuta e valorizzata nell’ambito del cognitivismo, che risiede la chiave per comprendere la reale innovatività di questo approccio ed anche il suo ampio respiro in termini relazionali. L’importanza attribuita al modo di stare nella relazione e le caratteristiche del terapeuta (paritetico, equo, vulnerabile, compassionevole, genuino, rispettoso, aperto) ricordano molto da vicino l’approccio Rogersiano.
La dr.ssa Monica Dalla Valle ha introdotto alcuni principi di base della schema therapy ed ha mostrato con un esempio clinico le implicazioni del modello sulla relazione terapeutica. La dr.ssa Dalla Valle ha mostrato da una parte come alcuni costrutti centrali nella schema therapy, quali ad esempio i concetti di “bisogno emotivo”, di “schema” e “mode”, siano riferiti essenzialmente al mondo interpersonale del paziente; d’altra parte, il modello di intervento è fortemente basato sull’uso che il terapeuta fa della relazione (per esempio nel confronto empatico o nel reparenting) per “mettere in gioco” le dinamiche interpersonali del paziente. A parere di chi scrive, l’ispirazione transazionale della schema therapy contribuisce in modo decisivo a declinarla in senso relazionale. Inoltre, come evidenzia la dr.ssa Dalla Valle, il terapeuta informato alla schema therapy è chiamato ad un continuo monitoraggio di come i propri schemi entrano in gioco con il paziente, quello che Safran e Segal chiamerebbero “cicli interpersonali”.
La dr.ssa Ilaria Martelli Venturi ha mostrato, attraverso alcune tranches cliniche, la tensione dialettica propria della relazione terapeutica nel modello della dialectical behavior therapy (DBT), in cui il delicato equilibrio dinamico tra accettazione e cambiamento comporta che il terapeuta danzi insieme al paziente tra questi due poli opposti, con una costante attenzione al cambiamento degli stati dolorosi entro una sostanziale accettazione dei limiti imposti dalla realtà. Il terapeuta è dunque focalizzato primariamente sulla relazione, terapeutica, che gestisce integrando strategie e tecniche cognitivo-comportamentali con la pratica della mindfulness e dell’accettazione radicale, bilanciando interventi di reciprocità comunicativa propri della validazione emotiva e interventi di comunicazione irriverente, orientati al cambiamento.
Nell’insieme, i relatori di questo simposio sembrano offrire una incoraggiante risposta alla dibattuta questione se la terza onda apra la strada ad un cambiamento di paradigma o al contrario, per parafrasare il Vangelo, sia un po’ come “vino vecchio in otri nuove”. La sensazione è che la nuova generazione di terapeuti non si soffermi sulla patina “new age” né su altri aspetti della confezione dei modelli presentati, evidenziando invece connessioni ramificate non solo con il cognitivismo di prima e seconda generazione, ma anche con altri orientamenti esterni al cognitivismo (si vedano ad esempio le terapie di area umanista), la cui eredità era forse stata poco valorizzata dalle prime ondate. Questo fa ben sperare per un futuro in cui si potranno considerare parte dell’azione terapeutica aspetti quali ad esempio l’accettazione della condizione umana, la consapevolezza del presente, l’impegno orientato ai valori, e – naturalmente – la centralità della relazione con l’altro, all’interno di una cornice di riferimento forse meno esotica ma più radicata nella nostra cultura di riferimento: quella dell’umanesimo. D’altro canto, a recitare “Signore dammi la forza di cambiare le cose che posso modificare e la pazienza di accettare quelle che non posso cambiare e la saggezza per distinguere la differenza tra le une e le altre” è una preghiera di Tommaso Moro, anche se potrebbe sembrare un mantra tibetano!

La vita oltre il dolore cronico

                                                                                                     di Sonia di Munno

Interventi con le tecniche ACT sul dolore fisico cronico

Il dolore cronico è un grave problema di salute con un grande impatto emotivo e fisico sul funzionamento sociale dei pazienti. Quando nessuna terapia medica, chirurgica o farmacologica è in grado di rimuovere il dolore, si può solo cercare di affrontarlo con le sue correlate disabilità. In generale, il sollievo dal dolore è un obiettivo irrealistico e i trattamenti dovrebbero concentrarsi sul miglioramento della qualità della vita. L’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) sottolinea la necessità dell’accettazione del dolore al fine di migliorare la vita della persona che e inoltre si focalizza sull’aumentare la flessibilità psicologica come obiettivo finale del trattamento. Nel contesto specifico del dolore cronico, aumentare la flessibilità psicologica significherebbe accettare le sensazioni dolorose, i sentimenti e i pensieri correlati al dolore e focalizzare l’attenzione sulle opportunità delle situazioni attuali, piuttosto che rimuginare sul passato perduto o su un catastrofico futuro, e orientare il comportamento alla realizzazione degli obiettivi importanti piuttosto che sul controllo del dolore. Nel 2016, Veehof, Trompetter e altri, hanno condotto uno studio di meta-analisi per indagare l’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e la mindfulness per trattare i pazienti con dolore cronico. In questa meta analisi è emerso che ci sono stati, nei vari esperimenti, una serie di risultati positivi specialmente nel lungo termine. L’aumento del numero di studi sull’efficacia delle terapie basate sull’accettazione e consapevolezza per il trattamento di individui con dolore cronico ha permesso una valutazione più solida dei loro effetti sulla salute fisica e mentale dei pazienti. Venticinque studi randomizzati e controllati sono stati inclusi in questa meta-analisi. Sono stati valutati 1.285 pazienti adulti compresi tra i 35 e i 60 anni, per la maggior parte donne. I pazienti soffrivano di dolore cronico senza ulteriori specificazioni o muscoloscheletrico o con fibromialgia o con dolore specifico cronico (lombalgia cronica, mal di testa cronico) o con artrite reumatoide. Questi pazienti sono stati sottoposti alla Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT), terapia cognitiva basata sulla mindfulness, al protocollo Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), per la riduzione dello stress mediante la consapevolezza, all’ACT, alla Cognitive-Behaviour Therapy (CBT), la terapia Cognitivo Comportamentale, o a nessuna terapia. Sono stati presi in considerazione gli effetti sull’intensità del dolore, sulla depressione, sull’ansia, sull’interferenza del dolore nella vita quotidiana, sulla disabilità dovuta al dolore e sulla qualità della vita. Nel post trattamento sono emersi effetti moderati per ansia ed effetti molto significativi sull’interferenza del dolore nella vita del paziente: ciò è congruente con i modelli del trattamento basati sull’accettazione e consapevolezza (MBCT, MBSR, ACT), poiché l’interferenza del dolore, al contrario dell’intensità del dolore, è un indicatore più coerente con l’obiettivo degli interventi basati sull’accettazione e consapevolezza, che presuppongono di continuare ad andare avanti con la vita anche con il dolore. La disabilità causata dal dolore cronico, sperimentata dai pazienti, dipende anche dal grado in cui i pazienti permettono alle sensazioni del dolore di interferire con la loro vita quotidiana. La maggiore accettazione delle sensazioni dolorose, invece di combatterle, può essere correlata a una maggiore diminuzione delle interferenza del dolore nella continuazione della vita. Da due a sei mesi dopo il trattamento, l’effect size per depressione, ansia e qualità della vita erano moderati, mentre l’effect size per l’interferenza del dolore era grande. Questi effetti nel follow up, indicano che i pazienti, anche in presenza di dolore persistente, riescono nel lungo termine ad applicare i principi dei trattamenti basati sulla consapevolezza e accettazione nella loro vita quotidiana. Questi interventi, possono avere effetti indiretti sull’intensità del dolore poiché una maggiore accettazione può tamponare le sensazioni dolorose vissute come eventi stressanti da evitare assolutamente. Nel complesso, si può riassumere che individui con dolore cronico rispondono abbastanza bene a interventi basati sull’accettazione e consapevolezza e che gli effetti benefici vengono mantenuti a lungo dopo il trattamento.

Per approfondimenti:

Veehof M.M., H. R. Trompetter, E. T. Bohlmeijer and K. M. G. Schreurs; Acceptance and mindfulness-based interventions for the treatment of chronic pain: a meta-analytic review; 2016; Cognitive Behaviour Therapy, VOL.45, NO.1, 5–31; http://dx.doi.org/10.1080/16506073.2015.1098724

Seminario “Superhero Therapy”

di Elena Bratta

Come incorporare elementi della nostra cultura popolare all’interno dell’Acceptance and Commitment Therapy

Il 22 maggio 2018 si è tenuto presso l’Aula Asclepios del Policlinico di Bari il seminario “Superhero Therapy”, organizzato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva AIPC di Bari e patrocinato dalla Società Italiana di Terapia Comportamentale Cognitiva (SITCC) – sezione Puglia e dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Giovanni XXIII di Bari.

Janina Scarlet, specializzata nel trattamento del Disturbo da Stress Post-Traumatico, dei Disturbi d’Ansia e Depressivi, lavora presso il Center for Stress and Anxiety Management a San Diego, in California, ed è l’autrice del libro “Superhero Therapy”, un manuale di auto-aiuto che utilizza tecniche di comprovata efficacia scientifica. Il modello di trattamento proposto è collocato all’interno della cornice ACT, la terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT), con una particolare attenzione agli interventi basati sulla Compassione.

Ad aprire i lavori è stata Maria Grazia Foschino, Direttore della scuola di specializzazione AIPC di Bari, che ha presentato la cornice generale entro cui questa giornata è stata voluta e organizzata, soffermandosi in particolare sulle potenzialità degli approcci innovativi, scientificamente fondati, pensati per le fasce più giovani della popolazione.

La parola è passata quindi a Barbara Barcaccia, didatta delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale APC e SPC, formatrice ACT e istruttrice di protocolli basati sulla mindfulness (MBSR, MBCT), che ha introdotto il modello ACT presentando il cosiddetto Hexaflex: l’esagono della flessibilità. Ha messo in luce punti di contatto e continuità con la cosiddetta “seconda generazione” della terapia cognitivo-comportamentale. Si è in particolare soffermata sui processi più innovativi dell’ACT, come Defusione Cognitiva e Accettazione Esperienziale, facendo anche cenno al lavoro che si fa nell’ACT sui Valori del paziente. Si è successivamente soffermata sul Contatto con il Momento Presente, un altro dei processi ACT, che è molto fondato sull’abilità mindful di facilitare l’osservazione delle proprie esperienze interne e che ci allena a passare attraverso il nostro dolore, piuttosto che a farci trascinare da questo. Ha infine posto l’attenzione sull’importanza di intraprendere azioni impegnate in direzione dei nostri valori. La presentazione della cornice teorica dell’ACT ha permesso di osservare inoltre la continuità tra le diverse generazioni di psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Il successivo intervento di Janina Scarlet è stato tradotto in consecutiva da Elena Bratta, psicoterapeuta specializzata presso l’APC di Lecce. Janina ha iniziato il suo workshop soffermandosi sulla propria storia di vita e su cosa l’abbia portata a sviluppare l’idea di incorporare elementi della cultura pop all’interno di psicoterapie evidence-based come l’ACT. Originaria dell’Ucraina, è sopravvissuta all’esplosione di Chernobyl trasferendosi successivamente con la sua famiglia negli Stati Uniti, dove ha conosciuto la saga degli X-Men che l’ha aiutata ad affrontare le conseguenze fisiche del disastro e le difficoltà emerse nel doversi inserire in un contesto culturale nuovo. Quello che ha notato è che molti dei personaggi della cultura pop presentano nella loro vita situazioni traumatiche quali incidenti, lutti, guerre ma che queste esperienze non hanno impedito loro di diventare dei Supereroi (Crescita Post-Traumatica).

L’obiettivo principale del metodo Superhero Therapy è quello di facilitare i pazienti a esprimere, in un contesto psicoterapeutico, quello che essi provano permettendo loro di utilizzare i libri, i film, le serie tv, o i fumetti con i quali si immedesimano maggiormente. Si è spesso osservato che i pazienti adolescenti non hanno un adeguato vocabolario emotivo in grado di spiegare quello che stanno provando, ma che tramite la condivisone con il terapeuta delle loro passioni non solo si rafforza l’alleanza terapeutica, ma si fornisce loro una chiave per descrivere i propri vissuti emotivi. Il terapeuta non deve necessariamente essere un esperto di supereroi o fumetti, il paziente diventa l’esperto.

Nel corso del suo intervento, Janina Scarlet ha portato una serie di esempi a sostegno di questa tesi, utilizzando le storie dei più comuni Supereroi quali Superman o Spiderman affiancate a casi clinici dei Veterani di guerra o dei sopravvissuti di violenze sessuali, fino a citare la ricerca “The greatest magic of Harry Potter: Reducing prejudice” condotta da Loris Vezzali presso l’Università di Modena che dimostra come la lettura della saga di Harry Potter aiuti i più giovani ad accrescere l’empatia e a condividere le proprie emozioni.

La relatrice ha anche condotto delle esercitazioni di gruppo basate sul metodo ACT di Steven C. Hayes per dimostrare l’importanza di perseguire i propri Valori individuali e di come sia fondamentale impegnarsi nella direzione di questi. Infine si è soffermata sull’importanza da dare al momento del gioco, sottolineando come l’utilizzo dei videogiochi, in un contesto controllato, possa incentivare comportamenti prosociali, facilitare la comprensione dei processi emotivi nel PTSD e migliorare le relazioni interpersonali. A tal proposito si è proposta la visione del video della game designer Jane McGonigal che dimostra come “il gioco può creare un mondo migliore” (J. McGonigal).

Il suo manuale di auto-aiuto si chiama “Superhero Therapy”, nel quale sono descritte le storie di sei supereroi di finzione, magistralmente raffigurati dall’illustratore Wellinton Alves, ognuno dei quali affronta diverse problematiche psicologiche: disturbo di panico, disturbo da stress post-traumatico, disturbo d’ansia sociale, disturbi del comportamento alimentare ecc. Ogni capitolo spiega la sintomatologia provata dai singolo personaggi in una sorta di psicoeducazione al disturbo e propone degli esercizi dell’Acceptance and Committment Therapy, così come della Self-Compassion Therapy, da eseguire capitolo dopo capitolo in modo da affrontare un vero e proprio viaggio alla ricerca dell’eroe che abbiamo in noi stessi.

La conclusione è stata affidata a un esercizio di compassione verso se stessi dove tutti i presenti in sala si sono dovuti mettere in gioco per dimostrare l’importanza della gentilezza verso di sé del non-giudizio e di un senso di comunità condivisa.

È un martedì pomeriggio, un giorno lavorativo, ma la sala è piena e il pubblico è assai eterogeneo: studenti, professionisti, docenti. Molti hanno espresso apprezzamento ed interesse nei confronti delle tematiche presentate durante il seminario e numerosi sono stati gli spunti di riflessione che hanno portato il pubblico a rivolgere domande ai docenti presenti in sala e a condividere le proprie esperienze. Le copie presenti e fresche di stampa della versione italiana del manuale “Superhero Therapy” edito da Giovanni Fioriti Editore sono andate esaurite.

Elena Bratta, psicologa psicoterapeuta specializzata presso l’APC di Lecce. Ha tradotto il libro di Janina Scarlet (2018) Superhero Therapy. Un viaggio da eroe attraverso l’Acceptance and Commitment Therapy. Giovanni Fioriti Editore.