Distacchi emotivi

di Caterina Parisio

Da Edward Hopper alla psicopatologia del disturbo evitante

 “Forse io non sono molto umano […] Dipingo solo per me stesso. Mi piacerebbe che i miei quadri comunicassero, ma se non lo fanno va bene lo stesso. Non penso mai alla gente quando dipingo, mai”. Edward Hopper

Ci sono dei pittori che invitano all’analisi psicologica. Certamente Edward Hopper è tra questi, interprete profondo delle relazioni umane. Hopper dipinge la vasta solitudine dell’anima contemporanea rispetto al nulla; l’attesa di qualcosa o di qualcuno che non verrà; il vuoto degli sconfitti.

In Room in New York, un dipinto del 1923, l’apparente banalità di una scena quotidiana stimola la capacità interpretativa di qualsiasi osservatore: il pittore Charles Burchfield ne sottolinea il silenzio insopportabile; il poeta Mark Strand si sposta invece su una dimensione psicologica, quella del distacco.

Lui chino sul giornale. Lei sta dall’altro lato di una piccola stanza e guarda i tasti di un pianoforte che sfiora con un dito. Lui è concentrato sulla lettura, ma lei non è concentrata sul pianoforte; sta facendo passare del tempo, presumibilmente in attesa che lui finisca di leggere il giornale. L’uomo e la donna sono sia uniti che separati: il senso di distacco che può crescere pur mentre ci si trova in compagnia di un’altra persona.

Il distacco intuito da Strand potrebbe dipendere dalla relazione tra i due protagonisti del quadro: una relazione di coppia conflittuale o addirittura ostile sfociata in un sentimento di estraneazione sino al distacco emotivo. E se invece il distacco non dipendesse dalla relazione ma fosse la modalità usuale di uno dei due protagonisti di vivere le relazioni emotivamente importanti?

Secondo la teoria dell’attaccamento, il funzionamento evitante è sovrapponibile con la categoria d’attaccamento adulto tipo fearful, caratterizzato da rappresentazioni negative di sé e degli altri: gli altri non sono accudenti e non sono disponibili e il sé non merita affetto. L’immagine di sé negativa viene rinforzata dall’arousal emotivo e indebolita da fattori che inibiscono l’attivazione di meccanismi regolatori dell’emozione.

In ogni stile di attaccamento si costituisce uno stile di conoscenza.

Un bambino allevato in un clima emotivo di relativa trascuratezza può sviluppare la convinzione profonda che nei momenti di bisogno è meglio far conto solo su se stessi e che lasciarsi coinvolgere emotivamente è un errore che verrà pagato a caro prezzo. Nell’età adulta, una persona che ha seguito questo percorso nello sviluppo della personalità, può essere del tutto inconsapevole dei motivi che sono alla base del suo distacco emotivo. Nella relazione prevale un atteggiamento di chiusura che esprime la difficoltà a fare riferimento a nuove informazioni provenienti dal contesto, nel formulare un giudizio sociale. Le interazioni divengono così fonte di disagio e disturbo.

Persone come quelle dipinte da Hopper sono incapaci di avere una buona rappresentazione della mente altrui e hanno difficoltà a riconoscere i propri pensieri, emozioni, sensazioni quando vivono le relazioni interpersonali. Gli altri li osservano a loro volta o entrano in contatto con molta difficoltà, colpiti dalla sensazione del distacco che emanano. Il modo di padroneggiare il distacco è la ricerca del sollievo attraverso l’allontanamento e la solitudine.

In Morning sun, Hopper dipinge una donna sola, seduta con le braccia incrociate sulle gambe piegate, in posizione raccolta sopra un letto intatto, con lo sguardo rivolto verso una finestra da cui entra la luce del sole. La donna ha l’espressione assente, persa in un vuoto lontano, in un “altrove” che esce fuori dal confine del quadro e che resta ignoto allo spettatore. La sua è una pura presenza fisica, in quanto il suo pensiero, il suo mondo interiore, rimangono del tutto inaccessibili.
Il suo occhio destro è una piccola macchia nera, quasi un’orbita vuota, che infonde una sensazione inquietante e che soprattutto testimonia la condizione di alienazione (intesa come condizione di estraneità e di disinteresse per la realtà circostante) del personaggio. La luce fredda e tagliente e le ombre della stanza creano una tensione psicologica, ma soprattutto un gran senso di solitudine, accentuato dai colori e dalle geometrie, dalla posizione elevata della stanza rispetto alla strada e dal volto inespressivo e inaccessibile della donna. Difficile interpretare il suo stato d’animo.

La solitudine è la soluzione apparente ai problemi di estraneità/distacco presentati, ma solo parzialmente e per un tempo limitato.

Come i suoi personaggi, anche il pittore si mostra emotivamente distaccato; il suo pennello distilla emozioni con freddezza e lucidità, senza far trapelare alcuna partecipazione. Esiste tuttavia una traccia della presenza emotiva di Hopper il quale, a un critico d’arte che paragonò i suoi quadri a diapositive astratte e algide, rispose: “No ve ne prego, così mi uccidete”.

 

Per approfondimenti:

Giancarlo Dimaggio, Antonio Semerari (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Ed. Laterza

Supervisione e bias cognitivi nel trattamento della depressione: uno studio sperimentale sul ruolo del genere e dell’ansia del terapeuta

di Sandra Rienzi
curato da Elena Bilotta

La supervisione clinica viene solitamente concepita come un utile strumento per garantire che la terapia venga erogata in modo accurato. In realtà, i risultati della ricerca in merito sono spesso eterogenei. I supervisori potrebbero non essere le terze parti oggettive che si presume siano nel processo terapeutico, in quanto potrebbero essere influenzati dai loro stessi pregiudizi. Mentre le caratteristiche del terapeuta possono influire sul processo terapeutico, non è noto se e come quelle stesse caratteristiche del clinico influiscano sul focus delle sedute di supervisione. Due fattori che sono stati identificati in letteratura sull’erogazione di trattamenti evidence-based da parte del clinico potrebbero essere rilevanti nella pratica di supervisione quando si lavora con la depressione: il livello di ansia e il genere del terapeuta. In un recente studio è stato esplorato sperimentalmente come l’ansia e il genere dei terapeuti in supervisione  che lavorano con la depressione possano predire la tipologia di consigli che i supervisori danno nel dirigerli. Lo studio si focalizza sulle supervisioni per CBT in modo specifico, non solo perché è il trattamento raccomandato per la depressione, ma anche perché essa ha un rigoroso protocollo di intervento. L’ipotesi è che i supervisori che lavorano con terapeuti ‘poco ansiosi’ sottolineeranno maggiormente la necessità per questi ultimi di concentrarsi sulle tecniche CBT rispetto a terapeuti ‘molto ansiosi’. E’ stato anche ipotizzato che i supervisori faranno concentrare maggiormente sulle tecniche CBT i terapeuti uomini rispetto alle donne. Ciò che è emerso, in breve, è che sia il grado d’ansia sia il genere del terapeuta in supervisione hanno un impatto sul focus del supervisore nella supervisione. Infatti è stato confermato che i supervisori fanno focalizzare maggiormente i terapeuti ‘poco ansiosi’ sulle tecniche CBT rispetto a quelli ‘molto ansiosi’ ma ciò è vero soltanto quando si tratta di terapeute donne. Inoltre anche se sia i terapeuti uomini sia le donne vengono fatti focalizzare allo stesso modo sulle tecniche CBT, le terapeute donne vengono fatte concentrare maggiormente sul lavoro per l’alleanza rispetto ai terapeuti uomini. Questi risultati supportano la conclusione secondo cui i supervisori hanno dei bias (impliciti o espliciti) nel modo in cui essi supportano il lavoro dei terapeuti che trattano la depressione. Una possibile spiegazione è che forse sia i supervisori uomini sia le donne considerano le terapeute donne come aventi una maggiore predisposizione ansiosa, in virtù del loro genere. Pertanto, qualsiasi manifestazione di ansia potrebbe portare i supervisori ad assumere che i clinici donna siano più vulnerabili degli uomini. Ad ogni modo qualsiasi ipotesi sarebbe malfondata dato che il genere del terapeuta non ha molto impatto sull’esito della terapia e del paziente. Al contrario, come riportato in letteratura, le terapeute donne sono a volte più performanti degli uomini. Un’ulteriore spiegazione potrebbe essere che le terapeute donne siano più propense a cogliere i segnali di possibili fratture dell’alleanza terapeutica. Proprio per questa ragione i supervisori prenderebbero l’ansia delle terapeute più sul serio rispetto a quella dei terapeuti. Il dato che i supervisori sarebbero più propensi a far focalizzare le terapeute sul lavoro per l’alleanza rispetto ai terapeuti sarebbe a sostegno di questa spiegazione.

Per approfondimenti:
Simpson-Southward C., Waller G. e Hardy G. E., 2016 “Supervision for treatment of depression: An experimental study of the role of therapist gender and anxiety”

Un simposio sulla felicità

di Maurizio Brasini

Dalla tradizione edonica a una prospettiva eudaimonica del benessere

Una riflessione cruciale sul rapporto tra felicità e virtù ha dato inizio al simposio proposto dalla dr.ssa Claudia Perdighe durante l’ultimo congresso della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) a Verona. Se in una prospettiva clinica generalmente ci si concentra sull’eliminazione della sofferenza e nella tradizione psicodinamica si insiste sul conflitto tra la ricerca del piacere e i limiti imposti dalla realtà (morale compresa), esiste una solida tradizione filosofica secondo la quale la felicità invece coincide con la virtù.
I risultati preliminari dello studio della Perdighe, esposti nella sua relazione, mostrano che impegnarsi in azioni che corrispondono ai propri valori morali aumenta il senso di benessere, più che dedicarsi ad atti di altruismo o ad attività di svago.
La dr.ssa Marzia Albanese ha presentato, inoltre,  una ricerca svolta su un ampio campione internazionale, volta a indagare il rapporto tra la felicità (intesa come distanza percepita tra uno stato desiderato e la propria condizione attuale) e la soddisfazione rispetto ai propri standard morali, suddivisi in aspetti prosociali (l’altruismo) e aspetti più squisitamente morali (l’adesione ai principi morali): i risultati confermano che sentirsi in linea con i propri valori influisce positivamente sulla felicità.
La dr.ssa Teresa Cosentino ha aggiunto una riflessione sull’assertività, come strumento terapeutico che consente di creare le condizioni affinché il paziente riesca a vivere la propria esistenza in linea con le proprie preferenze, valori e scopi. In particolare, ha evidenziato come l’assertività non sia semplicemente un metodo per “farsi valere” né tantomeno per imporsi o avere successo, ma un modo per conquistare la propria autonomia attraverso una disciplina alla responsabilità e alla negoziazione.
La dr.ssa Caterina Villirillo, infine, si è soffermata sulla felicità in età evolutiva. Attraverso una rassegna degli studi sull’argomento, ha individuato alcuni fattori comuni che incidono sulla felicità nei bambini e negli adolescenti: oltre a un effetto generico e trasversale della socializzazione (avere rapporti soddisfacenti con gli altri), si può notare uno spostamento da aspetti più concretamente legati al piacere/divertimento nei bambini più piccoli, verso aspetti più valoriali in adolescenza. Una progressione, in altri termini, da una prospettiva più edonica verso una prospettiva più eudaimonica. Inoltre, la sensazione di essere riconosciuti come individui e la conquista dell’autonomia sono, a tutte le età, fondamentali per la felicità.
Nell’insieme, questo simposio invita a un cambiamento di prospettiva con importanti ricadute sulla clinica. A parere di chi scrive, la dr.ssa Perdighe e i suoi collaboratori hanno individuato una dimensione differente da quelle più comunemente adottate per orientarsi con pazienti: dolore/piacere o malessere/benessere o persino tristezza/felicità. Perché la felicità eudaimonica, di cui ci parlano queste riflessioni, somiglia molto alla gioia e la strada che ci invitano a perseguire è quella dell’autonomia intesa come capacità di accettazione, impegno costante e azione responsabile che restituisce senso e valore alla vita delle persone.

Cosa lega populismo e esclusione sociale?

di Luigi Leone e Mauro Giacomantonio

Chi si sente escluso dalla società potrebbe più facilmente propendere per posizioni politiche populiste

Quando si cerca di comprendere quali siano le cause del fenomeno politico del populismo, che si traduce, in estrema sintesi, nella tendenza a vedere la società chiaramente divisa tra élite malvagie e un popolo giusto altamente omogeneo, vengono di volta in volta evidenziati diversi fattori. Ai movimenti populisti “di destra” si associa una spiegazione in termini di razzismo o pregiudizio etnico. Ai movimenti politici “di sinistra” si associa una spiegazione in termini di nostalgia per società maggiormente integrate e solidali, e aspetti “irrazionali” o “anti-moderni” che traducono in irrealizzabili richieste di redistribuzione sociale.
Vengono spesso tralasciate le spiegazioni del fenomeno “populismo” basate su aspetti strutturali di diseguaglianza e sulla conseguente percezione di esclusione sociale.
La crisi del 2008 è certamente stata un motore importante di questa pervasiva percezione di disuguaglianza ed esclusione. Basti considerare che la ripresa economica seguita alla crisi è la più lenta e asfittica dal periodo delle guerre napoleoniche.  La maggioranza dei redditi è ancora bloccata o inferiore ai livelli raggiunti prima del 2008. Allo stesso tempo, però, la quota di ricchezza disponibile ai più ricchi è aumentata sia in valore assoluto, sia in valore relativo rispetto al periodo precedente alla crisi.
Si delinea, quindi, un contesto economico e sociale sempre più caratterizzato da un forte divario tra ricchi e non ricchi. L’ascensore sociale che permetterebbe di migliorare la propria condizione rispetto a quella dei propri genitori o anche di chi abbia solo dieci anni in più viene percepito come guasto o inesistente.  Non stupisce, quindi, che quote importanti della popolazione si sentano escluse, tagliate fuori, trattate iniquamente.

Partendo da questo quadro, quali sono le credenze che potrebbero spiegare come mai la percezione di esclusione sociale porti al populismo?

Innanzitutto, la percezione di esclusione potrebbe portare a cristallizzare una visione del tipo: “Io sono escluso, gli altri sono privilegiati perché ladri o malintenzionati”. Questo si traduce una concezione “manichea” della società, cioè nettamente divisa tra buoni e cattivi, tipica del populismo. In modo simile, l’esclusione potrebbe portare a pensare: “Coloro che mi dovevano proteggere (i politici) sono ladri o inetti”. Questa credenza ovviamente promuove l’anti-élitismo, cioè la chiave di volta del populismo. Infine, la credenza che se “io sono escluso e sono un buono” allora “anche gli altri esclusi saranno buoni” sostiene l’idea che esiste un popolo omogeneo di giusti. Solo la volontà di questo popolo potrà salvare la nostra società.

Oltre a queste specifiche credenze, la ricerca ha ampiamente dimostrato che l’esclusione sociale, da qualsiasi fonte provenga, riduce il senso di controllo che l’individuo ha sulla realtà. Conseguentemente si cercherà di riacquistarlo in vari modi, tra cui, ad esempio, aderendo a visioni unificanti, che semplificano la realtà e che permettono di individuare i colpevoli a cui attribuire le colpe. Ecco, quindi, che il populismo diventa uno strumento prezioso nelle mani di chi, sentendosi escluso, cerca un rimedio alla comprensibile frustrazione e angoscia che ne deriva.

Stabile come una montagna

di Elena Bilotta

Una pratica di Mindfulness per aiutarsi nei momenti di instabilità emotiva e umorale

Claudia sperimenta spesso oscillazioni dell’umore durante le quali osserva le cose con occhi diversi. Ci sono giorni in cui si sente triste e abbattuta, tutto le sembra pesante e si vede come una persona di poco valore. Allora si chiude in casa, ritirandosi dal mondo. Altri giorni sente invece di potercela fare a superare tutte le difficoltà che la vita le propone, pensa che tutto sommato nella vita non sia tutto da buttare e prova a riprendere contatti con le persone che la circondano.
Marco si sente instabile emotivamente: prova spesso ansia e rabbia molto intense che lo portano ad agire d’impulso, pentendosi quasi sempre delle sue azioni. Ha sbalzi d’umore nel corso della giornata, che gli creano uno stato di confusione mentale, perché non riesce più a capire se lui è “quello triste”, “quello arrabbiato”, o “quello ansioso”.
A Giorgia capita spesso di avere improvvisi attacchi d’ansia all’idea che possa accadere qualcosa di brutto ai suoi figli. Una settimana fa ha dato un pugno alla porta in preda a una intensa ruminazione rabbiosa. Oggi è molto triste perché ha appena saputo che il colloquio di lavoro che ha fatto non è andato a buon fine, ma è anche arrabbiata perché pensa che sia un’ingiustizia. Per questo ha chiamato il datore di lavoro insultandolo pesantemente al telefono.
Tre esempi di storie frequenti, fatte di emozioni e umore altalenanti che spesso portano ad agiti impulsivi, che a loro volta creano nuove situazioni problematiche. Ma non sono solo le conseguenze comportamentali a creare problemi quando ci si sente instabili. L’instabilità emotiva e umorale genera anche confusione mentale. Se si ha la tendenza a identificarsi con ciò che si prova, sarà facile etichettarsi come “cattivo” quando si prova rabbia, “fifone” quando si prova paura, “inetto” quando si prova vergogna o tristezza, e così via. Sarà facile cioè confondere uno stato transitorio come l’emozione con un giudizio, che per sua natura è stabile e immutabile. Quando non si è consapevoli dell’effetto temporaneo dell’umore sullo stile di pensiero e la visione di sé, quest’ultima oscillerà insieme all’umore, amplificando la sofferenza.
Se ti capita di confondere le emozioni con giudizi su di te, di sperimentare emozioni intense che si alternano con velocità nel corso delle tue giornate, oppure ti trovi ad avere oscillazioni dell’umore che ti creano sofferenza, puoi provare a coltivare la stabilità con la pratica di Mindfulness della montagna.
Siediti comodamente e osserva il respiro per dieci minuti. È possibile che la mente venga distratta da pensieri, rumori, sensazioni fisiche. Ogni volta che la mente si distrae, torna al respiro senza giudicarti.
Ora immagina di avere davanti a te una montagna. Può essere una montagna che conosci e che hai frequentato, oppure una montagna che hai visto anche solo in fotografia. Osserva la sua forma, la vetta, i versanti, la base della montagna. Osservane la maestosità e la stabilità, perfettamente radicata. Forse la sua cima sarà innevata, o sulla sua superficie saranno presenti boschi e sentieri. Osserva come si alternano le giornate e le stagioni, e come la montagna cambi aspetto lentamente e gradualmente, accogliendo ogni mutamento, senza opporsi, permettendo che ciò avvenga.
Ora prova ad avvicinare lentamente l’immagine della montagna a te. Diventa montagna. I tuoi piedi diventano la base della montagna, le tue braccia i versanti, la tua testa la vetta. Incarna la stabilità della montagna. Osserva, ora che sei montagna, che le emozioni e i pensieri sono come le giornate e le stagioni, costantemente mutevoli, e tu puoi osservarli arrivare e andare via, proprio come fa la montagna, diventando testimone del cambiamento, accogliendolo momento per momento, senza identificarti con esso.
Continua a osservare il respiro e a coltivare il tuo senso di stabilità, nutrendoti dalla saggezza della tua montagna.

Il cervello emotivo 2.0

di Manuel Petrucci

Le emozioni, le loro basi neurali e i rapporti con cognizione e motivazione nella prospettiva di Luiz Pessoa

 Negli ultimi decenni di fioritura della ricerca neuroscientifica, lo studio delle emozioni ha certamente occupato un posto di primissimo piano. La sfida è stata, ed è, quella di comprendere i meccanismi attraverso i quali attribuiamo salienza, valore agli stimoli esterni o interni, dando origine a una specifica reazione emotiva, e orientando selettivamente le risorse cognitive e comportamentali. Una funzione, quella di valutazione (appraisal) che risulta fondamentale se consideriamo innanzitutto i limiti delle risorse di elaborazione che abbiamo a disposizione. Questo problema, come sottolineato dagli studiosi dell’attenzione, impone ai sistemi cognitivi una selettività strutturale per poter risolvere la “competizione” tra gli stimoli simultaneamente presenti nell’ambiente a favore di alcuni e a discapito di altri.

Nell’ambito del XIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), il prof. Luiz Pessoa, del dipartimento di psicologia della University of Maryland, ha tenuto una invited lecture dal titolo “The cognitive-emotional brain: from interactions to integration”. Secondo Pessoa, sono gli stimoli rilevanti per gli scopi dell’individuo a vincere la competizione, ed è in funzione del significato che gli eventi-stimolo rivestono per gli scopi attivi che l’emozione viene elicitata, guidando i processi cognitivi successivi e preparando all’azione più appropriata.
L’emozione, dunque, è intimamente collegata alla motivazione, e contribuisce in maniera decisiva alla creazione di una “mappa delle priorità” (priority map) fin dai primissimi stadi dell’elaborazione percettiva, per poi esercitare due specifiche influenze sul controllo cognitivo: un aumento della velocità e dell’efficienza dell’elaborazione (sharpening) e la direzione (shunting) ottimale delle diverse funzioni esecutive (aggiornamento, inibizione, flessibilità) verso il perseguimento degli scopi.
Questa visione integrata dei processi cognitivi, emotivi e motivazionali rappresenta un superamento dei classici modelli “a scatole e frecce”, a connotazione modulare. In questi modelli, la complessità dei fattori e delle funzioni può essere rappresentata solo da interazioni mono o bidirezionali e spesso orientate in senso “verticale”, come nelle dicotomie tra processi top-down/bottom-up o elaborazione corticale/sottocorticale, che risentono pesantemente di ben più antiche dicotomie tra ragione e passione, o tra cognizione ed emozione, appunto.

Appare chiaro che il funzionamento di base dell’individuo è guidato dagli scopi (top-down), ma la necessità di mantenere una flessibilità adattiva verso l’ambiente e le sue variazioni consente che stimoli salienti, dal punto di vista percettivo o emotivo, catturino l’attenzione (bottom-up), ri-orientando eventualmente gli scopi.

Un corollario di questa concettualizzazione è che se ci interroghiamo sul dove si trovi l’emozione nel cervello. La risposta sarà: “In tanti luoghi”. Per molti anni è stata dominante una visione secondo cui l’elaborazione dell’informazione emotiva avviene in maniera rapida, automatica, potenzialmente inconscia attraverso una via sottocorticale specializzata in cui l’amigdala svolge il ruolo principale. Questa visione è stata promossa dalle importanti scoperte della ricerca animale che hanno mostrato che l’attivazione delle connessioni tra il talamo uditivo e l’amigdala è sufficiente per sviluppare alcune forme di condizionamento pavloviano alla paura. Tuttavia, con i suoi studi e le sue influenti rassegne della letteratura, Pessoa ha contribuito a una sostanziale revisione di questo modello, evidenziando innanzitutto come le aree corticali, in particolare quelle coinvolte nelle funzioni esecutive, siano massivamente coinvolte anche nell’elicitazione, e non solo nella regolazione delle emozioni. Ad esempio, considerare “top” la corteccia prefrontale mediale, e “down” l’amigdala non consente di apprezzare la ricchezza delle connessioni bidirezionali di queste due aree, oltre che delle rispettive connessioni che intercorrono con altre aree coinvolte nella regolazione emotiva e nei processi di estinzione della paura, come l’ippocampo ventrale, il talamo mediodorsale, l’ipotalamo, la corteccia orbitofrontale.

Le implicazioni per la clinica, e in particolare per la terapia cognitiva, di queste conoscenze neuroscientifiche sulle emozioni sono molteplici e complesse, e spaziano dalla sopracitata regolazione emotiva alle strategie di cambiamento degli scopi, dal rapporto tra emozione e coscienza alle modificazioni innescate dai meccanismi di apprendimento e di esposizione. In conclusione, i processi cognitivi, emotivi e motivazionali non sono intercambiabili, e una loro considerazione specifica è utile sia nell’ambito della ricerca che della clinica (credenze, emozioni, scopi). Tuttavia, essi sono inestricabilmente legati, e una comprensione della mente, delle sue basi neurali e del funzionamento patologico richiede l’adozione di una prospettiva integrata, basata sul coordinamento di diverse funzioni sostenute dall’attività coordinata di diverse aree cerebrali, superando dunque intuitive, ma inconcludenti, dicotomie o schematizzazioni neuro-psico-filosofiche.

 

 

Per approfondimenti:

 

Pessoa, L. (2017). A network model of the emotional brain. Trends in Cognitive Sciences, 21(5), 357-371

 

Pessoa, L. (2017). Cognitive-motivational interactions: beyond boxes-and-arrows models of the mind-brain. Motivation Science, 3(3), 287-303

 

Pessoa, L., & Adolphs, R. (2010). Emotion processing and the amygdala: from a “low road” to “many roads” of evaluating biological significance. Nature Reviews Neuroscience, 11(11), 773-783

Obiettivi personali e benessere

di Rosanna De Angelis
a cura di Roberta Trincas

“La qualità non è mai casuale; è sempre il risultato di uno sforzo intelligente”. John Ruskin

Nell’ultimo decennio, si è andata affermando una Teoria Motivazionale del Benessere Soggettivo. L’approccio fondato su questa teoria si basa sul presupposto che il successo in obiettivi significativi abbia un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento del benessere psicologico delle persone. In questa prospettiva, il benessere soggettivo è tanto più elevato quanto più l’individuo è impegnato in progetti di vita – piani di azione estesi tesi al raggiungimento di obiettivi personali – significativi, ben strutturati, supportati da altri, non eccessivamente stressanti e generativi di un senso di autoefficacia.
Uno studio longitudinale a breve termine, condotto su un campione di 88 studenti universitari, ha cercato di esaminare in che modo le caratteristiche degli obiettivi personali possono spiegare le differenze e i cambiamenti del benessere soggettivo nel tempo.
La ricerca si è focalizzata su tre caratteristiche degli obiettivi personali: l’impegno nel perseguimento dell’obiettivo, la valutazione che il soggetto formula sulla raggiungibilità dell’obiettivo e i progressi percepiti nel raggiungimento dell’obiettivo.
L’impegno nel perseguimento dell’obiettivo indica fino a che punto l’obiettivo personale è associato ad un forte senso di determinazione nel perseguirlo, all’urgenza di investire le proprie energie nel suo conseguimento e alla disponibilità a compiere un grande sforzo per realizzarlo.
La valutazione soggettiva sulla raggiungibilità dell’obiettivo rappresenta il risultato del confronto che il soggetto fa tra l’esistenza di condizioni favorevoli e l’esistenza di condizioni sfavorevoli al raggiungimento del suo obiettivo. Le condizioni favorevoli indicano che una persona ritiene di avere abbastanza tempo e opportunità per dedicarsi al suo obiettivo, di avere il potere di raggiungerlo e di ricevere un adeguato sostegno sociale nella sua realizzazione.
Dopo aver chiesto ai partecipanti di elencare sei obiettivi personali che si proponevano di realizzare nei primi mesi dell’anno accademico ed aver rilevato il loro stato di benessere iniziale, le tre dimensioni-obiettivo ed i livelli di benessere soggettivo sono stati misurati in 3 tempi diversi in un arco temporale di 14 settimane. Il benessere soggettivo è stato considerato nei suoi aspetti sia affettivi (umore euforico/depresso) che cognitivi (soddisfazione di vita).
Dallo studio in esame, è emerso che l’intensità dell’impegno dedicato al perseguimento dei propri obiettivi è una variabile di moderazione, perché determina la misura in cui le differenze nella percezione della loro raggiungibilità spiegano i cambiamenti positivi e negativi del benessere soggettivo nel tempo. Questo significa che, rispetto agli individui che dedicano uno scarso impegno alla realizzazione dei loro obiettivi, le differenze nella stima della loro raggiungibilità non sono indicative di differenze nel benessere soggettivo, mentre, rispetto a coloro che si impegnano molto per realizzare i propri scopi, la percezione di raggiungibilità degli obiettivi è predittiva di maggiori livelli di benessere soggettivo e, al contrario, la percezione di difficoltà o ostacoli nella raggiungibilità degli obiettivi implica una compromissione significativa dei livelli di benessere.
È emerso, altresì, che i progressi percepiti nel raggiungimento degli obiettivi hanno un effetto diretto sui livelli di benessere soggettivo e mediano l’effetto dell’interazione tra l’impegno e la raggiungibilità degli obiettivi sul benessere.

Per approfondimenti:

Brunstein J.C. (1993). Personal Goals and Subjective Well-Being: a longitudinal study. Journal Personality and Social Psychology, Vol. 65, No. 5, 1061-1070.

S.O.S. Mobbing

di Emanuela Pidri

Il Mobbing sul lavoro: che cos’è, protagonisti e richiesta d’aiuto

Il Mobbing è un fenomeno che si manifesta attraverso episodi di violenza fisica, morale o psicologica in ambito lavorativo. Le diverse tipologie di Mobbing (Bossing, Mobbing orizzontale-verticale-trasversale, Comobber, Doppio Mobbing) si sviluppano lungo un processo a sei fasi. Durante le prime fasi viene individuata la vittima verso cui dirigere la conflittualità (conflitto mirato), gli attacchi da parte del mobber non causano ancora sintomi o malattie di tipo psico-somatico sulla vittima ma tuttavia le suscitano un senso di disagio e fastidio (Inizio del Mobbing), fino a quando la vittima comincia a manifestare problemi di salute protratti nel tempo (primi sintomi psico-sociali). Con la quarta fase (errori e abusi dell’amministrazione del personale), il Mobbing diventa pubblico e spesso viene favorito dagli errori di valutazione da parte dell’ufficio del personale che portano il mobbizzato a entrare in una situazione di vera disperazione, con forme ansiose e depressive più o meno gravi (serio aggravamento della salute psico-fisica della vittima). L’esito ultimo del Mobbing implica l’uscita della vittima dal posto di lavoro, tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al pre-pensionamento o anche esiti traumatici quali il suicidio, lo sviluppo di manie ossessive, l’omicidio o la vendetta sul mobber (esclusione dal mondo del lavoro).
Il mobber, cioè colui che inizia e continua l’attacco, può avere vari motivi per assumere tale ruolo: paura di perdere il lavoro o la posizione duramente guadagnata; paura di essere surclassato ingiustamente da qualcun altro più giovane, più qualificato, più simpatico; ansia di carriera che porta a spazzare via qualsiasi ostacolo, vero o presunto, gli si palesi davanti; semplice antipatia o intolleranza verso qualcuno con cui è costretto a lavorare fianco a fianco ogni giorno. Per quanto riguarda i tratti di personalità del mobber, Field elenca quattro tipologie: Disturbo Antisociale, Bordeline, Paranoide, Narcisistico. I mobber possono essere, inoltre, persone caratterialmente difficili, colleriche, autoritarie, megalomani, criticone e tutta una gamma di frustrati al di fuori del lavoro che sfogano i propri istinti repressi sui colleghi. Il tratto tipico del mobbizzato, invece, è l’isolamento.
La vittima di Mobbing si sente incompresa e sola, in una situazione in cui non sa come è entrata e spesso nemmeno perché. Fra le conseguenze, rientrano: perdita d’autostima, depressione, insonnia, disturbi alimentari, disturbi d’ansia, disturbi psicosomatici. Inoltre il Mobbing è causa di cefalea, annebbiamenti della vista, tremore, tachicardia, sudorazione fredda, dermatosi. I mobbizzati possono presentare modalità paranoiche banali, più psicopatiche che psicotiche dovute a condizioni esogene contraddistinte da vessazioni e umiliazioni continue e persistenti. Chiedere un aiuto è spesso necessario per uscire dal circolo vizioso che caratterizza le vittime di Mobbing. L’intervento psicologico non può prescindere dalla definizione del fenomeno e dalla comprensione dei vissuti emotivi a esso correlati (solitudine, isolamento, spaesamento, umiliazione, impotenza, sensi di colpa, vergogna, vendetta, esclusione sociale). La terapia Cognitivo-Comportamentale risulta essere efficace  sia da un punto di vista psicofisiologico, con adeguate tecniche di rilassamento, sia comportamentale (tecniche di gestione dello stress, gestione del conflitto e training assertivo), nonché cognitivo, ristrutturando i pensieri automatici che contribuiscono a formare la credenza di base disfunzionali e sviluppando così una nuova modalità di approcciare ai problemi con il conseguente recupero dell’autostima. Il trattamento si basa sulla costruzione di una narrativa che spieghi perché la persona si sente in un modo particolare in concomitanza con alcune tecniche psicoterapiche di decondizionamento e l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ove la verbalizzazione è più limitata con l’obiettivo di ridurre i sintomi ansiosi e depressivi e superare il trauma correlato a tale esperienza.

Per approfondimenti:

Aksakal FN et al (2015).Workplace physical violence, verbal violence, and mobbing experienced by nurses at a university hospital. Turk J Med Sci. 45(6): 1360-8.

Benedetti M (2013). il Mobbing: tipologie del mobbing. Psicologia del Lavoro.

Beckers, Christine/Mertz, Hanne (1998): Mobbing-Opfer sind nicht wehrlos, Friburgo, Herder

Brinkmann, Ralf D. (1995): Mobbing, Bullying, Bossing. Treibjagd am Arbeitsplatz, Heidelberg, Sauer-Verlag

Ege, Harald (1996): Mobbing – che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Bologna, Pitagora

Ege, Harald e Lancioni, Maurizio (1998): Stress e Mobbing, Bologna, Pitagora

Esser, Axel/Wolmerath, Martin (1997): Mobbing – Der Ratgeber für Betroffene und ihre Interessenvertretung, Colonia, Bund

Leymann, Heinz (1993): Mobbing. Psychoterror am Arbeitsplatz und wie man sich dagegen wehren kann, Reinbek, Rowohlt

Leymann H., (1996). The Content and Development of Mobbing at Work. European Journal of work and organizational psychology, 5 (2), 165-188.

Leymann H., (2001). Mobbing at work and the development of post-traumatic stress disorders. European Journal of Work and Organizational Psychology, vol.5, N. 2, 251-275, 1996. vol. 92,  n.1.

SITCC 2018 – La felicità è morale?

di Claudia Perdighe

Quanto la felicità è legata alla percezione soggettiva di essere in linea con i propri valori morali e quanto, invece, è legata alla messa in atto di comportamenti prosociali?

Qualche tempo fa, confrontandomi con Francesco Mancini, notoriamente esperto di senso di colpa, sul mio interesse per il tema della felicità, lui concluse dicendo: “Io credo che, visto come va il mondo, non sia morale avere come scopo di vita la ricerca della felicità in quanto tale ”.
Con un gruppo di colleghi abbiamo portato avanti una serie di studi sul tema della felicità e, infatti, al recente convegno SITCC di Verona abbiamo presentato un simposio dal titolo “Felicità e psicoterapia: psicoterapia come costruzione di condotte funzionali”.
Marzia Albanese ha presentato una ricerca, su un campione di oltre 1200 soggetti, il cui scopo era rispondere essenzialmente a due domande: quanto la felicità è legata alla percezione soggettiva di essere in linea con i propri valori morali? Quanto la felicità è legata alla messa in atto di comportamenti prosociali?
Differentemente dalle ricerche finora elaborate (ad esempio quelle di Tsang o Jans-Beken), dal nostro studio emerge che il fattore che più pesa sul senso di felicità soggettiva è la percezione di fare bene, vale a dire di essere guidato nei propri comportamenti dai propri principi morali. La soddisfazione di sé in senso morale pesa più dell’impegno in comportamenti di tipo prosociale (che, comunque, rimangono fattori predittivi di felicità).
Abbiamo presentato i risultati preliminari di una ricerca nella quale abbiamo provato a manipolare la variabile orgoglio morale, al fine di capire se impegnarsi in comportamenti in linea con i propri valori morali aumentasse il senso di felicità e benessere globale più dell’impegno in comportamenti prosociali o in generiche attività di svago. Anche se ancora preliminari (il campione non è completo), le prime analisi indicano che le persone a cui abbiamo chiesto di impegnarsi in una direzione di orgoglio morale, vedono aumentare in modo stabile il senso di felicità nelle cinque settimane dell’esperimento. Non succede la stessa cosa nelle altre due condizioni: il senso di felicità riferito è più basso e più soggetto a oscillazioni.
Gli ultimi due lavori presentati erano di applicazione clinica: una rassegna su come il training assertivo possa essere usato come strumento di promozione del senso di benessere soggettivo (presentata da Teresa Cosentino) e una relazione sui fattori che promuovono la felicità in età evolutiva. In quest’ultima relazione, Caterina Villirillo ha presentato, attraverso un caso clinico, un protocollo sperimentale di otto incontri, focalizzato sull’aumento della quantità e qualità delle relazioni sociali (principale fattore di felicità nei bambini). Manipolare la sola variabile relazioni ha prodotto effetti sul senso di benessere, sull’autostima e anche sull’andamento scolastico in aree in cui era presente un disturbo specifico dell’apprendimento, dopo due anni di risultati modesti ottenuti attraverso riabilitazione neuropsicologica.
Quali conclusioni? Intanto questi dati ci ricordano che se è vero, come asserisce Mancini, che i disturbi emotivi sono concettualizzabili come un problema di non accettazione e che il cuore della psicoterapia è facilitare l’accettazione, è fondamentale non solo aiutare i pazienti a disinvestire da scopi non ottenibili, ma anche a investire su scopi che sono nel potere del paziente. Ed è vero che i due processi possono procedere parallelamente e favorirsi a vicenda. In particolare, quando la sintomatologia è regolata da un antiscopo, può essere utile aiutare il paziente non solo a disinvestire dall’antiscopo (ad esempio imparare a tollerare di più la possibilità di essere colpevole), ma anche a investire su scopi positivi (ad esempio impegnarsi nei propri valori morali in modo concreto). Del resto, l’accettazione in ultimo non è altro che assumere la corrispondenza tra ordine naturale delle cose ed eventi: accettare è comprendere che la morte, gli abbandoni, le bocciature fanno parte dell’ordine naturale delle cose, piuttosto che una violazione di esso. Accettare e sentirsi felici sono entrambi in questo senso due stati profondamente regolati dalla percezione di essere a posto con i propri diritti e i propri doveri.
Una seconda osservazione, anche se forse un po’ prematura, è che in psicoterapia può essere utile avere degli indicatori che non siano solo il buon senso, su quali sono scopi e obiettivi che più facilmente garantiscono un senso di benessere stabile e con locus of control interno (cosa che può essere inquadrata in termini di prevenzione delle ricadute in senso lato).
Un’ultima conclusione, più attinente al tema, è che non solo non è vero che essere felici è poco morale ma, al contrario, è l’impegno nel bene morale che garantisce un senso di felicità e benessere stabile, d’accordo con una buona parte della tradizione filosofica che va da Socrate e Aristotele a Kant al contemporaneo Zygmunt Bauman. Chiaramente, questa conclusione è connessa strettamente al concetto di felicità che si assume: noi facciamo riferimento a un tipo di felicità concettualizzabile come eudamonica che, semplificando, corrisponde all’essere soddisfatti di sé e della propria vita, contrapposta alla cosiddetta felicità edonistica (una felicità più transitoria, che fa riferimento al provare emozioni positive o non provare emozioni negative).Ritornando a Mancini, è proprio l’impegno morale che sembra dare un senso di felicità stabile. In realtà, ciò che può essere poco morale è la ricerca edonistica di una felicità qui e ora, quando questa sacrifica la dimensione dei doveri e della morale.

 

Per approfondimenti:

Jans-Beken, L., Lataster, J., Peels, D. et al. (2018). Gratitude, Psychopathology and Subjective Well-Being: Results from a 7.5-Month Prospective General Population Study J Happiness Stud, 19: 1673.

Mancini F. (2018). Quali significati cambiare e come? Relazione convegno Società Italiana Terapia Cognitivo-Comportamentale, 20-23 settembre 2018, Verona.

Mancini F., Perdighe C. (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.

Tsang, J.-A. (2006). Gratitude and prosocial behaviour: An experimental test of gratitude. Cognition and Emotion, 20(1), 138-148