Verso una definizione comune di dipendenza affettiva patologica: una nuova scala di misurazione basata su un modello cognitivo

di Paola Lioce

Secondo il modello cognitivo della dipendenza affettiva patologica (DAP) sviluppato da Erica Pugliese e collaboratori, la DAP può essere considerata un fenomeno relazionale in cui almeno uno dei due membri della coppia ha un bisogno indispensabile dell’altra persona – tipicamente un partner violento o manipolatore – e protegge la relazione a tutti i costi. La rottura causa una sofferenza emotiva intollerabile, così la persona rimane intrappolata nella relazione. Dal momento che il partner del dipendente affettivo patologico causa una continua frustrazione di scopi importanti di relazione come l’autostima, l’autonomia e la sicurezza, queste persone vivono un conflitto spesso non consapevole tra il mantenimento del legame di attaccamento e lo scopo di proteggere sé stessi e l’autostima. Spesso queste persone mantengono la relazione nella speranza di un cambiamento del partner che, non solo non si verifica mai, ma che congela a lungo il rapporto con gravi conseguenze in termini di disturbi fisici e/o psicologici. In questi casi non è inedito arrivare a una degenerazione della relazione in vera e propria violenza intima da parte del partner di tipo fisico o psicologico.

Ma qual è il profilo tipico del dipendente affettivo patologico? Per quale ragione non riesce ad uscire dalla relazione pur essendo consapevole delle conseguenze negative che essa porta? Secondo il modello cognitivo della DAP spesso l’adulto con dipendenza affettiva è stato un bambino che ha subito traumi di deprivazione emotiva e abuso. Potrebbe essere nata una identificazione con il genitore che portava avanti la missione di amore e sacrificio verso il partner problematico oppure potrebbe essere stato un figlio dedito a salvare il genitore abusato e trascurato dal partner. Mantenere la relazione nonostante il disagio vissuto ha le sue origini nel desiderio spesso inconsapevole di rimediare ai traumi vissuti durante l’infanzia.
Lo scopo principale della persona dipendente affettiva non è ricevere cura dei suoi bisogni (come succede nel disturbo dipendente di personalità). Il “dipendente affettivo” considera “noiosa” la relazione con il partner amorevole, si sente oppresso dai partner premurosi e continua a scegliere partner sfuggenti o distanti. Lo scenario peggiore per il dipendente affettivo è la rottura del rapporto con il partner e di conseguenza fa di tutto per mantenere la relazione tossica ed essere amato come sogna. L’antiscopo comune a tutti i soggetti con dipendenza affettiva patologica è dunque la rottura del legame con il partner.

Negli ultimi decenni si è registrato negli studi di psicoterapia un aumento del tasso dei pazienti vittime di relazioni intime disfunzionali e violente. Nonostante i dati siano allarmanti, il concetto di dipendenza affettiva patologica non trova ancora posto nella nosologia psichiatrica.

Sulla base del modello cognitivo di DAP sopra citato è stata recentemente sviluppata una scala di misurazione della dipendenza affettiva patologica chiamata PADS (Pathological Affective Dependence Scale). La scala è stata testata su un campione clinico di 25 persone di età compresa tra 29 e 61 anni reclutate in un gruppo di auto mutuo aiuto Millemè – violenza di genere e dipendenze affettive e nel centro di psicoterapia, presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma (SPC). Gli item della PADS sono articolati in quattro fattori principali, che possono descrivere il funzionamento mentale del dipendente affettivo tipico: Fattore Altruistico (quando si vuole evitare la sofferenza dell’altro ritenuto bisognoso); Fattore Deontologico (quando ci si ritiene indegni di un altro partner); Fattore Vulnerabilità (quando ci si considera vulnerabili e si mantiene la relazione per evitare di sentirsi soli e in pericolo) e Fattore Conflitto. Il conflitto può essere di tre tipi: Assente (nel momento in cui la persona non si rende conto di stare in una relazione tossica ma gli altri glielo fanno notare), Alternato (quando si alternano momenti di consapevolezza della disfunzionalità della relazione, a momenti di soddisfazione), Akrasico (quando ci si rende conto che sarebbe il caso di interrompere la relazione ma la persona non riesce a rinunciarvi).

Sembrerebbe che la dipendenza affettiva patologica sia la base cognitiva ed emotiva della violenza di genere; dunque, identificare i profili di DAP è utile per intervenire prima che la dipendenza affettiva sfoci in violenza e a lavorare anche con programmi psicoeducativi (ad esempio in contesti come scuole, università, centri antiviolenza, servizi sociali ecc.). Avere a disposizione uno strumento che possa misurare la sintomatologia che presenta la persona con dipendenza affettiva patologica potrà essere un valido aiuto in questa direzione.

Bibliografia

American Psychiatric Association (APA) (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (5th ed.). Author.

Iannucci, Perdighe, Saliani, & Pugliese, E. (2021). Karina. Il Legame Irrinunciabile: Scopi, Anti-Goal e Conflitti Tipici della Dipendenza Affettiva Patologica. Cognitivismo Clinico.

Perdighe, C., Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2022). Gaslighting: una sofisticata forma di manipolazione, difficile da riconoscere. Psicoterapeuti in-formazione.

Pugliese, E., Saliani, A. M., & Mancini, F. (2019). Un Modello Cognitivo delle Dipendenze Affettive Patologiche. Psicobiettivo, 1, 43-58.
https://doi.org/10.3280/PSOB2019-001005

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15, 1624.
https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A.M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., Cellitti, E., Barbaro, G.F., Goffredo, M., Lioce, P., Orsini, E., Quintavalle, C., Rienzi, S., Vargiu, A., & Mancini, F. (2023). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14, 305-333.
https://doi.org/10.4236/psych.2023.142018

Kane, T. A., Staiger, P. K., & Ricciardelli, L. A. (2000). Male Domestic Violence: Attitudes, Aggression, and Interpersonal Dependency. Journal of Interpersonal Violence, 15, 16-29. https://doi.org/10.1177/088626000015001002

Foto di Anete Lusina:
https://www.pexels.com/it-it/foto/mano-di-persone-sul-tessuto-bianco-5723261/

Si può calcolare il rischio di violenza?

di Giuseppina Lauria

A cura di Erica Pugliese

Uno studio di ricerca sulla dipendenza affettiva e la violenza di genere presso l’SPC di RomaSono sei milioni e 788 mila le donne che hanno subìto violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Tre milioni e 466 sono vittime di stalking. Il numero di figli che assistono a episodi di violenza aumenta dal 60,3% nel 2006 al 65,2% nel 2014.
Soprattutto nei casi di violenza domestica, è molto probabile che gli abusi non siano episodi singoli e sporadici. Dalle indagini Istat emerge, infatti, che chi si rivolge al Telefono Rosa subisce violenza fisica e psicologica da mesi (19,9%; 22,8%) o da anni (77,7%; 72,3%). La Direttiva UE del 2012 ha posto l’accento sul rischio di vittimizzazione ripetuta e ha affermato che “solo una valutazione individuale e tempestiva può calcolarlo”.  Alcuni Paesi europei – come Svezia, Spagna, Portogallo e Inghilterra – hanno introdotto all’interno delle forze dell’ordine l’uso di questionari per individuare i casi ad alto rischio.Ma questi strumenti funzionano?
La risposta della ricerca condotta nel 2019 da Emily Turner, Juan Medina-Ariza e Gavin Brown, docenti all’università di Manchester è “no”.
I questionari finora utilizzati non funzionano anche perché sono nati in un momento storico in cui gli studi sulla violenza di genere e la giurisprudenza sul tema erano solo agli inizi. Ma lo studio evidenzia un fenomeno rilevante: i casi ad alto rischio vengono individuati con maggiore cura dagli ufficiali che si dimostrano più empatici e accoglienti con la vittima. Questo dimostra che il somministratore è una variabile importante.Se incrociamo questo dato con quelli rilevati dall’Istat dal 2013 al 2019, emerge l’importanza non solo di proseguire la ricerca per affinare l’efficacia degli strumenti, ma anche di formare chi li utilizzerà e promuovere campagne di informazione.Gli anni in cui si sono registrate il maggior numero di telefonate al numero verde coincidono, infatti, con quelle della messa in onda di pubblicità progresso, indice che queste riescono a raggiungere un pubblico più ampio. Se il 78% delle vittime sceglie di non parlare con nessuno è anche per la scarsa informazione riguardo i servizi di supporto alle vittime.Ma questo non è l’unico problema.
Dei 59.975 dei casi di violenza registrati dal numero verde, solo il 17,7% decide di denunciare e non ritirare la denuncia. Le ricerche italiane confermano che la sensibilità e il tipo di reazione che gli ufficiali hanno nei confronti della vittima condiziona la sua scelta di dare visibilità al fenomeno.
Oltre alla paura e alle pressioni esercitate dal contesto familiare, ben 2.582 persone dichiarano di ritirare la denuncia perché invitate direttamente dalle forze dell’ordine a farlo.
Il Governo italiano ha comunque provato ad attuare delle misure di contrasto alla violenza domestica e di genere, stabilendo per questi casi una sorta di corsia preferenziale. Il 9 agosto 2019 è entrata in vigore la legge n.69 o “Codice Rosso” che, oltre ad inasprire le pene e a introdurre i reati di revenge porn e sfregi al viso, stabilisce un limite di tre giorni per ascoltare la vittima o chi ha sporto denuncia.
Nonostante lo sforzo, la legge ha creato nella pratica un effetto paradosso. Il fatto che non siano stati stanziati fondi, aumentato il personale e previsti corsi di formazione per lo stesso, impedisce di rispondere in maniera appropriata all’aumento delle denunce, causando un rallentamento della procedura che si voleva velocizzare.
Al fine di colmare questo gap metodologico, il project di ricerca “Dipendenze affettive e violenze di genere” della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma si sta occupando dello sviluppo di strumenti adeguati che misurino questo costrutto in termini di determinanti cognitivo-comportamentali con riferimento al modello sulle dipendenze affettive proposto da Erica Pugliese, Angelo Saliani e Francesco Mancini.
Gli autori sostengono, inoltre, la necessità di una formazione specifica delle persone coinvolte nel processo di messa in sicurezza delle vittime, di un trattamento specifico che lavori sul loro presente ma anche sulle loro vulnerabilità storiche, spesso traumatiche, e la diffusione dell’informazione per contrastare il fenomeno.

Per approfondimenti

Pugliese E., Saliani A. M., Mancini F. (2019) Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche, in “PSICOBIETTIVO” 1/2019, pp. 43-58.Turner E., Medina-Ariza J., Brown, G. (2019). Dashing Hopes? The Predictive Accuracy of Domestic Abuse Risk Assessment by Police? The British Journal of Criminology.

Violenza: in Italia è colpa della donna

di Teresa Vigilante a cura di Erica Pugliese

Il pregiudizio che condanna le donne come responsabili delle violenze subite e l’urgenza di un modello di intervento per combattere il fenomeno della violenza di genere

In occasione del 25 novembre 2019, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, l’Istituto Nazionale di Statistica (Istat) ha raccolto e divulgato dati relativi agli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale. Tale report ha evidenziato dati allarmanti sulla persistenza del pregiudizio che condanna la donna come principale responsabile delle violenze subite: 

  • il 39,3% della popolazione sostiene che la donna, con la sua volontà, sarebbe in grado di sottrarsi alla violenza sessuale;
  • il 23,9% ritiene che siano le donne a provocare la violenza sessuale a causa del loro modo di vestire;
  • il 15,1% reputa le donne parzialmente responsabili nel subire violenze sessuali quando sono sotto l’effetto di alcol o droghe;
  • il 13,6% della popolazione giustifica la violenza nelle relazioni intime come conseguenza di comportamenti civettuoli delle donne verso un altro uomo. 

Da un’analisi approfondita emergono convinzioni tipo: “è accettabile che un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un altro uomo”, “in una coppia può scappare uno schiaffo ogni tanto”. E accuse ancor più gravi come: “di fronte a una proposta sessuale, le donne spesso dicono ‘no’ ma in realtà intendono sì”.

Per gli italiani, inoltre, è ritenuto normale e accettabile il controllo che alcuni uomini pretendono di avere sulla vita della loro partner, violandone il diritto inestimabile di libertà. Riguardo quest’ultimo punto e, quindi, sul perché alcuni sono violenti con le proprie compagne, sono emersi dati agghiaccianti:

  • Il 77,7% degli italiani sostiene che le donne siano oggetti di proprietà; il 75% sostiene che le donne che subiscono violenza fanno abuso di alcol e di stupefacenti;
  • il 75% sostiene che le donne che subiscono violenza fanno abuso di alcol e di stupefacenti;
  • un altro 75% afferma che gli uomini usano la violenza perché sentono il bisogno di sentirsi superiori alla propria compagna, una credenza che trova riscontro in aggiuntivi stereotipi di genere secondo cui “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” (8,8%), “il successo nel lavoro è più importante per l’uomo che per la donna” (32,5%), “l’uomo deve provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%).

Nel 2018, delle 133 donne uccise, l’81,2% è stata uccisa da una persona conosciuta. In particolare, in più della metà dei casi (54,9%) la donna è stata uccisa dal partner attuale o dal precedente.

Questi dati sollevano l’emergenza di un intervento sul fenomeno della violenza di genere nel nostro Paese, che non possa esimersi dal considerare anche aspetti culturali. Colpevolizzare la donna è una forma di violenza secondaria e allontana dal diritto legittimo di sottrarsi a una relazione violenta, rendendo sempre più difficoltosa la possibilità di uscire da una relazione pericolosa. Erica Pugliese, Angelo Saliani e Francesco Mancini, psicoterapeuti dell’Associazione di Psicologia Cognitiva, affermano che le vittime di violenza vivono una condizione di dipendenza affettiva patologica che si caratterizza per la tendenza a sovrainvestire nella relazione anche quando il legame con il partner ha conseguenze sulla salute psicologica e fisica della persona o quando è la vita dei propri cari a essere in pericolo. Queste relazioni si distinguono, inoltre, per il tentativo, da parte del dipendente affettivo, di amare o salvare qualcuno emotivamente fragile e irraggiungibile che il più delle volte finirà per maltrattare il partner. La maggior parte delle vittime di violenza riferisce, infatti, la presenza di un conflitto intrapsichico di scopi, per esempio, tra il voler andare via e il voler restare, tra il voler riprendere in mano la propria vita e il non riuscire a rinunciare all’altro, e che questo continuo oscillare senza soluzione è mantenuto molto spesso dal senso di colpa come se, nella percezione della vittima, la violenza ricevuta non fosse un atto ingiustificabile del partner ma una propria responsabilità.

Una cultura, come quella italiana, che rafforza questa credenza e non supporta la donna, non le permette di salvarsi, anzi la imprigiona nello stereotipo di chi quelle botte e quel dolore se l’è pure cercato. L’implementazione di un modello teorico e d’intervento, in chiave cognitivista, che esplica il funzionamento psico-patologico dalla dipendenza affettiva e che scagiona finalmente, dal punto di vista scientifico, la vittima da credenze patogene su eventuali responsabilità, potrebbe contribuire alla sensibilizzazione di tale fenomeno e alla riduzione degli stereotipi di genere, rendendo chiaro il concetto che subire violenza non è una scelta. 

Se sei vittima di violenza, non è colpa tua. Chiedi aiuto, rompere il silenzio è il primo passo per riprenderti la tua vita.

Per approfondimenti:

Pugliese E., Saliani A.M., Mancini F., “Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche”. Psicobiettivo 1/2019, 43-58, doi:10.3280/PSOB2019-001005
http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/11/25/violenza-sulle-donne-la-colpa-e-loro.-per- 239-la-causa-e-il-modo-di-vestire-_96ac3818-2341-42d8-87ca-9f9e3a7b29ca.html
https://www.istat.it/it/archivio/235994

Il filo di Arianna

di Caterina Parisio

Dipendenza affettiva e paura dell’abbandono

Pare che l’espressione “piantare in asso” si debba a Teseo che, uscito dal labirinto grazie all’aiuto di Arianna, anziché riportarla con sé da Creta ad Atene, la lascia sull’isola di Naxos. In Naxos: in asso, appunto.

Scorrendo le pagine dell’ultimo libro di Chiara Gamberale, “L’isola dell’abbandono”, si può trovare questa digressione al mito greco di Teseo e Arianna, usata per tessere le fila della storia della protagonista: una storia di abbandono e dipendenza, cambiamento e rinascita. Proprio sull’isola di Naxos, Arianna, l’inquieta e misteriosa del romanzo della Gamberale, sente l’urgenza di tornare. È lì che, dieci anni prima, in quella che doveva essere una vacanza, è stata brutalmente abbandonata da Stefano, il suo primo, disperato amore, e sempre lì ha conosciuto Di, un uomo capace di metterla a contatto con parti di sé che non conosceva e con la sfida più estrema per una persona come lei, quella di rinunciare alla fuga. E restare. Ma come fa una straordinaria possibilità a sembrare un pericolo? Come fa un’assenza a rivelarsi più potente di una presenza?

Il tema della dipendenza affettiva e della paura dell’abbandono ha radici molto lontane: Ovidio nel 24 a.C. introduceva così l’argomento: “non posso vivere né con te né senza di te”. Sebbene le origini siano così profonde, ad oggi la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientra tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali; essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si trovano la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo.

Il tema della dipendenza affettiva e della paura dell’abbandono ha radici molto lontane: Ovidio nel 24 a.C. introduceva così l’argomento: “non posso vivere né con te né senza di te”. Sebbene le origini siano così profonde, ad oggi la dipendenza affettiva, per insufficienza di dati sperimentali, non rientra tra i disturbi mentali diagnosticati nel DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali; essa viene classificata tra le “New Addiction”, nuove dipendenze di tipo comportamentale, tra cui si trovano la dipendenza da internet, il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo.

Esattamente come avviene nella dipendenza da sostanze, anche nella Dipendenza Affettiva con il passare del tempo tutto inesorabilmente ruota intorno al partner; spesso la persona dipendente si chiude o evita volutamente gli altri nel tentativo di proteggersi dalle critiche o dal temuto abbandono.

Solitamente sia gli interessi sia gli hobby vengono progressivamente abbandonati e il fulcro dell’esistenza diventa il partner; anche il rendimento lavorativo diminuisce perché la persona ha la mente costantemente occupata dai suoi problemi sentimentali e trascorre molto tempo a rimuginare per cercare di risolverli. Nei casi estremi, per esempio anche quando il partner è violento, i pazienti dipendenti tendono a giustificarlo, si isolano, mentono o non chiedono aiuto pur di proteggerlo; spesso non riescono a lasciarlo anche quando è a rischio la loro incolumità fisica. Generalmente, i pazienti con Dipendenza Affettiva sono consapevoli degli effetti devastanti che il partner ha nella loro vita, ma esattamente come i tossicodipendenti, non riescono ad astenersi dalla relazione.

La protagonista del libro della Gamberale, incastrata all’interno di una relazione tossica, sperimenta una delle paure più profonde del dipendente affettivo, la paura di perdere la persona amata, il timore dell’abbandono.

Arianna sceglie, come suo primo grande amore, Stefano, un uomo incapace di essere presente, di amare, dall’umore labile, al quale fa più da madre che da compagna. Arianna e Stefano si incontrano in un reciproco bisogno, che li incastra in una disfunzionale dinamica relazionale: da una parte, Stefano ha bisogno di Arianna per uscire dal labirinto della sua mente, dall’altra Arianna ha bisogno di legarsi a qualcuno che è incapace di essere presente, cosa che, pur facendola soffrire, le è pur sempre familiare e confortevole.

Chi soffre di Dipendenza Affettiva si sente inadeguato e non degno di amore e vive costantemente con il terrore di essere abbandonato dal partner. La paura dell’abbandono induce al tentativo di controllare l’altro con comportamenti compiacenti di estrema sacrificalità, di disponibilità e accudimento, con la speranza di rendere la relazione stabile e duratura.

La tendenza stessa a costruire una relazione di non mutualità, in cui l’altro e i suoi bisogni sono centrali, induce a lasciare spazio a personalità egocentriche e anaffettive, che finiscono per confermare in chi soffre di dipendenza affettiva la paura di non poter essere degni di amore. Il risultato è un aumento della sacrificalità e un continuo colpevolizzarsi per l’andamento insoddisfacente della relazione. L’altro è rincorso esattamente come fanno i giocatori d’azzardo che “rincorrono la perdita” e non riescono a smettere di giocare.

L’abbandono di Stefano a Naxos, che produce una grande sofferenza in Arianna, si tramuta tuttavia in un’occasione di svolta allorché, proprio in quell’isola, incontra di lì a poco Di (il Dioniso del mito), un uomo che invece è disposto ad esserci e ad amarla in modo autentico.

ll mito di Teseo e Arianna, dopo l’abbandono della giovane a Naxos, si sviluppa in molteplici varianti, di cui due versioni appaiono particolarmente interessanti: nella prima, il dio Dioniso dona una corona ad Arianna per consolarla e la rende immortale, trasformandola in una costellazione (la Corona Boreale), che diventa una sorta di simbolo perenne dell’abbandono subito; nella seconda versione, invece, Dioniso, giunto sull’isola e innamoratosi di Arianna, la sposa e la fa diventare una dea e il diadema d’oro ricevuto come dono di nozze, lanciato in cielo, diventa costellazione.

Queste due varianti del mito sembrano rappresentare i due possibili modi di reagire all’abbandono: rimanere congelati nel dolore, facendo in modo che la paura di essere lasciati continui a condizionare le nostre scelte, oppure elaborare quel dolore e imparare a gestire quella paura, aprendoci così a nuove opportunità.

“Perché non sono quando non ci sei”

di Caterina Parisio

Dipendenza: da fenomeno fisiologico a psicopatologia

 Nella notte tra l’11 e il 12 settembre 1902, Mathilde Tulla Larsen, amante del celeberrimo pittore Edward Munch, in seguito al suo ennesimo rifiuto a sposarla, fece giungere all’artista la notizia che ella era in fin di vita a causa di un’overdose di morfina. Quando Munch giunse a casa di Tulla, la trovò avvolta in un sudario e distesa in una bara, circondata da candele. Vedendolo, ella si sollevò stremata gridando: “Era l’unico modo per farti giungere a me!”.
Curiosa, a tratti comica, la scenetta di Tulla ed Edward, profondamente triste e tragica nella sua verità: quando una relazione si trasforma in qualcosa di tossico.

Esiste un momento preciso durante il quale una relazione approda a una dimensione patogena e patologica? Vari autori sottolineano la necessità di distinguere la dipendenza come fenomeno fisiologico dalla dipendenza intensa come Disturbo di Personalità. John Birtchnell considera la dipendenza negli adulti l’equivalente dell’attaccamento nei bambini e sottolinea come essa possa essere normale in alcune situazioni come le malattie invalidanti o nell’infanzia. L’autore evidenzia, come caratteristica del disturbo, l’incapacità di stabilire una propria identità separata da quelle delle figure di riferimento.
La dipendenza può, del resto, essere considerata come un atteggiamento etologicamente adattivo e appropriato in alcuni contesti, che spinge verso la ricerca di protezione da parte di un altro ritenuto più forte, ma che può determinare, in alcune situazioni cliniche, una grave menomazione del funzionamento personale e sociale.
La dipendenza problematica, legata alla stabilità di relazioni interpersonali disadattive, non configura sempre un Disturbo Dipendente di Personalità, ma è una dimensione comune a vari funzionamenti psicopatologici. La richiesta continua di rassicurazione, l’impossibilità di esprimere disaccordo e il prestarsi a compiti spiacevoli, sono modalità finalizzate al mantenimento della dipendenza dalle figure significative; sottomissione, l’essere facilmente feriti dalla critica e dalla disapprovazione, l’aggrapparsi alle relazioni sono, invece, manovre difensive tipiche del disturbo.

Gli stati mentali caratteristici di pazienti con DDP oscillano tra stati di autoefficacia, in cui il soggetto ha di sé un’immagine positiva, forte e adeguata, e stati di vuoto terrifico disorganizzato, in cui predomina una rappresentazione di sé inadeguato e fragile.

Il sé fragile è caratterizzato da temi di minaccia, solitudine, abbandono e perdita. La sensazione costante è quella di essere incapace a fronteggiare gli eventi da solo; è pervasiva la necessità di essere presenti nella mente dell’altro, di avere una profonda condivisione e sintonia. La fragilità si esprime nel timore costante di abbandono.

Se da un lato, il mantenimento della dipendenza consente la permanenza di una rappresentazione di sé come competente (ma non annulla quella di un sé debole), dall’altro, la rottura della dipendenza genera lo stato mentale temuto di vuoto disorganizzato. È caratterizzato da temi di pensiero di abbandono e perdita e da assenza di desideri attivi.

La dipendenza non è legata a un semplice bisogno di aiuto e rassicurazione contro le paure, ma è ciò su cui si basa la regolazione delle scelte, permette di percepire scopi e desideri, contrasta sensazioni terrificanti di vuoto: è la dipendenza che fa sentire vivo il soggetto! Combattere la dipendenza in questi pazienti è come voler riabilitare la muscolatura di un arto dopo la frattura, riducendo il funzionamento dell’arto sano. Sarà un lungo lavoro di potenziamento dei processi di riconoscimento dei propri scopi e di regolazione dei piani a equilibrare la dipendenza sintomatica versa una forma più funzionale.

Quando Munch, giunto a casa dell’amante, comprese l’inganno, sembra che disgustato decise di allontanarsi, ma ella, disperata, impugnò un revolver per uccidersi.

Ah Tulla, ad averti avuta in terapia chissà, forse avresti regolato meglio le tue scelte!

Per approfondimenti

Giancarlo Dimaggio, Antonio Semerari (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Ed. Laterza

Quiz: la vostra è una relazione sana?

di Erica Pugliese

Cosa definisce un amore sano? Ce lo spiega la nota psicologa, ricercatrice e scrittrice Sue Johnson con la sua Teoria Focalizzata sulle Emozioni, secondo la quale sentirsi sicuri, accettati e connessi emotivamente l’uno all’altro sono gli ingredienti fondamentali di una relazione soddisfacente

Amare è un bisogno primario, come l’ossigeno o l’acqua, un’esperienza meravigliosa ricca d’insegnamenti e stimoli alla crescita ma che può trasformarsi in una delle più devastanti fonti di dolore, come quando si viene lasciati mentre si ama oppure quando uno o entrambi i partner maltrattano l’altro o si dimostrano per niente o poco disponibili. Ci si può trovare, così, a lottare da soli nella relazione, nonostante i costi pagati più o meno consapevolmente. Questa condizione, definita come “dipendenza affettiva”, ha conseguenze anche gravi in diverse aree della vita della persona, come quella lavorativa, familiare e sociale. Ma la dipendenza non è sempre una caratteristica negativa, anzi, sentirsi legati a qualcuno è un’esperienza positiva e universalmente ricercata in tutte le culture.
Sue Johnson, psicologa clinica e fondatrice della Teoria Focalizzata sulle Emozioni, afferma che la chiave di una relazione intima positiva e duratura è quel senso di sicurezza provato da entrambi i partner, inteso come la loro capacità di connettersi e riconnettersi con lo stesso ritmo, come accade quando si danza.

Quando siamo sicuri con l’altro:

  • Ci sentiamo a nostro agio vicino a quella persona e sereni di poter dipendere dal nostro amato.
  • Siamo più disponibili a richiedere supporto e a offrirlo.
  • Siamo meno aggressivi e ostili quando ci arrabbiamo con il partner.
  • Siamo in grado di comprendere meglio ciò che desideriamo noi e gli altri.
  • Ci sentiamo più indipendenti e in grado di gestire meglio eventuali separazioni, risolvere i problemi e raggiungere traguardi.

L’autrice ha costruito un breve questionario – presentato di seguito – finalizzato a conoscere il grado di connessione emotiva dei partner. Il questionario è suddiviso in tre parti, per un totale di 15 affermazioni.

Per ciascuna di esse va indicato con “V” quando è vera o con “F” quando è falsa e assegnato un punto solo alle affermazioni vere. Il questionario può essere completato da soli e il partner rifletterà per conto suo sulla relazione. Oppure può essere compilato e discusso insieme al partner.


Dal tuo punto di vista, il tuo partner è accessibile?

  1. Posso ottenere facilmente le attenzioni del mio partner V F
  2. Il mio partner si connette facilmente con le mie emozioni V F
  3. Il mio partner mi dimostra che io sono la sua priorità V F
  4. Non mi sento sola o esclusa in questa relazione V F
  5. Posso condividere i miei sentimenti più profondi con il mio partner. Lui/Lei mi ascolta V F

Dal tuo punto di vista, il tuo partner risponde positivamente ai tuoi bisogni?

 

  1. Se ho bisogno di contatto e conforto, Lui/Lei me lo offre V F
  2. Il mio partner risponde positivamente quando sento il bisogno di averlo vicino V F
  3. Penso di potermi appoggiare al mio partner quando mi sento ansioso o insicuro V F
  4. Tutte le volte che noi litighiamo o che non ci troviamo in accordo, Io so di essere importante per il mio partner e che troveremo una soluzione insieme V F
  5. Quando ho bisogno di ricevere rassicurazioni su quanto sono importante per il mio partner so di poterle ottenere V F

Siete positivamente connessi dal punto di vista emotivo?

  1. Mi sento molto a mio agio quando sono vicino al mio partner, mi fido di Lui/Lei V F
  2. Posso confidare al mio partner quasi tutto V F
  3. Mi sento al sicuro, anche quando siamo lontani, so che siamo connessi l’uno/a con l’altra/o V F
  4. So che il mio partner si prende cura della mia felicità, dei miei dolori e delle paure V F
  5. Mi sento abbastanza sereno nel rischiare di espormi emotivamente con il mio partner V F

Se la somma delle affermazioni vere è maggiore o uguale a 7, vuol dire che tu e il tuo partner avete un legame abbastanza sicuro e positivo.

Se invece hai raggiunto un punteggio inferiore a 7, vuol dire che il vostro legame va meglio approfondito: comprendere i confini tra te e il tuo partner e condividere come lo vedi è il primo passo per iniziare a creare la connessione della quale entrambi avete bisogno. La percezione di quanto il tuo partner è accessibile, responsivo e connesso emotivamente e quanto la relazione è stata valutata sicura coincide con la sua di percezione? Prova a ricordare che il tuo partner sta descrivendo quanto si sente sicuro ora nella relazione con te e non se tu sia un partner più o meno perfetto. Potete parlare a turno di ciascuna affermazione o risposta che sembra importante per voi. L’ideale sarebbe parlare circa cinque minuti a testa.
Se ti senti a tuo agio, prova a esplorare le affermazioni e le risposte che ti hanno attivato emozioni intense. Prova a farlo con lo spirito di aiutare il tuo partner a sintonizzarsi con i tuoi sentimenti.
Lui/Lei non sarà capace di farlo se entri in una modalità negativa, quindi evita critiche e colpevolizzazioni. Anche in questo caso, è indicato parlare cinque minuti a testa senza interruzioni dell’altro.

Ora che hai un’idea di ciò che l’amore e la dipendenza positiva sono, sai anche se ti trovi in una relazione patologica.

Se sei in una relazione intima negativa e non sai come uscirne, chiedi aiuto. Parlarne è il primo passo per ritornare a stare bene.

 

Per approfondimenti

Johnson, S. (2011). Hold me tight: your guide to the most successful approach to building loving relationships. Hachette UK.

La spirale distruttiva della co-dipendenza

di Erica Pugliese

Che cosa ti spinge a riempire le carenze del partner o a rimediare alle conseguenze delle sue stesse azioni?

Rubrica “Se mi lasci mi cancello? Dipendenza affettiva e violenza di genere”

Sebbene non sia ancora stata riconosciuta tra i disturbi del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), la co-dipendenza è una problematica ascrivibile a relazioni patologiche e influenza la salute psicologica delle persone con conseguenze anche gravi. Si distingue per un atteggiamento di cura eccessiva verso l’altro che può sfociare anche nella messa in atto di comportamenti auto-distruttivi al fine di assicurarsi la vicinanza nella relazione. Tale condizione conduce, nel tempo, a una ridotta capacità di avere una sana e soddisfacente vita relazionale. Le persone co-dipendenti tendono spesso, infatti, a formare e a mantenere relazioni abusive o violente dal punto di vista psicologico, emotivo e fisico, caratterizzate in genere da dipendenza affettiva patologica. Quest’ultima può essere definita come un tipo particolare di rapporto nel quale i partner, nonostante il malessere percepito e gli alti e bassi, non si liberano ma mantengono compromettendo la loro salute psicofisica.

 

Chi sono i co-dipendenti?

I co-dipendenti si caratterizzano per una forte tendenza al controllo, da un’eccessiva preoccupazione per gli altri e da comportamenti di aiuto e sacrificio del sé finalizzati a sentirsi utili, vivi o di valore per il partner. Spesso il legame si crea o si solidifica proprio quando l’altro si trova nella condizione di necessità ed è bisognoso di cure. Ciò che contraddistingue queste forme di relazione patologica è, infatti, proprio la condizione di bisogno e la tendenza del co-dipendente a mettere i propri bisogni e desideri in secondo piano rispetto a quelli dell’altro, con un impiego abnorme di energie e tempo. I co-dipendenti assumono dunque tipicamente il ruolo di ammirare, rispecchiandosi e prendendosi cura del partner idealizzato il quale sembra invece essere assorbito completamente da sé. Nonostante i tentativi di aiuto e cure profuse, è possibile che inconsciamente temano la guarigione del loro amato, a causa di una reale o immaginaria paura di essere abbondonati perché non più utili.

Che cosa origina la co-dipendenza?

La co-dipendenza si origina molto spesso a seguito di rapporti genitoriali distruttivi, negligenti, con problematiche psichiatriche, un passato abusivo o partner fortemente centrati su sé. Storicamente questo costrutto è stato introdotto per la prima volta nella letteratura clinica con riferimento ai compagni o in genere ai familiari di dipendenti da alcol che sembravano vivere un malessere comune e altrettanto invalidante: accadeva spesso che questi riproducessero il comportamento di dipendenza appreso in famiglia ma questa volta su altri target, non necessariamente le sostanze, come il sesso, il gioco d’azzardo e le relazioni affettive. Per questa ragione furono creati dei gruppi appositi di auto-aiuto chiamati Al-Anon/Alateen e Al-Anon Family Groups.

Il circolo vizioso della co-dipendenza: la spirale vittima-salvatore-persecutore.

Il malessere percepito, i tentativi di controllo del comportamento disfunzionale dell’altro, le cure e l’aiuto offerti e la colpa che segue spesso il fallimento del proprio intervento, sono gli elementi del circolo vizioso nel quale le persone con una problematica di co-dipendenza sembrano incastrarsi. Il partner del co-dipendente, si presenta inizialmente come vittima e il co-dipendente assume di conseguenza il ruolo di salvatore. La vittima, per ricambiare amore e cure ricevute, si dimostra motivata a superare i suoi problemi e a cambiare, promettendo al salvatore di concludere definitivamente i comportamenti che generano malessere, come per esempio l’assunzione di alcol, cocaina, gioco d’azzardo, tradimenti, silenzi forzati o vari abusi psicologici o fisici, co-partecipando a pieno titolo alla costruzione della coppia co-dipendente, che vede l’alternanza dei ruoli vittima, salvatore e persecutore. Se per un breve periodo le cose possono andare bene, ben presto la situazione precipita. Il comportamento patologico, infatti, si ripresenta: la vittima potrebbe bere di nuovo, fare uso di cocaina, giocarsi i soldi dello stipendio, tradire, scomparire per un periodo, ecc. A questo punto, può pretendere di essere lasciata in pace, chiedere soldi o diventare violenta, trasformandosi da vittima bisognosa di aiuto a persecutore freddo e distaccato, facendo divenire il co-dipendente la sua vittima. Dopo la ricaduta, accade spesso che il persecutore crolli e ricerchi l’aiuto del co-dipendente ricreando la diade vittima-salvatore. A nulla servono i continui progetti saltati, le promesse non mantenute e le aspettative disattese: il co-dipendente non placa la sua illusione salvifica, che lo spingerà a credere ancora una volta che cambiando strategia riuscirà prima o poi a salvare il partner, che in qualche modo capirà, guarirà, che lo farà per lui, lei o per la loro famiglia in una spirale patologica distruttiva.

Quali sono le credenze patologiche?

La ragione del comportamento di co-dipendenza è un forte senso d’inadeguatezza e di indegnità del sé che fa pensare di possedere valore soltanto nel momento in cui si è necessari e indispensabili per un altro. La co-dipendenza è supportata, inoltre, dalla credenza secondo la quale il sacrificio del sé rappresenta il prezzo che uno deve pagare per mantenere un certo grado di sicurezza nella relazione.

L’amore è vissuto, dunque, come il riflesso del prendersi cura dell’altro in maniera eccessiva e controllante ed è possibile che, anche quando questo pattern di comportamenti causa danni personali, l’individuo che ha possibilità e facoltà decida di non separarsi creando una condizione conosciuta come “dipendenza affettiva”.

Se ti trovi in una relazione con queste caratteristiche, domandati come mai ti stai facendo del male per aiutare gli altri. Perché ti ritrovi a sostenere qualcuno che è instabile, immaturo, irresponsabile, sconsiderato, assente o fallito. Che cosa ti spinge a riempire le sue carenze, a mentire a te stesso o agli altri o fare cose per proteggerlo dalle conseguenze delle proprie azioni.

Per uscire dalla condizione di co-dipendenza è necessario prima di tutto essere consapevoli del problema, riconoscere l’esistenza e l’importanza dei propri bisogni e sostituire le credenze negative automatiche fonte di dolore e i vecchi comportamenti disfunzionali con modalità di pensiero e di azione più sane. A tal fine si suggerisce di intraprendere una terapia individuale o di gruppo che consenta il lavoro sugli stati ansiosi, depressivi e di rabbia che caratterizzano questa condizione per migliorare, di conseguenza, la qualità della vita e delle relazioni con gli altri.

 

Per approfondimenti:

Borgioni, Massimo (2015). Dipendenza e contro-dipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota. Roma, Alpes.

Sono io il narcisista?

di Erica Pugliese

Ogni giorno milioni di utenti chiedono a Google di rispondere a molte delle loro domande. Una di queste sembra proprio essere: sono narcisista? Ecco la risposta

Rubrica
Se mi lasci mi cancello? Dipendenza affettiva e violenza di genere

P. è un paziente di trent’anni che si presenta in studio a seguito della fine della sua relazione. Tre anni fa incontra una donna della quale s’innamora perdutamente. La relazione descritta da P. come inizialmente perfetta, dopo il primo anno comincia a presentare delle incompatibilità che nel tempo hanno portato alla rottura definitiva. P. è infelice ma, nonostante questo, continua a voler rimanere ancorato alla relazione e a fare di tutto per non chiuderla. È arrabbiato, frustrato e triste. Non riesce a farsene una ragione, non accetta di essere stato lasciato, lui che ha amato tanto la partner, fin troppo. Le ha dedicato tempo, risorse economiche, ha cambiato nazione e lavoro per amore. È un fiume di pensieri di rabbia per quanto accaduto, per il comportamento della partner, per come è stato lasciato, per essere stato immediatamente sostituito come lo si fa con un abito in disuso. Secondo P., la compagna è una narcisista perversa. Sintomi, comportamenti, reazioni: tutto coincide. A questi pensieri si alternano, poi, stati mentali di colpa nei quali si accusa e si deprime all’idea di essere, in realtà, il vero colpevole della fine della relazione. “Sono io il narcisista?”, chiede in prima seduta.

In realtà, se ci si ritrova a farsi questa domanda, molto probabilmente la risposta è “no”. P. non è affatto un narcisista ma soffre di dipendenza affettiva patologica, una condizione relazionale nella quale, nonostante il malessere percepito e la quasi totale assenza di cure da parte della partner, continua a sostare, pensando di essere lui stesso in qualche modo colpevole del malfunzionamento.

Come emerso in un articolo del quotidiano britannico The Guardian, ogni giorno milioni di utenti pongono numerose domande a Google. Una di queste sembra proprio essere: “Sono narcisista?”. La cosa non stupisce, data la crescente attenzione negli ultimi anni al tema delle dipendenze affettive e al ruolo del disturbo narcisistico di personalità nella contro-dipendenza, ovvero la tendenza opposta a ricercare il partner e contemporaneamente a evitarlo, con il risultato che la relazione non è mai veramente intima. Il problema della definizione del narcisismo, però, è che non è una condizione così unidimensionale e monostrato come sembrerebbe essere. Non basta essere concentrati su stessi o egoisti per essere dei narcisisti. Non è neanche sufficiente avere a che fare con qualcuno che abbia difficoltà a condividere le proprie emozioni, o che spesso si dimostra disinteressato al/alla partner, non gli/le fa regali o non rinuncia alla palestra per lui/lei. Per capire se un individuo ha o no una personalità narcisistica, “vanno osservati i comportamenti e bisogna provare a sentire che cosa l’interazione con questo individuo smuove dentro”, afferma Di Maggio nel “L’illusione del Narcisista”.

In letteratura, vengono descritte due tipologie di narcisismo: entrambe alternano stati di rabbia, disprezzo, depressione, vergogna, colpa e forte senso di solitudine.

Nello specifico, il primo sottotipo è quello manifesto o overt. In questa sottocategoria si ritrovano fantasie grandiose, costante richiesta di ammirazione e disprezzo. Il narcisista overt pensa di essere superiore e pretende di essere trattato in modo speciale. Ossessionato dal successo e dalla necessità di comandare, ha poco tempo per occuparsi dei bisogni degli altri, considerati solo a fini utilitaristici e, in genere, solo un possibile intralcio ai propri piani di grandiosità. L’avere a che fare con un narcisista overt, subito dopo la fase inziale della conquista, comporta sentimenti di grande tristezza e depressione.

La sensazione del partner è di essere trasparente emotivamente e fisicamente poiché qualsiasi forma d’intimità viene per lo più evitata. La relazione che si viene a instaurare è superficiale, ci si può sentire umiliati o svalutati. Il narcisista potrebbe essere violento verbalmente o fisicamente, tanto da far costantemente temere una sua reazione, come se si camminasse sulle uova. Molto spesso il partner non si fida e la maggior parte delle volte a buona ragione: questo tipo di personalità è, infatti, particolarmente seduttiva e promiscua nella sessualità e non si farà certo molti scrupoli a tradire.

Poi vi è il secondo tipo, il passivo o covert, che invece presenta sentimenti d’inferiorità. Intimamente cerca anch’egli gloria e potere, ma non si espone poiché teme insuccesso e critiche. Avere una relazione con un narcisista covert, vi farà sentire inizialmente speciali poiché, nonostante la distanza intraposta con l’altro, tendono a disperarsi all’idea della vostra assenza. Giocano il ruolo di “vittima” e i partner quello dei “salvatori”. Apparentemente potrebbero non avere alcuna difficoltà ad aprirsi, anzi, è molto probabile che raccontino fin dal primo incontro episodi particolarmente dolorosi della loro vita, come la separazione con l’ex o un trauma del passato (un lutto, la separazione dei genitori, ecc). Il partner del covert si potrebbe sentire incaricato del benessere dell’altro, fino a provare colpa quando, anche se per poco, accennerà l’espressione dei suoi personali bisogni. Il narcisista covert può reagire accusandolo di non fornire le cure adeguate e di non essere sufficientemente di aiuto. Il risultato è la sensazione di essere eccessivamente richiestivi e poco comprensivi.

Se il narcisismo di qualcun altro sta rendendo la tua vita un inferno, invece di provare a cambiarlo, attaccarlo o a mostrare costantemente segni di insofferenza, parti dal presupposto che non è quella persona la vera responsabile della tua sofferenza. Sono le motivazioni alla base del fatto che lo hai scelto a essere il vero demone da sconfiggere. La domanda giusta è: “Perché sono ancora qui a penare e passare gli anni sperando che cambi e finalmente mi tratti bene?”. Se arrivate a questa svolta, la vostra vita ha buone probabilità di prendere un percorso più salutare.

 

Per approfondimenti:

Di Maggio, G. & Semerari, A. (2003). I disturbi di personalità: modelli e trattamento. Laterza

Di Maggio, G. L’illusione del Narcisista (2016). La malattia della grande vita. Baldini e Castoldi.

Rubrica Se mi lasci Mi cancello? Dipendenza affettiva e violenza sulle donne

di Erica Pugliese

La violenza sulle donne ha radici culturali specifiche, nutrite dal mito dell’amore romantico che intreccia l’idea di passione a quella di relazioni intime violente e che illude con promesse il più delle volte false. È promossa da stereotipi di genere che hanno diffuso e favorito un prototipo di donna debole, metà di una mela, incompleta senza un uomo nel ruolo di principe e salvatore. È spinta da un substrato culturale che vede nei principi di tolleranza e sacrificio a tutti i costi, la formula per il buon funzionamento della relazione e alla quale si affianca l’idea che la realizzazione personale della donna sia seconda a quella dell’uomo e al matrimonio. Così, sebbene sembrino lontani i tempi in cui Franca Viola vinceva la sua guerra per l’abolizione del matrimonio riparatore che avrebbe salvato, secondo la legge e la morale dell’epoca, l’onore della ragazza “svergognata” dallo stupro, vent’anni dopo sono ancora numerose le donne vittime di violenza nelle relazioni intime, violenza sessuale, fisica, psicologica, emotiva ed economica. Leggi tutto “Rubrica Se mi lasci Mi cancello? Dipendenza affettiva e violenza sulle donne”