Il trauma nella violenza di coppia

a cura di Ludovica Briotti

Negli ultimi decenni gli effetti psicologici del trauma hanno destato sempre maggiore interesse nella ricerca in ambito clinico. Infatti, è noto come i pattern derivanti da esperienze traumatiche vissute nel corso della vita costituiscano un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi d’ansia e depressivi, nonché di difficoltà nelle relazioni interpersonali (Rademaker et al., 2008).

Diversi studi hanno posto attenzione alle conseguenze del trauma “con la T maiuscola”, ossia la sintomatologia derivante dall’aver vissuto eventi di minaccia alla propria incolumità, arrivando alla diagnosi di PTSD (Post-Traumatic Stress Disorder), attualmente riconosciuto nel DSM-5 come un disturbo caratterizzato da mancata elaborazione della memoria traumatica, pensieri intrusivi, flashback e incubi (APA, 2013).

Nel tempo, clinici e ricercatori si sono resi conto che vi era una fetta della popolazione che presentava una sintomatologia di natura traumatica in assenza di eventi minacciosi per l’integrità fisica. A partire da qui, la ricerca ha iniziato a considerare la natura interpersonale del trauma, arrivando alla diagnosi di cPTSD (Complex Post-Traumatic Stress Disorder), caratterizzato da una costellazione di sintomi quali disregolazione emotiva, idea negativa di sé e difficoltà relazionali che derivano da traumi prolungati o ripetitivi, come abusi infantili o violenza domestica (WHO, 2022).

Alla luce di queste nuove evidenze, si è notato che alcuni di questi sintomi rientravano anche nella diagnosi di BPD (Borderline Personality Disorder), caratterizzato da una pervasiva instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’immagine di sé, marcata impulsività e reattività dell’umore (APA, 2013). Di conseguenza, vari autori si sono concentrati  sulla sovrapposizione dei sintomi caratterizzanti questi profili psicopatologici di matrice traumatica con l’obiettivo di differenziarli nelle loro peculiarità  allo scopo di implementare interventi sempre più individualizzati ed efficaci.

Nonostante la ricerca sia andata avanti negli ultimi anni dimostrando la sempre maggiore necessità di una diagnosi differenziale fra PTSD, cPTSD e BPD, nessuna ricerca finora aveva indagato la fenomenologia di tali disturbi nell’ambito della violenza di coppia. L’intimate partner violence (IPV) è definita come qualunque comportamento controllante, coercitivo, minaccioso, di violenza o abuso tra partner. L’abuso può essere di tipo psicologico, fisico, sessuale, finanziario ed emotivo (WHO, 2021). Sebbene  il trauma sia da tempo riconosciuto come fattore di rischio centrale per l’IPV, gli autori dell’articolo “Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD and BPD in victims and offenders” (Pugliese et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Brain Sciences, hanno per la prima volta considerato la diagnosi differenziale tra il Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (cPTSD), il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) e il Disturbo Borderline di Personalità (BPD), nel contesto della violenza di coppia (IPV).

In particolare, l’obiettivo dello studio è stato quello di analizzare come le specifiche caratteristiche di PTSD, cPTSD e BPD si declinano rispettivamente nelle vittime e nei perpetratori di IPV. I risultati hanno evidenziato che i tre quadri psicopatologici sono presenti, seppur con profili clinici distinti, sia nelle vittime che negli abusanti. Infatti, è emerso come le caratteristiche  dell’IPV siano influenzate da specifici funzionamenti psicologici che emergono in risposta al trauma. In particolare, il PTSD risulta essere un quadro psicopatologico conseguente la violenza subìta piuttosto che rappresentare un fattore predisponente di base, nonostante assuma un ruolo di mantenimento centrale per la rivittimizzazione. Infatti, tale disturbo si manifesta nelle vittime di IPV attraverso caratteristiche quali l’hyperarousal e l’emotional numbing che, aumentando la percezione di minaccia, ostacolano la vittima dalla possibilità di uscire dalla relazione abusante, mantenendo il ciclo della violenza nel tempo.

Riguardo invece al cPTSD, è emerso come la componente DSO (Disturbances in Self-Organization) – caratterizzata da disregolazione emotiva, concetto negativo di sé e difficoltà relazionali – è più frequentemente presente nei perpetratori, mentre le caratteristiche di distacco emotivo ed evitamento appaiono maggiormente correlate al funzionamento psicologico delle vittime di violenza. Infine, il BPD, anche se più presente negli offenders per le sue caratteristiche di aggressività e impulsività, è stato riscontrato anche nelle vittime con la paura del rifiuto e l’instabilità dell’identità che ne costituiscono i maggiori fattori di rischio.

Il diverso legame tra PTSD, cPTSD e BPD con l’IPV emerso da questa recente pubblicazione mette in luce la rilevanza di comprendere sempre meglio i meccanismi emotivi, cognitivi e comportamentali che intervengono nella relazione tra esperienze traumatiche e violenza interpersonale. Considerando che alcune condizioni psicologiche derivanti da esperienze traumatiche precoci, quali la Dipendenza Affettiva Patologica, sono già state riconosciute come fattori di rischio per la violenza nelle relazioni intime (Pugliese et al., 2023a, 2023b), il gruppo di ricerca sul trauma dell’Associazione di Psicoterapia Cognitiva di Roma sta attualmente conducendo nuove ricerche su campioni di maltrattanti e vittime di violenza allo scopo di esplorare le traiettorie di sviluppo che conducono all’IPV. Inoltre, è in corso di stesura un’ulteriore pubblicazione volta a chiarificare la sovrapposizione dei sintomi di PTSD, cPTSD e BPD in relazione alle esperienze di maltrattamento infantile. Lo sviluppo nell’ambito della ricerca sul trauma è, ad oggi, fondamentale per comprendere quali condizioni psicologiche sono associate a un maggior rischio di subire e/o perpetrare violenza, uno dei fenomeni di maggior portata psicologica e sociale attualmente presenti in tutto il mondo.

Riferimenti bibliografici

American Psychiatric Association, DSM-5 Task Force. Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: DSM-5™, 5th ed.; American Psychiatric Publishing, Inc.: Arlington, VA, USA, 2013.

Pugliese, E., Mosca, O., Saliani, A. M., Maricchiolo, F., Vigilante, T., Bonina, F., … & Mancini, F. (2023b). Pathological Affective Dependence (PAD) as an Antecedent of Intimate Partner Violence (IPV): A Pilot Study of PAD’s Cognitive Model on a Sample of IPV Victims. Psychology, 14(2), 305-333. DOI: 10.4236/psych.2023.142018

Pugliese, E., Saliani, A. M., Mosca, O., Maricchiolo, F., & Mancini, F. (2023a). When the War Is in Your Room: A Cognitive Model of Pathological Affective Dependence (PAD) and Intimate Partner Violence (IPV). Sustainability, 15(2), 1624. https://doi.org/10.3390/su15021624

Pugliese, E., Visco-Comandini, F., Papa, C., Ciringione, L., Cornacchia, L., Gino, F., … & Mancini, F. (2024). Understanding Trauma in IPV: Distinguishing Complex PTSD, PTSD, and BPD in Victims and Offenders. Brain Sciences, 14(9), 856. https://doi.org/10.3390/brainsci14090856

Rademaker, A. R., Vermetten, E., Geuze, E., Muilwijk, A., & Kleber, R. J. (2008). Self‐reported early trauma as a predictor of adult personality: a study in a military sample. Journal of clinical psychology, 64(7), 863-875. https://doi.org/10.1002/jclp.20495

World Health Organization. (2016). World Health Statistics 2016 [OP]: Monitoring Health for the Sustainable Development Goals (SDGs). World Health Organization.

 

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Trattamento dei traumi infantili

di Caterina Villirillo

Il protocollo evidence-based per la cura di bambini e adolescenti con traumi infantili

Il 3 Febbraio 2021 si è tenuto il Simposio online dal titolo “Trauma-Focused Cognitive-Behavioral Therapy: Il protocollo evidence-based per la cura di bambini e adolescenti con traumi infantili”, organizzato dalle Scuole di Psicoterapia Cognitiva SPC e APC. Per il pubblico italiano ed internazionale sono intervenuti, con un prezioso contributo, due massimi esperti della Trauma-Focused Cognitive-Behavioral Therapy (TF-CBT): Il Prof. Anthony Mannarino, Direttore del Center for Traumatic Stress in Children and Adolescents, padre fondatore della TF-CBT e tra i massimi esperti a livello mondiale di trauma infantile e la Prof.ssa Zlatina Kostova, formatrice ufficiale in TF-CBT e ricercatrice presso il Child Trauma Training Center dell’Università del Massachusetts Medical School negli Stati Uniti.

I due relatori hanno fornito una panoramica della TF-CBT, trattamento del trauma per bambini e adolescenti più rigorosamente studiato fino ad oggi. Tale protocollo, ispirato ad un approccio integrato centrato sulla teoria dell’attaccamento, viene utilizzato per il trattamento della sintomatologia traumatica in diversi casi come abusi sessuali, maltrattamenti, perdite, catastrofi naturali, incidenti stradali. E’ stato validato per un range d’età ampio che va dai 3 ai 18 anni e può essere applicato in diversi contesti socio culturali e setting che prevedono ad esempio il coinvolgimento o meno dei genitori, configurandosi come un trattamento notevolmente flessibile.

In particolare, dopo l’apertura dei lavori da parte della Prof.ssa Maria Grazia Foschino, Direttore della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva AIPC di Bari e organizzatrice dell’evento, il Prof. Mannarino, ha descritto il protocollo, le sue componenti principali e le fasi specifiche. Le componenti della TF-CBT possono essere facilmente ricordate attraverso l’acronimo PRACTICE:

Psychoeducation and parenting skills – Psicoeducazione e skills genitoriali
Relaxation – Rilassamento
Affective Modulation/Modulazione Affettiva
Cognitive Processing/Elaborazione Cognitiva
Trauma narration and processing/Narrazione ed elaborazione del trauma
In vivo mastery/Padronanza dal vivo
Conjoint parent-child sessions/Sessioni congiunte bambino-genitore
Enhancing safety and social skills – Migliorare la sicurezza e le abilità sociali.

Le prime 4 componenti del protocollo riguardano la fase iniziale di stabilizzazione alla quale seguono la fase di narrazione ed elaborazione del trauma e quella di integrazione che comprende le ultime 3 componenti.

In genere la durata del protocollo è di 8-16 sessioni che possono diventare 16-25 in presenza di traumi complessi e che prevedono una fase di stabilizzazione più lunga (circa 12-13 sessioni).

Il Prof. Mannarino, autore di ben 23 studi controllati randomizzati che dimostrano l’efficacia del suddetto protocollo, ha, inoltre, illustrato la diffusione a livello mondiale dello stesso descrivendo come, negli ultimi decenni, si siamo composti in 36 Paesi del pianeta, diversi gruppi di trainer che hanno formato oltre 80000 clinici. La formatrice per l’Italia sarà proprio la Prof.ssa Kostova a partire dall’autunno 2021. Il Prof. Mannarino ha indicato, infine, delle fonti per reperire materiale gratuito prezioso per il lavoro clinico in sede e online (per saperne di più https:/tfcbt.org); per la traduzione di alcune risorse, quali workbook per genitori e bambini, sta già lavorando un gruppo di colleghi della scuola di Bari.

L’intervento della Prof.ssa Kostova, si è focalizzato, invece, sulla descrizione dell’evidenza scientifica del modello presentato. In particolare la Dott.ssa, dopo aver descritto il suo primo caso clinico trattato con successo con la TF-CBT, ha illustrato una serie di ricerche che dimostrano l’efficacia di questo trattamento anche rispetto ad altre tecniche altrettanto valide per il trattamento dei sintomi traumatici come l’Emdr. Entrambi gli approcci, infatti, favoriscono una riduzione dei sintomi del PTSD, quello che la TF-CBT sembra avere in più è l’effetto sulla riduzione dei sintomi associati al trauma come la depressione, l’ansia e i sintomi comportamentali. Inoltre, contribuisce alla riduzione dei sintomi, il coinvolgimento genitoriale nel trattamento. In particolare è stato dimostrato come la TF-CBT favorisca la riduzione del GAP nella percezione della severità dei sintomi traumatici da parte dei genitori, che tendono a sottovalutare il trauma dei loro figli, e dei bambini.  La Dott.ssa ha evidenziato, altresì, l’efficacia a lungo termine del protocollo descrivendo, a titolo esemplificativo, alcuni studi che ad un follow up di 6 e 12 mesi dalla conclusione del trattamento con la TF-CBT, dimostrano il mantenimento dei risultati e una riduzione di distorsioni cognitive, ansia e sintomi esternalizzanti. Una spiegazione plausibile è che tale protocollo insegna ai bambini e ai loro genitori competenze e abilità che possono essere adoperate anche alla fine della terapia e questo è probabilmente il valore aggiunto che favorisce il mantenimento dei risultati ed agisce sull’aumento dell’autoefficacia e della resilienza. A riguardo ha un ruolo importante anche il lavoro sulla cognizione.

E’ interessante notare come tale protocollo può essere implementato anche nei paesi in via di sviluppo; diversi studi ne hanno dimostrato l’efficacia confermando la possibilità di utilizzo in diversi contesti socio culturali e in presenza anche di formazione diversa da parte dei terapeuti grazie alla supervisione garantita dai trainer. Infine la Dott.ssa ha illustrato l’efficacia del protocollo anche online.

Il simposio si è concluso con un intervento del Prof. Mancini che ha sottolineato la rilevanza della TF-CBT definendola efficace ed efficiente e valutando l’importanza di lavorare efficacemente sul trauma in età evolutiva dal momento che spesso traumi infantili non trattati e/o non riconosciuti in modo adeguato, implicano danni a cascata in età adulta e dal punto di vista psicopatologico e dal punto di vista relazionale.

Dopo questo interessantissimo contributo non ci resta che attendere il prossimo autunno per conoscere più nello specifico il protocollo ed avere la possibilità, per chi lo desidera, di diventare terapeuti TF-CBT certificati!

Reagire all’imprevedibile

di Emanuela Pidri

Tecniche di auto aiuto per la gestione di stress e traumi

Gli esseri umani hanno la tendenza a credere di poter controllare la maggior parte dei domini della propria vita e quando ci si imbatte in eventi catastrofici, drammatici, avversi e imprevisti, è necessario adattarsi. Ci sono, tuttavia, degli eventi difficili da gestire così che l’equilibrio viene sopraffatto determinando, in alcuni casi, la manifestazione di traumi. Gli eventi stressanti possono essere di diversa natura: psicologica, fisica, biologica; ma mantengono lo stesso processo biochimico composto da tre fasi: allarme, resistenza, esaurimento. Il disagio percepito dall’individuo insorge quando lo stress non viene efficacemente gestito dalle risorse individuali. Pur conservando capacità resilienti e protettive, dato il carico improvviso rapportato a eventi sopraffacenti, tali capacità risultano strumenti non sufficienti per affrontare il disagio. Per tale motivo, è importante sperimentare tecniche che ne promuovano il mantenimento. Vivere eventi negativi porta, quasi inevitabilmente, a ragionare continuamente sul passato e sul futuro, dando l’illusione di avere il controllo su ciò che si sta vivendo. Tuttavia, rimanendo orientati nel passato o nel futuro, non si facilita il processo di adattamento alla situazione stressante. È funzionale riorientarsi nel presente, nel qui e ora, riformulando i pensieri disfunzionali e creando alternative di pensiero, analizzando i propri comportamenti a breve e lungo termine. Praticare la Mindfulness aiuta, per esempio, a imparare a lasciar andare ciò che non si può controllare, maturando la flessibilità mentale necessaria per sviluppare la capacità di resilienza. Gli effetti della Mindfulness sul cervello sono rilassamento profondo, maggiore attenzione e concentrazione e maggiore capacità di adattamento. La pratica permette di comprendere i pensieri senza cercare di eliminarli, di vivere le emozioni senza evitarle o senza farsi travolgere dalle stesse. Esempi di esercizi sono: “i pensieri sono solo pensieri”, “respiro lento e profondo”, “meditazione della montagna”. Rispetto alla meditazione sul respiro esistono altre tecniche che possono essere sperimentate, ad esempio esercizi di respirazione rendono più efficace e funzionale il mantenimento dell’arousal ottimale. Può succedere, però, che l’evento abbia un impatto intenso che viene registrato nel corpo poiché i ricordi sono organizzati nella memoria principalmente a livello percettivo e sensoriale. In questo caso, sarebbe utile attuare la “tecnica del posto sicuro”. In un periodo fortemente stressante, un modo per rilassarsi è immaginare un posto sicuro, un angolo rassicurante e sereno della mente: scegliere un luogo della casa e pensare a una situazione, a un ricordo preciso o a un’immagine inventata in cui ci si è sentiti bene; si conclude pensando a una frase o a una parola che permetta di ricordare immediatamente il proprio posto sicuro, tale per cui può essere riportata alla mente ogni volta che ve ne sia la necessità. Il Training Autogeno è una forma di psicoterapia breve fondata sull’autodistensione da concentrazione che permette di mantenere l’equilibrio neurovegetativo attraverso esercizi di: pesantezza per mezzo della distensione muscolare; calore per mezzo di una vasodilatazione vascolare; cuore per mezzo del controllo del respiro; plesso solare per mezzo dell’influenzamento degli organi addominali; fronte fresca per mezzo dell’opposizione della testa rispetto al corpo. Per evitare di incorrere in disturbi come quello post traumatico da stress, il burnout o la somatizzazione sul fisico, è importante applicare strategie personalizzate e individuali per gestire questo stress, senza tuttavia ovviare alla richiesta di aiuto di uno specialista soprattutto in casi complessi ove le pratiche e/o le tecniche non possono prescindere da un percorso psicoterapeutico.

Per approfondimenti:

Carlson, L.E., Speca, M, Patel, K.D., Goodey, E. (2004). Mindfulness-based stress reduction in relation to quality of life, mood, symptoms of stress and levels of cortisol, dehydroepiandrosterone sulfate and melatonin in breast and prostate cancer outpatients. Psychoneuroendocrinology, 29(4), 448-474.

Hoffmann B.H., Manuale di Training Autogeno, Roma, Astrolabio, 1980.

Mike Maric M., Il potere antistress del respiro. Il metodo per abbandonare definitivamente ansia, tensioni e stanchezza. Vallardi A., 2020.

Shapiro, F. (2000). EMDR. Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari. McGraw-Hill editore.

Shepherd, J., Stein, K., Milne, R. (2000). Eye movement desensitization and reprocessing in the treatment of post-traumatic stress disorder: a review of an emerging therapy. Psychological Medicine, 30, 863-871.

Foto di Polina Tankilevitch da Pexels

Ritratto del sopravvissuto

di Marzia Albanese

I sintomi del Disturbo Post traumatico da Stress e il loro trattamento

“Se lo racconterai, nessuno ti crederà”. Sono queste le parole rassegnate di un soldato che ha subito violenza sessuale durante l’arruolamento nell’esercito americano. Secondo i dati del Pentagono, ogni anno, circa diecimila reclute subiscono episodi di violenza.

Male Rape”, crudo reportage della fotoreporter Mary F. Calvert, mette a nudo il dolore e le conseguenze del trauma testimoniato da sei soldati americani. I loro ritratti in bianco e nero danno un volto ai sintomi tipici del Disturbo Post traumatico da Stress (PTSD):

Sintomi intrusivi. Si tratta di immagini relative all’evento traumatico che si presentano al soggetto in maniera automatica e disturbante sia nei momenti di veglia, attraverso i flashback, sia nei momenti di sonno, attraverso gli incubi.
Una delle immagini ritrae il Sig. Lloyd, picchiato e abusato da un’altra recluta durante una doccia, appena entrato nell’esercito: è accasciato, tra gli scaffali del supermercato vicino casa, con la testa tra le mani, a causa del profumo di una candela che ha lo stesso odore dello shampoo che aveva usato in quella doccia tredici anni fa. “E’ l’inferno e non hai scampo dall’inferno, – dice – può succedere qualcosa e tu torni lì, improvvisamente, in quella doccia quadrata tre metri per tre”.
A descrivere la seconda tipologia dei sintomi intrusivi è invece il Sig. Williams, che, in una notte del 1966, quando aveva diciotto anni, venne chiamato nell’ufficio del sergente e abusato sessualmente, mentre le altre reclute dormivano nella stanza accanto. “Dopo l’accaduto ho fatto quello che sentivo di dover fare. Sono tornato in camera. Ho fatto una doccia e sono tornato a letto”. Ma da allora il sonno non è stato più così facile per lui, che ancora oggi, a settantuno anni, trascorre le notti come nella foto che lo immortala: girovagando insonne per il quartiere a causa dei terribili incubi che lo svegliano di soprassalto e gli impediscono di tornare a dormire.

Evitamento. Dopo un evento traumatico, l’utilizzo di strategie di evitamento esperenziale per evitare di entrare a contatto con qualunque stimolo ricordi il trauma è molto forte. La tendenza della persona è infatti quella di evitare sia richiami esterni all’esperienza stressante (persone, luoghi, oggetti, odori) sia interni (emozioni connesse al trauma come la paura e l’impotenza). È per questo motivo che il Sig. Capshaw, a distanza di trentanove anni, viene ritratto supino sul divano della cucina. Essendo stato abusato e torturato dal medico dell’esercito nella sua stanza da letto a soli diciassette anni, evita di dormire su un letto da allora. E proprio come lui, anche il Sig. Hanson viene ritratto nella vasca da bagno perché non riesce più a entrare in una doccia: “Ogni volta che vengo a contatto con il vapore, l’acqua calda o tutto ciò che rende la mia pelle scivolosa, mi viene voglia di vomitare”. Tutto questo evoca un ricordo troppo doloroso per il Sig. Hanson, membro del gruppo dei Marines che furono sessualmente aggrediti sotto le docce durante il campo di addestramento a Camp Pendleton.

Alterazioni dell’umore. Chi ha vissuto un trauma può mostrarsi particolarmente arrabbiato e irritabile, fino ad avere comportamenti violenti e distruttivi (auto o etero diretti). È quello accaduto al Sig. Minnix, ritratto in compagnia del suo cane in una casa di campagna dove ha scelto di isolarsi a causa della sua “inspiegabile” e “improvvisa” aggressività che lo ha progressivamente portato ad allontanarsi dalla sua famiglia. “Mi sento solo, ma non ho molta scelta. Qualcosa dentro di me si è rotto e mi impedisce di vivere serenamente insieme agli altri”.

Convinzioni negative. Si tratta di credenze su di sé (“c’è qualcosa di sbagliato in me” “sono cattivo”), sugli altri (“nessuno è come sembra” “non posso fidarmi di nessuno”) e sul mondo (“il mondo è un posto totalmente pericoloso”) che portano la persona a piombare e persistere in un eterno vissuto di sfiducia generalizzata. È per tale motivo che il Sig. Phillips appare in grande difficoltà nella foto che lo ritrae mentre, con grande e visibile sforzo, decide di sfidare tali credenze aprendosi e raccontando la sua storia ai membri del Senato: “Sono stato abusato sessualmente quando ero nella Marina degli Stati Uniti, a diciassette anni, sulla mia nave di servizio e per diversi mesi”.

Eppure, il Sig. Phillips ci mostra, oltre che un sintomo del PTSD, la sua cura: la narrazione del trauma rappresenta l’imprescindibile avvio per la guarigione. Solo attraverso essa la persona può ricostruire in maniera coerente la propria storia e affrontarne la frammentazione traumatica al fine di ricollocare l’evento nel passato. Il racconto può essere fatto con varie tecniche psicoterapiche, tra cui la Narrative Exposure Therapy (NET) e l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR).

Certo “non è facile”, come sottolinea il Sig. Phillips, perché “in alcuni momenti mi pietrifica”. Eppure “se non posso più servire il mio Paese, lo servo così: evito che quello che è successo a me accada a qualcun altro e soprattutto, do una voce e un nome al mio dolore”.

Per approfondimenti:

Lind, M. J., Baylor, A., Overstreet, C. M., Hawn, S. E., Rybarczyk, B. D., Kendler, K. S., Amstadter, A. B. (2017). Relationships between potentially traumatic events, sleep disturbances, and symptoms of PTSD and alcohol use disorder in a young adult sample. Sleep medicine, 34, 141-147.

Moraczewski, J., & McCall, W. V. (2019). Emotional Content in PTSD Nightmares and Its Relation to other PTSD Features; An Exploratory Study. International Journal of Dream Research, 89-94.

Philipps, D., Calvert M.F. (2019) Six men tell their stories of sexual assault in the military. Ney York Times

Esporsi a un trauma senza viverlo

di Marzia Albanese

L’ombra del trauma vicario nel trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress

Michael è di New York. Ogni mattina, quando prende l’ascensore del suo palazzo, immagina gente in fiamme correre fuori, le urla riempire la hall. Prova a non pensarci e a chiudere gli occhi. Ma quando chiude gli occhi, Michael vede arti intrappolati tra le macerie e spesso, per tale ragione, non riesce a dormire e passa le sue notti girovagando per il quartiere.

Michael è uno psicoterapeuta che lavora a Manhattan e si occupa ormai da molti anni di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD). Dall’11 settembre del 2001, ha preso in carico quasi esclusivamente pazienti sopravvissuti all’attacco del World Trade Center. Alcuni erano fuggiti dagli edifici che crollavano, mentre altri erano stati tra i primi a essere rinvenuti e soccorsi nella catastrofe.

Nel 2004, però, qualcosa cambia. Michael è spesso nervoso, si sente depresso e la notte proprio non riesce a prendere sonno. A volte invece ci riesce, ma gli incubi lo svegliano.
Il tempo scorre nella vita di Micheal. Inizia a evitare situazioni sociali, non partecipa più a feste e compleanni. Non prende più i mezzi pubblici ed è spesso vittima di veri e propri attacchi di panico.

Che cosa è successo a Michael?

La psicologa americana Laurie Pearlman lo chiama “trauma vicario” ovvero una condizione che può colpire chi lavora con persone gravemente traumatizzate (psicologi, infermieri, medici, operatori) in seguito a un forte coinvolgimento empatico che può determinare un vero e proprio cambiamento, in negativo, degli schemi cognitivi e dei sistemi di credenze che portano, come quanto accade a chi è vittima di un trauma, a un generale senso di sfiducia in sé e nel mondo. “Sono rimasta colpita dal lavoro sui traumi nei modi che non mi aspettavo o non capivo”, racconta la Pearlman rispetto alla sua esperienza iniziale con le vittime di abusi sessuali: “ho visto come le mie visioni positive venissero messe in pericolo e ho trovato difficile mantenere vivo il mio atteggiamento normalmente ottimista”.
A partire dalla sua esperienza e da altre osservazioni cliniche, la Pearlman sottolinea, dunque, con la concettualizzazione del trauma vicario, l’importanza e la difficoltà del terapeuta di gestire una concezione del mondo alterato e in definitiva distruttiva, non soltanto nel trattamento del paziente, ma anche nella sua stessa vita interiore. Per tale ragione, nonostante l’esposizione all’evento traumatico sia indiretta, la sintomatologia che si presenta in un trauma vicario è esattamente analoga a quella riscontrabile in un quadro clinico di PTSD: pensieri intrusivi, evitamento, aumento dell’arousal, flashback, visione negativa del mondo circostante vissuto come pericoloso e ingiusto.

Come lo stesso Michael insegnava durante le sue lezioni accademiche, se immaginiamo un limone, lo teniamo bene a mente e ci concentriamo sulle sue qualità (il suo vivo colore giallo, il suo profumo di agrumi) e poi immaginiamo di tagliarne una fetta per gustarne il sapore acido e forte, bhé… Difficilmente non staremo già salivando!

Pensare e immaginare produce una relazione fisica e, di conseguenza, quando un terapeuta di un paziente con PTSD ascolta una storia di violenza, l’immaginazione empatica può inavvertitamente innescare una reazione fisiologica simile a quella che la vittima ha vissuto: tachicardia, nausea e altri elementi come le risposte di lotta o fuga.

A conferma di questo, Yael Danieli, psicologo ed ex sergente delle Forze di Difesa israeliane, in una revisione delle reazioni emotive dei terapeuti che lavorano con i sopravvissuti all’Olocausto, descrive come si siano spesso trovati a condividere gli incubi dei pazienti sopravvissuti: in nove mesi di trattamento, un terapeuta ha infatti riferito di aver avuto solo due sogni che non erano legati a storie dei suoi pazienti, mentre un altro ha confessato che la prima volta in cui ha visto un numero di identificazione tatuato sull’avambraccio di un paziente, è dovuto “uscire per vomitare.”

Nonostante ovviamente, non tutti coloro che lavorano in ambito clinico, sono soggetti a sviluppare il trauma vicario a causa di diverse variabili (stili di attaccamento, risorse interne ed esterne, livello di esposizione alle memorie traumatiche) è consigliabile che chiunque lavori a vario titolo con tali tipologie di pazienti, prenda alcuni accorgimenti specifici: mantenere un collegamento costante con i colleghi con cui condividere le esperienze ascoltate e i propri vissuti emotivi connessi, effettuare una specifica formazione nel campo del trauma che possa fornire utili strategie di gestione di eventuali rischi, bilanciare il lavoro con lo svago e il riposo e, infine, mantenere sempre viva la propria rete familiare, sociale e relazionale.

E Michael? Oggi ha ripreso la sua attività clinica, dopo averla interrotta per un periodo limitato di tempo, necessario alla sua ripresa.

“Quando i miei pazienti mi diranno che non posso capire quello che hanno passato, adesso so cosa rispondere”.

Per approfondimenti:

Kogan, I. (2002) Book Review and Commentary: International Handbook of Multigenerational Legacies of Trauma. By Yael Danieli. Journal of Applied Psychoanalytic Studies 4, 93–97

Pearlman L.A., Saakvitne K.W. (1995). Trauma and the therapist: Countertransference and vicarious traumatization in psychotherapy with incest survivors. Norton, New York

Reuben A. (2015) When PTSD Is Contagious. Therapists and other people who help victims of trauma can become traumatized themselves. The Atlantic

Stamm B.H. (1995). Secondary traumatic stress: Self-care issues for clinicians, researchers and educators. MD: Sidran Press, Lutherville.

L’impronta di traumi e eventi stressanti

di Emanuela Pidri

Dall’identificazione del trauma alla scelta del trattamento

Attacchi terroristici, guerre, incidenti stradali, catastrofi naturali e altri tragici eventi hanno un fil rouge: l’effetto sulla salute mentale delle vittime, dei sopravissuti e delle loro famiglie. Lo stress post-traumatico (Post Traumatic Stress Disorder – PTSD) è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche e ha un’incidenza tra il 5% e il 10%. Il trauma rappresenta un’esperienza di particolare gravità che compromette il senso di stabilità e continuità fisica e psichica di una persona, causandone disorganizzazione e disregolazione del sistema biologico. Si tratta di un evento o più eventi ripetuti nel tempo estremamente stressanti che producono reazioni emotive e corporee talmente forti che non  sempre il cervello riesce a elaborare, generando sofferenza e compromissione della vita quotidiana. Quando l’elaborazione del trauma non avviene spontaneamente, le emozioni e le sensazioni corporee a esse associate si bloccano, e costruiscono reti neuronali disfunzionali che compromettono il normale funzionamento psichico e il benessere della persona.

Secondo l’American Psychiatric Association i sintomi manifesti sono: evitamento persistente degli stimoli associati all’evento, attenuazione della reattività generale, aumento dell’attivazione nervosa, reattività fisiologica intensa, alterazione delle funzioni cognitive ed emotive, irritabilità, scoppi di collera, aggressività, gesti auto lesivi. I sintomi del disturbo post traumatico da stress possono insorgere immediatamente dopo il trauma o anche dopo molto tempo con esordio tardivo e la sua durata può variare da un mese alla cronicità; per questo si rende necessario un intervento tempestivo.

Gli approcci evidence-based, che sono attualmente raccomandati nelle linee guida internazionali sul trattamento delle condizioni correlate allo stress, sono vari. L’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) è una tecnica psicoterapeutica che sfrutta i movimenti oculari alternati concomitanti con l’individuazione dell’immagine traumatica, delle convinzioni negative a essa legate e del disagio emotivo, facilitano la rielaborazione dell’informazione, fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi.

La Terapia Cognitivo Comportamentale focalizzata sul trauma (TF-CBT) è un protocollo che consiste nella combinazione di metodi (es. Stress Inoculation Training, Esposizione Prolungata) che permettono di gestire lo stress, l’ansia e altri sintomi del disturbo attraverso tecniche comportamentali e un lavoro di ristrutturazione cognitiva. Il pilastro centrale dell’intervento è rappresentato dal confronto con le situazioni temute, che avviene attraverso tecniche espositive durante le quali la persona viene gradualmente introdotta nelle situazioni oggetto di stress. Il paziente è aiutato nell’ identificazione dei pensieri disfunzionali – come ad esempio: “sono impotente”, “sono fragile”, “non ce la farò mai” – e l’identificazione delle emozioni negative in risposta al trauma, come paura intensa, tristezza profonda, angoscia. Lo scopo, attraverso la ristrutturazione cognitiva, è quello di elaborare i pensieri distorti a favore di pensieri più adattivi positivi e realistici.  Anche la Mindfulness-Based Stress Reduction, quale terapia psicologica incentrata sul momento presente, ha un’efficacia comprovata nella riduzione dei sintomi post-traumatici e l’incremento di abilità di gestione dello stress e dell’ansia. A volte, per alleviare il proprio stato di dolore, le persone usano alcol o di droghe, possono anche perdere il controllo sulla propria vita ed essere a rischio di comportamenti suicidari. A volte, quindi, in associazione alla psicoterapia è indicato l’uso di farmaci. I trattamenti sono specifici, individualizzati e centrati sul paziente. 

Per approfondimenti

Foa, E.B., Keane, T.M., Friedman, M.J. (eds) (2000). Effective Treatments for PTSD: Practice Guidelines from the International Society for Traumatic Stress Studies. New York: Guilford

Giannantonio, M. (2001). Eye Movement Desensitization and Reprocessing (E.M.D.R.) e psicoterapia del Disturbo Post-Traumatico da Stress: considerazioni critiche e linee di tendenza. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, 1: 5-23.

Horowitz, M. J. (2003). Sindromi di risposta allo stress. Valutazione e trattamento
Trad it. Milano: Cortina, 2004

Maldonado, J. R., Spiegel, D. (1994). The Treatment of Post-Traumatic Stress Disorder. In Lynn, Rhue, 1994

Se la violenza non fa male, ti uccide

di Chiara Serra
a cura di Erica Pugliese 

Come fanno le donne vittime di violenza a fronteggiare il crescente dolore fisico e psicologico causato dal partner abusante?

Quando un individuo persevera in una relazione, nonostante le conseguenze negative sulla sua salute psicologica, ci troviamo in una condizione definita come “dipendenza affettiva patologica” (DAP).  La persona è mossa dallo scopo irrinunciabile di mantenere a tutti i costi la relazione con un partner emotivamente fragile e affettivamente instabile, come illustrato nel lavoro della psicologa e psicoterapeuta Erica Pugliese e collaboratori. Questa forma di amore tossico viaggia lungo un continuum di gravità e, nei casi più estremi, si associa a episodi di violenza domestica (intimate partner violence, IPV) che, se perpetrati a lungo, possono favorire nei soggetti affettivamente dipendenti l’insorgenza di disturbo post traumatico da stress (DPTS). Tra i sintomi del DPTS vi è la messa in atto di comportamenti di risoluzione del dolore associato al trauma, come il numbing (stato di coscienza simile all’intorpidimento e alla confusione) e l’evitamento, consapevole o inconsapevole, di stimoli o sensazioni associati all’evento traumatico che potrebbero fare da trigger anche indirettamente o simbolicamente per il re-innesco del ricordo traumatico.

A tale proposito, lo studio del ricercatore olandese Elbert Geuze e collaboratori sui veterani del Vietnam con DPTS ha mostrato che l’esposizione a stimoli calorifici produce un’alterata percezione dolorifica. Secondo il modello proposto dagli autori, detto di “stress induced analgesia”, l’elevata paura e il disagio associati agli stimoli calorifici attivano un sistema endogeno di modulazione del dolore che abbassa la percezione soggettiva del dolore.

È possibile che lo stesso meccanismo di modulazione sia responsabile della reazione di evitamento di trigger traumatici nelle donne vittime di violenza domestica con DPTS (IPV-DPTS)? Queste donne tendono dunque nel tempo a ridurre la soglia percepita del dolore? 

Per rispondere a questo interrogativo, Irina Strigo e collaboratori dell’Università di San Francisco hanno confrontato un campione di 23 donne IPV-DPTS con uno non clinico di 15 donne. Il paradigma sperimentale richiedeva ai soggetti di riferire la temperatura percepita degli stimoli calorifici di diversa temperatura somministrati in due sessioni (Run1 e Run2) durante la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Infine, è stato chiesto di compilare alcuni test diagnostici specifici, tra i quali la Clinically Administered PTSD Scale (CAPS), che valuta la frequenza e l’intensità dei sintomi associati al trauma, compreso l’evitamento. 

I risultati mostrano che le donne IPV-DPTS percepiscono un’attenuazione della temperatura dello stimolo dolorifico nella Run2, dopo una ripetuta esposizione allo stimolo. Nella prima esposizione allo stimolo (Run1), seppur assente una differenza nella percezione dolorifica dello stimolo, le donne IPV-DPTS mostrano una differente una risposta neurale, ovvero un aumento dell’attività dell’insula anteriore di destra (RAI) rispetto al gruppo di controllo. A questa reazione di ipersensiblità dolorifica segue una seconda esposizione agli stimoli dolorifici (Run2), in cui le donne IPV-DPTS riferiscono invece un abbassamento della sensazione dolorifica rispetto al gruppo di donne non clinico. Inoltre, a livello neurale si osserva nel gruppo sperimentale una diminuzione dell’attività della RAI, che integra informazioni interocettive, emotive e cognitive ai fini del processamento affettivo, e un aumento dell’attività dell’ACC, una regione attiva durante il comportamento motivazionale e in situazioni a elevato livello di disagio emotivo. È emersa, infine, una correlazione dei punteggi ottenuti nella scala CAPS, sia con la temperatura media percepita sia con l’attività della RAI: questo significa che le donne IPV-DPTS con alti punteggi nella sottoscala dell’evitamento (tendenza a mettere in atto meccanismi di coping maladattivi finalizzati a evitare tutto ciò che ricordi in qualche modo, o che sia riconducibile, all’esperienza traumatica) riportano una maggiore attenuazione del dolore percepito e una diminuzione dell’attività della RAI, come detto responsabile della consapevolezza emotiva.

Sulla base di questi risultati, gli autori propongono che la modulazione neurale associata all’attività della RAI potrebbe essere correlata alla diminuzione del dolore percepito, mentre quella della ACC sarebbe legata alla regolazione dello stress percepito nel ri-esperire lo stimolo traumatico. Come confermano i dati di correlazione, l’evitamento emotivo potrebbe essere una delle strategie utilizzate nelle vittime di violenza per gestire l’esperienza traumatica, che si manifesta a livello cognitivo come una riduzione del dolore percepito e a livello neurale come un abbassamento dell’attività della RAI, un nodo centrale nella consapevolezza emotiva. 

L’esperienza clinica e i dati di neuroimaging spiegherebbero in parte la tendenza degli individui con dipendenza affettiva patologica a perseverare nella relazione nonostante la crescente sofferenza emotiva generata da partner il più delle volte problematici, ovvero emotivamente fragili e affettivamente instabili.

Questi risultati supportano la necessità di costruire un protocollo di trattamento cognitivo-comportamentale che ponga al centro gli aspetti traumatici della relazione interpersonale e i tentativi di soluzione del dolore maladattivi tipici della dipendenza affettiva patologica. Infine, sarebbe interessante replicare i risultati di questo studio su un campione di uomini, proprio in considerazione del fatto che la dipendenza affettiva è una problematica che colpisce trasversalmente uomini e donne, coppie gay ed etero. 

Per approfondimenti:

Pugliese, E., Saliani, A.M., Mancini, F., Un modello cognitivo delle dipendenze affettive patologiche. Psicobiettivo” 1/2019, 43-58, doi:10.3280/PSOB2019-001005

Strigo, I.A., Simmons, A.N., Matthews, S.C., Grimes, E.M., Allard, C.B., Reinhardt, L.E., Paulus, M.P., Stein, M.B., 2010. Neural correlates of altered pain response in women with posttraumatic stress disorder from intimate partner violence. Biol. Psychiatry 68, 442-450. doi:10.1016/j.biopsych.2010.03.034

Geuze, E., Westenberg, H.G., Jochims, A., de Kloet, C.S., Bohus, M., Vermetten, E., Schmahl, C., (2007): Altered pain processing in veterans with posttraumatic stress disorder. Arch Gen Psychiatry 64:76–85. 10.1001/archpsyc.64.1.76

Gli incubi nel disturbo post-traumatico

di Miriam Miraldi

Cambiarli in nuove immagini positive da svegli e ridurne la frequenza di notte

Il disturbo post-traumatico si manifesta a seguito di uno o più eventi di rottura drammatica del regolare svolgersi della vita di un individuo. Una forma di ri-sperimentazione del trauma avviene attraverso gli incubi, il cui contenuto spesso riguarda, o comunque si associa, a luoghi, persone o situazioni legati all’evento traumatico. Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) definisce gli incubi come “ripetuti episodi di sogni estesi, estremamente disforici e ben ricordati che di solito comportano sforzi per evitare minacce alla sopravvivenza, alla sicurezza o all’integrità fisica”. Oltre il 70% delle persone con disturbo post-traumatico (PTSD) presenta incubi frequenti, contro circa il 2-5% della popolazione generale. Secondo la terapia cognitivo comportamentale, gli eventi traumatici possono creare un network mnestico disfunzionale basato sull’emozione di paura (fear structure), sul quale si può intervenire a livello trattamentale attraverso attività di esposizione in vivo o in immaginazione, nell’idea che l’elaborazione di informazioni correttive produca cambiamenti nella rete dei ricordi traumatici. Secondo questo modello, gli incubi sono un elemento della fear structure e sono concettualizzati come un sintomo di re-esperienza che si verifica semplicemente di notte; pertanto, gli incubi dovrebbero diminuire sensibilmente col trattamento per il PTSD, sebbene in alcuni studi condotti su persone sopravvissute a eventi come terremoti o guerre si è rilevato come, nonostante una riduzione importante, gli incubi possano continuare a costituire un disagio clinicamente significativo.

Nel 2015, la ricercatrice canadese Katia Levrier e colleghi hanno condotto uno studio per esaminare se la presenza di incubi prima dell’inizio della terapia cognitivo comportamentale per il PTSD influenzi il trattamento. I 71 partecipanti, tra i 18 e i 65 anni, hanno ricevuto un trattamento di terapia cognitivo comportamentale (CBT) di 20 sessioni in setting individuale e sono stati valutati in cinque momenti: al pre-trattamento, dopo la terza e la nona sessione, a fine trattamento e al follow-up a sei mesi, attraverso la somministrazione della SCID-I, una checklist su eventi di vita stressanti, e della Clinician-Administered PTSD Scale (CAPS), un’intervista strutturata per valutare il disturbo post-traumatico da stress. I partecipanti hanno ricevuto un manuale e i terapeuti hanno seguito un protocollo di intervento standardizzato: i primi tre incontri sono stati centrati sulla psicoeducazione dei sintomi post-traumatici e sulle strategie anche fisiche di gestione dell’ansia, focalizzate sulla respirazione diaframmatica; le sessioni da quattro a nove consistevano nell’esercitare l’esposizione immaginativa ai ricordi dell’evento traumatico, con una ristrutturazione cognitiva; le ultime dieci sessioni sono state l’esposizione in vivo a situazioni evitate e la prevenzione delle ricadute.

Lo studio ci presenta risultati di rilevo: innanzitutto, la presenza di incubi non influisce sull’efficienza complessiva dell’intervento psicoterapeutico, dunque i partecipanti con alta presenza di incubi all’inizio della terapia non hanno beneficiato meno della CBT rispetto a chi non presentava invece questo sintomo. Inoltre, la terapia cognitivo comportamentale ha avuto un impatto positivo sulla riduzione degli incubi con il 77% dei partecipanti, che non li presentava quasi più dopo il trattamento. È interessante notare che la CBT ha avuto un effetto sulla riduzione degli incubi in fasi specifiche nel corso del trattamento: la frequenza degli incubi ha iniziato a diminuire dopo aver praticato l’esposizione immaginativa e ha continuato a decrescere fino alla fine della terapia, quando l’esposizione in vivo è stata completata. Il distress e l’angoscia percepiti relativi agli incubi hanno seguito invece un’altra traiettoria, con una diminuzione già dopo la psicoeducazione e gli esercizi di respirazione diaframmatica (la cui funzione è quella di fornire un modo per ridurre l’ansia del paziente quando esposto a stimoli correlati al trauma), fino alla fine degli interventi di esposizione immaginativa. Rispetto all’impatto della psicoeducazione sul distress c’è da dire che non vi sono studi precedenti in merito, e che quello che si è visto è che generalmente gli individui sembrano rimanere scettici sul fatto che la frequenza degli incubi possa essere oggetto di trattamento e, pertanto, si potrebbe ipotizzare che la psicoeducazione, durante la quale vengono fornite ai partecipanti informazioni sui sintomi del disturbo post-traumatico, possa invece aiutarli a ristrutturare questa convinzione, contribuendo così a ridurre il disagio associato agli incubi. Infine, l’obiettivo dell’esposizione, sia in immaginazione che in vivo, è quello di aiutare la persona a cambiare la percezione di una situazione e, quindi, la reazione a questa situazione specifica.

Queste evidenze, relative al ruolo delle esposizioni, si inseriscono sul filone di studi relativi all’efficacia della Terapia di Ripetizione Immaginativa (Imagery Rehearsal Therapy, IRT), ideata da Barry James Krakow e di stampo cognitivo-comportamentale, che incoraggia la persona a visualizzare l’incubo in stato di veglia, per modificarlo attivamente in una direzione meno angosciosa, la stimola a prendere il controllo dei suoi incubi modificandoli in qualsiasi modo desideri (ad esempio, modificando l’ambientazione, adottando “superpoteri”, ecc.) e introducendo quanti più dettagli possibili (ad esempio, emozioni, sensazioni fisiche, ecc.) al fine di facilitare l’assimilazione del nuovo finale nella memoria; quindi, il paziente “prova” il nuovo sogno con il terapeuta e viene incoraggiato a continuare la pratica, almeno due volte al giorno, a casa, nel tempo che precede la seduta successiva.

La base di partenza, ancora da sottoporre a nuovi e futuri studi, sta nell’idea che lavorare sulle immagini durante la veglia influenzi gli incubi perché i pensieri che facciamo durante il giorno si associano ai contenuti dei sogni notturni, perciò cambiare gli incubi in nuove immagini positive, reiterandole da svegli, porterebbe a una significativa riduzione degli stessi.
Per approfondimenti:

Levrier, K., Marchand, A., Belleville, G., Dominic, B. P., & Guay, S. (2016). Nightmare frequency, nightmare distress and the efficiency of trauma-focused cognitive behavioral therapy for post-traumatic stress disorder. Archives of trauma research, 5(3).

Levrier, K., Marchand, A., Billette, V., Guay, S., & Belleville, G. (2017). Imagery Rehearsal Therapy (IRT) Combined with Cognitive Behavioral Therapy (CBT). In Cognitive Behavioral Therapy and Clinical Applications. IntechOpen.

Krakow, B., Kellner, R., Pathak, D., & Lambert, L. (1995). Imagery rehearsal treatment for chronic nightmares. Behaviour Research and Therapy33(7), 837-843.

SITCC 2018 – Il trauma interpersonale infantile: nuovi scenari per la cura e per la ricerca

 

di Lea Vergatti

Dal 20 al 23 Settembre 2018 la città di Verona ha ospitato il XIX Congresso nazionale SITCC “Casi Clinici: tra teoria, ricerca e pratica”. Tra i numerosi simposi articolatisi nel corso delle tre giornate, di grande interesse clinico è stato quello intitolato “Il trauma interpersonale infantile: nuovi scenari per la cura e per la ricerca”, presieduto dalla Dott.ssa Maria Grazia Foschino Barbaro, Direttore della Scuola di Specializzazione Cognitiva AIPC di Bari, nel ruolo di chairman, e dalla Dott.ssa Valeria Semeraro, psicologa psicoterapeuta dell’Equipe dell’età evolutiva APC SPC di Roma.

Il simposio ha dato spazio ad un interessante ventaglio di contributi, tutti orientati alla presentazione di protocolli di ricerca e intervento psicoterapico in favore di target di popolazione ancora poco esplorati.

Ha aperto il simposio il dott. Sergio Gatto, Dirigente Psicologo del Servizio di Psicologia Clinica e di Psicoterapia dell’Età Adulta e dell’Età Infantile – Dipartimento di Salute Mentale – ASL Taranto, il quale ha presentato l’applicazione del Preschool PTSD Treatment (PPT) di Scheeringa su un campione di n. 15 bambini, di età prescolare, esposti a ripetuti maltrattamenti fisici e psicologici in contesto scolastico. Dopo una breve ma dettagliata disamina delle evidenze empiriche più recenti relative all’impatto del trauma interpersonale in età prescolare, si è entrati nel vivo dell’intervento. È stato illustrato il disegno di ricerca nelle sue ipotesi principali, la metodologia implementata e i risultati conseguiti. Le rilevazioni osservative effettuate nel contesto classe, nella fase preliminare all’intervento, altresì le valutazioni testistiche attuate con il coinvolgimento diretto di genitori e maestre, hanno confermato la presenza, tanto nei bambini quanto negli adulti, di uno stato di attivazione neurofisiologica intensa in concomitanza di elevati livelli di ansia in risposta agli stimoli evocativi l’evento traumatico. Tale dato, come ben messo in evidenza dal dott. Gatto, ha dunque imposto la necessità di coinvolgere i piccoli in alcune attività di rilassamento precedenti l’intervento terapeutico. Ha fatto seguito la descrizione del protocollo PPT di Scheeringa: articolato in 12 incontri, il protocollo riprende gli elementi salienti del trattamento del trauma in età evolutiva, perseguendo, pertanto, la psicoeducazione delle figure adulte significative (genitori e maestra), l’espressione delle emozioni connesse all’evento traumatico e la costruzione condivisa di una narrazione degli eventi traumatici, attraverso l’uso di disegni e immagini. La fase conclusiva è dedicata alla condivisione dei risultati perseguiti. Come ipotizzato, si è trovata una riduzione significativa dei comportamenti internalizzanti ed esternalizzanti, oltre che un miglioramento della sintomatologia traumatica con un calo degli evitamenti e degli stati di arousal.

La parola è passata alla dott.ssa Marvita Goffredo, psicologa psicoterapeuta dell’AIPC di Bari, la quale ha illustrato il percorso diagnostico-terapeutico implementato in Puglia per la presa in carico dei bambini orfani speciali, ossia quei bambini che hanno perso la mamma perché uccisa dal proprio padre. La prima parte dell’intervento è stato volto alla presentazione della letteratura ad oggi esistente su questa classe di popolazione. I dati, sebbene ancora limitati, mostrano la presenza di esiti negativi, associati a questa esperienza, trasversali alle diverse aree di funzionamento (psicologico, fisico, sociale e scolastico). Di interesse, in tal senso, è stato il riferimento al modello dei fattori di rischio e di protezione, specifici per questi minori, elaborato da un gruppo di ricercatori australiani, il quale prevede una differenziazione degli stessi in tre categorie: fattori precedenti all’evento traumatico come l’esposizione a precedenti esperienze sfavorevoli, fattori circostanziali all’evento traumatico, quali l’essere testimone diretto della tragedia e le modalità di comunicazione della notizia, ed in ultimo, i fattori successivi all’evento, tra tutti la qualità del contesto di caregiving affidatario.
La dottoressa ha proseguito con la descrizione del percorso diagnostico-terapeutico implementato in Puglia per la presa in carico di questi minori, ispirato alla psicologia dell’emergenza e al protocollo cognitivo comportamentale per il trattamento del lutto traumatico di Cohen, Mannarino e Staron. Il piano di interventi è articolato in tre macro-fasi: la fase di emergenza, la quale prevede l’attivazione di un equipe di pronto soccorso psicologico, che accompagna il minore e la famigli affidataria dalla scoperta del cadavere al ripristino delle routine; la fase finalizzata alla valutazione degli adattamenti psicosociali conseguiti e alla stabilizzazione dei sintomi traumatici; la terza e ultima fase volta alla predisposizione del percorso di intervento psicoterapico per l’elaborazione del lutto traumatico e delle pregresse esperienze sfavorevoli. A conclusione dell’intervento vi è stato il riferimento ad un aspetto quanto mai saliente nel lavoro con questi bambini e le loro famiglie, che appare supportato tanto dalla teoria quanto dalla pratica clinica: la condizione di questi minori è caratterizzata da un’alta complessità assistenziale che impone la necessità di interventi integrati in setting multipli, interdisciplinari e intersettoriali, a partire dalla fase di emergenza e per l’intero ciclo di vita.

Il terzo contributo è stato quello della dottoressa Cecilia Laglia, psicologa  e psicoterapeuta, Equipe per l’Età Evolutiva APC-SPC di Roma e Scuola di Psicoterapia Cognitiva (SPC) di Roma, la quale ha presentato l’applicazione della metodologia della Terapia Dialettico Comportamentale nel trattamento di un bambino di 7 anni, vittima di bullismo in contesto scolastico. Dopo una chiara descrizione del funzionamento del piccolo, con riferimento alle principali caratteristiche dei suoi contesti di vita, l’attenzione è stata volta alle peculiarità dell’intervento. Ne è stato messo in rilievo l’obiettivo cardine da perseguire nella fase iniziale, ossia relativo alla necessità di creare una buona relazione terapeutica con il piccolo così che questi potesse vincere l’emozione di vergogna frutto dell’esperienza traumatica, e generalizzata a tutti i contesti di vita, compreso quello terapeutico. L’applicazione di un approccio al trattamento orientato alla Terapia Dialettico Comportamentale ha permesso di perseguire con efficacia l’obiettivo di sostenere il bambino nell’acquisizione di più efficaci strategie di regolazione emotiva, altresì nel fronteggiamento del vissuto di vergogna, e la pianificazione di un kit di sopravvivenza per i momenti di sofferenza emotiva e dis-regolazione, a fronte di una presa di coscienza ed elaborazione graduale dell’evento traumatico.

Infine, l’ultimo intervento è stato presentato dalla dott.ssa Alessandra Sgaramella, psicologa psicoterapeuta in formazione presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva dell’AIPC di Bari. In questo contributo, il focus è su una classe di popolazione di nuovo interesse nell’ambito della psicoterapia cognitiva: i minori stranieri non accompagnati (MSNA). Questi minori sono esposti a traumi pre, peri e post-migratori con esiti sulla salute fisica e mentale, e una morbilità psichiatrica maggiore rispetto alle popolazioni paragonabili per età, in particolare per il Disturbo da Stress Post-Traumatico e il Disturbo Depressivo. La dottoressa ha presentato il protocollo di ricerca nato dalla stretta collaborazione tra l’Associazione Italiana Psicoterapia Cognitiva (AIPC) di Bari, il Servizio di Psicologia dell’Ospedale Giovanni XXIII, di Bari e l’Università degli Studi di Bari, finalizzato alla rilevazione degli elementi di vulnerabilità e resilienza che intervengono nella strutturazione o meno di un PTSD in questi minori, con particolare attenzione al background politico e socioculturale di appartenenza, alle motivazioni sottostanti il progetto migratorio e alle prospettive future di cui gli stessi sono portatori. L’obiettivo ultimo sarebbe quello di fare chiarezza sul funzionamento psicologico di questi minori e individuare quali elementi agiscono da fattori di protezione e di rischio rispetto all’insorgenza di risposte psicopatologiche al trauma. A conclusione si è discusso delle future linee di ricerca che dovranno necessariamente vertere sull’individuazione nell’ambito della Terapia Cognitiva di protocolli di trattamento efficaci anche per questa classe di popolazione.

L’innovatività dei temi trattati, la poliedricità delle metodologie di ricerca e cura presentate, trasversali all’intero ciclo di vita e a classi di popolazione molto diverse tra di loro, e non in ultimo la passione con cui ciascun professionista ha parlato del proprio lavoro, hanno reso questo simposio una preziosa occasione di apprendimento, riflessione e confronto professionale.