Skills training: palestra delle abilità

di Francesca Rossini

Un protocollo di allenamento per imparare a regolare le emozioni e a gestire i rapporti interpersonali

Con “Skills Training” ci si riferisce ad uno dei protocolli fondanti il modello di trattamento Dialectical Behaviour Therapy (DBT) sviluppatosi a partire dal 1980, quando la psichiatra e psicoterapeuta americana Marsha Linehan condusse una ricerca sull’efficacia della terapia comportamentale per il Disturbo di Personalità Borderline presso il National Institute of Mental Health. Come racconta Linehan nel suo libro “Una vita degna di essere vissuta”,  i semi della DBT sono stati piantati nel 1961, quando, a diciotto anni, è stata ricoverata nel reparto Thompson Two dell’Institute of Living di Hartford, in Connecticut, in seguito a uno scompenso psichico durante l’anno del diploma. È grazie all’esperienza vissuta in prima persona, in quella che lei stessa definisce “discesa all’inferno”, che nasce l’esigenza di creare un nuovo modello di trattamento per il Disturbo di Personalità Borderline, diagnosi ricevuta dalla Linehan.
All’interno della costellazione di interventi che caratterizzano l’approccio DBT, si inserisce il protocollo di Skills Training. Si tratta di un gruppo di lavoro il cui focus è allenare le proprie abilità sociali per poter gestire parallelamente gli aspetti emotivi e gli aspetti interpersonali che caratterizzano la vita dei partecipanti al trattamento. Si tratta quindi di una vera e propria palestra, in cui ci si addestra per potenziare abilità sopite o poco allenate, fondamentali per poter fronteggiare aspetti cruciali della vita dell’essere umano, come la gestione degli aspetti emotivi e dei rapporti interpersonali.
Il setting di gruppo ha una duplice funzione: sia poter sperimentare, in vivo, le abilità su cui si sta lavorando, sia ricevere stimolo e validazione dagli altri partecipanti; il gruppo diventa quindi il palcoscenico principe dove poter sperimentare i risultati e il propulsore del proprio addestramento.
Le schede fornite tramite cui si struttura il lavoro, chiamate esse stesse “abilità”, sono delle autoistruzioni mentali, brevi e concise, che guidano il pensiero e di conseguenza il comportamento. A breve termine aiutano a sostituire pattern cognitivi, emotivi e comportamentali disfunzionali; a lungo termine aiutano a migliorare l’attitudine mentale verso sé stessi e verso il mondo.
Non si tratta di psicoterapia, ma di un gruppo di lavoro, dove le persone si mettono in cerchio, guidate da un leader (che insegna, modella e dà i compiti) e un co-leader (che osserva i processi gruppali, aiuta a tenere i tempi, gestisce le crisi).
Lo Skills Training si basa sui principi derivanti dalla mindfulness: la consapevolezza del momento presente, il non attaccamento (all’idea di come dovrebbero essere le cose idealmente, favorendo l’accettazione delle cose così come sono), l’inter-essere (importanza di ogni membro di un gruppo che ha scopi comuni), l’impermanenza (il gruppo è in continuo movimento) e l’idea che il gruppo è perfetto così com’è (ogni membro sta facendo del suo meglio, è importante riconoscere, accettare e validare il funzionamento del gruppo).
Gli obiettivi del protocollo sono essenzialmente quattro: implementare le abilità socio-emotive per gestire la disregolazione emotiva; ridurre l’ansia sperimentata nei rapporti interpersonali, promuovendone una miglior gestione; controllare e prevenire l’impulsività; rafforzare l’identità personale. Questi scopi fanno capo ai quattro moduli secondo i quali è stato organizzato il protocollo: abilità di “efficacia interpersonale”, abilità di “regolazione emotiva”, abilità di “tolleranza alla sofferenza” e abilità di “gestione e controllo degli impulsi (mindfulness)”.
Inizialmente ideato per il trattamento del Disturbo di Personalità Borderline, è stato poi riadattato per il trattamento di altre tipologie di disturbo, come ad esempio la schizofrenia (Social Skills Training).
Verrà prossimamente illustrata l’esperienza di attuazione di questo protocollo all’interno di un contesto residenziale, quale una comunità terapeutica di doppia diagnosi.

Foto di Vie Studio:
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Ordine naturale e sofferenza mentale

di Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini

Stoicismo, buddhismo e credenze sul funzionamento della natura: una via verso l’accettazione radicale

Quale legame esiste tra le credenze che un individuo ha sul funzionamento e la giustizia etica della realtà e la sua condizione di benessere (o sofferenza) mentale? In un articolo appena pubblicato su Cognitivismo Clinico, Elio Carlo, Maurizio Brasini, Mauro Giacomantonio e Francesco Mancini fanno il punto sull’argomento, evidenziando come tali credenze, che danno origine nella mente umana a precise aspettative sugli stati del mondo – possibili (ordine naturale fattuale), giusti (ordine naturale etico) e utili (ordine naturale utilitaristico) – siano effettivamente in grado di modulare le convinzioni circa il valore e la perseguibilità degli scopi e dunque di agire, in accordo con modello cibernetico del purposive behaviour, su tutti i fattori che influenzano l’accettazione della sofferenza psicologica (entità e credibilità degli scopi, investimento, meccanismi ricorsivi).

Dopo aver chiarito il ruolo dell’ordine naturale nel promuovere il benessere psicologico o, al contrario, nel favorire la sofferenza, gli autori prendono in esame una forma particolarmente radicale di accettazione, l’amor fati della filosofia antica, rivisitandola in chiave cognitivista e mostrando come essa, a differenza di quanto accade nella accettazione comunemente intesa – in cui il processo di accettazione termina con la cessazione degli investimenti sugli scopi irrimediabilmente compromessi (lasciando dunque la possibilità di un “residuo” di sofferenza da “rassegnazione”) – miri a realizzare una condizione di annullamento completo e definitivo della sofferenza mentale.

Secondo gli autori, l’analisi degli insegnamenti di due grandi scuole di pensiero, lo stoicismo di Marco Aurelio e il buddhismo antico, opportunamente “tradotti” in senso cognitivista, attesta che, alla base di entrambi questi sistemi di pensiero, vi è proprio il concetto di ordine naturale fattuale.

La retta comprensione delle leggi che regolano la natura (il Logos stoico, il Dharma buddhista), da conseguirsi attraverso l’impiego di specifici esercizi cognitivi ed esperienziali, consente all’essere umano di ristrutturare le proprie credenze sul valore, etico e utilitaristico, dei fatti esistenziali (il lutto, la malattia, il successo, l’abbandono, ecc.) e di collocarsi in una condizione di assenza di sofferenza che, almeno teoricamente, è generale e permanente: l’individuo non soffre, qualsiasi cosa accada, perché tutto ciò che succede è compatibile con il suo schema di funzionamento della realtà e non può compromettere o minacciare alcuno scopo dotato di valore utilitaristico o normativo.

Una parte importante dell’articolo è dedicata proprio all’analisi degli esercizi “spirituali” proposti da stoicismo e buddhismo; gli autori mettono in luce i meccanismi cognitivi attraverso cui tali pratiche incidono sull’assetto scopistico dell’individuo e sulle cause della sofferenza mentale e, aspetto particolarmente interessante, mostrano come, alla luce del concetto di ordine naturale, esse acquistino un senso alquanto differente da quello comunemente loro attribuito dagli approcci psicoterapeutici contemporanei.

È il caso, ad esempio, degli esercizi di mindfulness, tanto di moda oggi nella pratica psicologica e psicoterapeutica, che, a giudizio degli autori, corrisponderebbero solo in parte alle pratiche di visione profonda (vipassana) del buddhismo antico, alle quali vengono solitamente ricondotte; mentre la mindfulness, secondo gli autori, serve essenzialmente a promuovere la defusione, le meditazioni vipassana del buddhismo originario, presupponendo, diversamente dalla mindfulness, pratiche molto spinte di concentrazione meditativa, assolvevano probabilmente a un compito cognitivo estremamente più significativo, quello di indurre la comprensione diretta, esperienziale dell’ordine naturale fattuale delle cose e, conseguentemente, di promuovere la completa ridefinizione degli scopi e degli investimenti personali.

Per approfondimenti

Carlo E., Brasini M., Giacomantonio M., & Mancini F. (2021). Accettazione, amor fati e ordine naturale: una prospettiva cognitivista. Cognitivismo clinico 18, 1, 67-86.

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Embodied Mindfulness

di Claudia Ajello

“Nihil est in intellectu quod non sit prius in sensu”
San Tommaso D’Aquino

Negli ultimi anni la comunità scientifica si è interessata sempre di più alla Mindfulness ed il numero degli studi dedicati all’argomento è aumentato esponenzialmente. Tuttavia, questa crescita è anche il riflesso del fatto che, in assenza di un’univoca e condivisa definizione operativa, molti approcci hanno fatto ricorso al termine attribuendogli significati diversi. Il termine Mindfulness deriva dalla parola “sati” in lingua Pali (i.e. attenzione consapevole, attenzione nuda) e viene riferita, in generale, al concetto di “consapevolezza” e attenzione al momento presente. In letteratura, è stata principalmente concettualizzata dall’approccio tradizionale buddista e dall’approccio occidentale psicologico moderno come quello di Jon Kabat-Zinn. Seppur anche all’interno delle stesse tradizioni la mindfulness è definita in modi diversi, secondo gli autori della revisione è possibile rintracciarne nel concetto di “embodiment” (incarnamento) un terreno comune. La teoria dell’embodiment, considera il corpo come un elemento costitutivo della mente e sottolinea la natura incarnata della cognizione. La mente è radicata nelle esperienze corporee dell’organismo e immersa nell’ambiente con cui l’organismo interagisce continuativamente. Utilizzando questa cornice teorica il concetto di “Embodied Mindfulness” proposto dagli autori pone l’accento sull’aspetto incarnato della consapevolezza che non è più una funzione meramente simbolica e concettuale ma affonda le sue radici nell’esperienza corporea e implica una relazione reciproca tra mente, corpo e ambiente (Varela et al., 1991). Questa visione mette d’accordo le diverse tradizioni. Nell’approccio buddista corpo e mente sono considerati intrinsecamente connessi. Lo stato mentale ha una sua espressione nel soma e al tempo stesso le sensazioni corporee sono l’aspetto incarnato degli stati mentali. Nella tradizione occidentale psicologica le meditazioni sulle sensazioni corporee sono presenti in ogni sentiero di pratica e considerate fondamentali per sviluppare lo stato di mindfulness. Inoltre, la nozione di Mindfulness come “consapevolezza incarnata” trova fondamento nella neurobiologia moderna, in particolare nell’integrazione tra processi top-down e bottom up. Ci sono evidenze che la Mindfulness, utilizza sia strategie top-down che bottom up essendo connessa a una regolazione flessibile dell’attenzione e alla consapevolezza degli stimoli interni ed esterni (Chiesa et al., 2013). Vi è quindi un generale accordo sul fatto che la meditazione basata sulla mindfulness porta all’aumentata consapevolezza delle interazioni bidirezionali tra stati corporei e processi cognitivi ed emotivi (Michalak et al., 2012). Tuttavia, nonostante le evidenze, il concetto della mindfulness embodied è in larga parte trascurato dalla ricerca scientifica e l’aspetto corporeo è marginale in tutti i moderni questionari di misurazione della Mindfulness. Pertanto gli autori propongono di considerare nella misurazione psicometrica dei livelli di Mindfulness, il questionario MAIA (Mehling et al., 2012) nato per indagare la consapevolezza enterocettiva. In conclusione secondo gli autori il concetto di “embodiment”, che più di ogni altro aspetto integra le diverse tradizioni, trova fondamento nei dati scientifici e permette di dare una definizione operativa necessaria per studiare scientificamente la mindfulness. Infine, potrebbe essere il meccanismo che rende conto dell’efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness.

Articolo di riferimento

Khoury, B., Knäuper, B., Pagnini, F., Trent, N., Chiesa, A., & Carrière, K. (2017). Embodied mindfulness. Mindfulness, 8(5), 1160-1171

Approfondimenti bibliografici

Chiesa, A., Serretti, A., & Jakobsen, J. C. (2013). Mindfulness: top-down or bottom-up emotion regulation strategy? Clinical Psychology Review, 33(1), 82–96.

Mehling, W. E., Price, C., Daubenmier, J. J., Acree, M., Bartmess, E., & Stewart, A. (2012). The multidimensional assessment of interoceptive awareness (MAIA). PloS One, 7(11), e48230.

Michalak, J., Burg, J., & Heidenreich, T. (2012). Don’t forget your body: mindfulness, embodiment, and the treatment of depression. Mindfulness, 3(3), 190–199.

Khoury, B., Knäuper, B., Pagnini, F., Trent, N., Chiesa, A., & Carrière, K. (2017). Embodied mindfulness. Mindfulness, 8(5), 1160-1171.

Varela, F. J., Thompson, E., & Rosch, E. (1991). The embodied mind: cognitive science and human experience. Cambridge: MIT Press

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Depressione negli studenti universitari: come curarla?

di Francesca Manco
curato da Elena Bilotta

Si stima che il 20-30% degli studenti universitari soffra di disturbo depressivo maggiore. Gli studenti universitari, infatti, si trovano a sperimentare una serie di fattori di stress unici che li rendono particolarmente vulnerabili alla depressione. Questi fattori di stress possono essere ad esempio l’allontanamento da casa, l’adattamento a un nuovo ambiente, fattori di stress accademici, un sistema di supporto sociale potenzialmente instabile, problemi economici, aumento dell’uso di sostanze, privazione cronica del sonno. A ciò si aggiunge il fatto che durante il periodo universitario  accelera negli studenti il processo di sviluppo dell’identità e la libertà di esplorare nuove carriere, stili di vita, relazioni e visioni del mondo.

Quanto finora esposto ha portato la comunità scientifica a sottolineare l’importanza di attuare interventi adeguati al fine di aiutare gli studenti a superare i sopra elencati momenti di difficoltà.

Tuttavia, gli interventi psicoterapeutici per studenti depressi in contesti universitari scontano un supporto empirico limitato nonostante, nei pochissimi studi clinici presenti, se ne sono potuti rilevare i potenziali benefici.

Per sopperire a tali lacune presenti nella letteratura, in un recente studio (il primo di questo tipo),

McIndoo e collaboratori hanno condotto un’indagine preliminare sull’efficacia dell’attivazione comportamentale (BA) e della terapia basata sulla Mindfulness (MBT) in forma abbreviata  sugli studenti universitari, nel contesto di un disegno di ricerca controllato randomizzato.

L’attivazione comportamentale si basa sulla teoria del comportamento e sulla premessa che la depressione viene alleviata aumentando il rinforzo positivo contingente alla risposta; tale intervento terapeutico è stato scelto per la sua brevità, l’evidenza empirica sulla sua efficacia e il suo elevato potenziale di divulgazione tra i professionisti clinici che lavorano con gli studenti universitari.

I principi fondamentali dell’MBT riguardano invece la regolazione dell’attenzione, l’apertura all’esperienza presente, la curiosità e l’accettazione del “qui ed ora” e la consapevolezza non giudicante dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni e dell’ambiente; la citata terapia basata sulla Mindfulness è stata scelta in quanto dati di ricerca recenti supportano la sua efficacia nel trattamento della depressione.

In questo studio si è visto come gli interventi abbreviati di BA e MBT sono associati a riduzioni significative della depressione, dello stress percepito e della ruminazione in un campione di studenti universitari. Inoltre si è visto come tali miglioramenti sono stati in gran parte mantenuti a un mese di follow-up, fornendo un supporto preliminare relativamente al fatto che entrambi gli interventi somministrati possono nel breve termine suscitare benefici continuativi per la salute mentale. Sebbene questi risultati richiedano una replica (soprattutto a causa del campione molto limitato), i dati suggeriscono che sia BA che MBT possono ridurre in maniera efficace la depressione negli studenti universitari.

Questo studio, quindi, da una parte aggiunge ulteriore supporto nella letteratura già presente sull’efficacia di BA e MBT per il trattamento della depressione; dall’altra, la somministrazione di questi due interventi in forma abbreviata (e per quanto riguarda la somministrazione dell’MBT anche in forma individuale) sembra essere un ottimo compromesso in termini di tempo, costi ed efficacia per i contesti universitari.

Bibliografia

McIndoo, C.C.; File, A.A.; Preddy, T.; Clark, C.G.; Hopko, D.R. (2016). Mindfulness-based therapy and behavioral activation: A randomized controlled trial with depressed college students. Behaviour, Research and Therapy77, 118–128.

 

 

Mindfulness e gioco d’azzardo

di Alessandro Giurgola

Il ruolo della psicoterapia basata sulla mindfulness nel trattamento del craving del gioco d’azzardo patologico (gap)

Il Gioco d’azzardo patologico (GAP) entra nel 2014 in una nuova sezione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) intitolata “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction” segnando un passaggio fondamentale nella psicopatologia. Joseph

Nowak e altri accademici statunitensi nel 2014 hanno rilevato che la prevalenza del GAP tra gli universitari era del 10,23%, in aumento rispetto al passato, grazie anche alla diffusione di massa del gioco online.

Il GAP, come le altre addiction, è contraddistinto da fasi di craving – desiderio improvviso e incontrollabile di assumere una sostanza psicoattiva -, discontrollo emotivo e dipendenza. Il lavoro psicoterapeutico finalizzato alla prevenzione delle ricadute è diretto al craving in quanto elemento di mantenimento del problema. I modelli comportamentali automatici del GAP che conducono il soggetto a rispondere impulsivamente agli stimoli scatenanti (triggers) sono fondamentali per il paziente per educarlo a tollerarli e non replicarli.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è il principale tra gli approcci utilizzati per il trattamento del Gioco d’azzardo patologico e l’evidenza empirica supporta la sua efficacia. La CBT, in particolare quella basata sulla pratica della Mindfulness (MBCT), promuove l’importanza di riconoscere il pensiero come prodotto dalla nostra mente e non come sinonimo di fatto (pensiero ≠ realtà), preferendo accettarne l’esistenza piuttosto che modificarne il contenuto. La Mindfulness porta intenzionalmente consapevolezza alle sensazioni corporee, ai pensieri e alle emozioni coinvolti nel craving. I pazienti acquisiscono abilità a osservarne le caratteristiche come farebbero spettatori esterni, come se appartenessero a qualcun altro. L’effetto atteso è quello di ridurre la durata, l’intensità e l’importanza del desiderio di giocare d’azzardo.

In uno studio della psichiatra canadese Diane McIntosh e colleghi, vengono messi a confronto l’efficacia della CBT attraverso la formulazione e la condivisione del caso, i protocolli classici e la MBCT per trattare il GAP. Tutti e tre gli interventi hanno ottenuto miglioramenti significativi a tre e sei mesi di follow-up. La Mindfulness è stata più efficace dei classici protocolli CBT nel ridurre il comportamento problematico e lo stress associato. Gli autori hanno concluso che un breve intervento di Mindfulness, psicoeducazione e CBT, possono essere un utile complemento rispetto ai soli protocolli CBT, favorendo la riduzione della ruminazione e la soppressione del pensiero disfunzionale automatico.

Perché la MBCT è utile nel GAP?
Perché aumenta la consapevolezza di sé, riduce le risposte automatiche e quindi le ricadute; le emozioni negative associate al craving e alle ricadute sono sostituite dalla compassione verso di sé; il valore delle ricompense ottenute tramite il gioco diminuisce; vengono sviluppati maggiori valori personali; la tolleranza alla frustrazione aumenta con una maggiore capacità di ritardare le ricompense.

Affrontare i propri impulsi è cruciale nella gestione dei problemi legati al gioco d’azzardo e la Mindfulness sembra essere un’ottima alleata degli psicoterapeuti.

Per approfondimenti

Ventola A. M., Yela José Ramón, Crego A., Maria Cortés-Rodríguez, Effectiveness of a mindfulness-based cognitive therapy group intervention in reducing gambling-related craving, Journal of Evidence-Based Psychotherapies, Vol. 20, No. 1, March 2020, 107-134

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Disturbo d’ansia sociale nei bambini

di Elena Cirimbilla

Strutturare l’intervento sul bisogno del singolo: uno studio sul DAS in età evolutiva

Il disturbo d’ansia sociale (DAS) o fobia sociale è caratterizzato da una marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile esame degli altri e nelle quali teme di mostrare sintomi che verranno valutati negativamente. Nei bambini, l’ansia si manifesta sia nell’interazione con l’adulto sia con i pari e può essere caratterizzata da pianti, scoppi di collera, ritiro, immobilizzazione o impossibilità a parlare in situazioni sociali.

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), in genere applicata in protocolli che si focalizzano su riduzione dell’ansia, esposizioni e sviluppo di nuove abilità, risulta essere il trattamento più efficace nei disturbi d’ansia in età evolutiva. Nonostante ciò, è stato dimostrato che la fobia sociale, uno dei disturbi d’ansia più comuni tra i bambini e gli adolescenti, sembra rispondere meno degli altri a questo tipo di CBT.

A partire da queste considerazioni, si è sviluppato il recente studio di Liesbeth G. E. Telman e colleghi che hanno applicato al DAS un protocollo suddiviso secondo due linee di trattamento: una procedura di intervento CBT divisa in moduli, tesa all’adattamento secondo le necessità e i bisogni del singolo individuo, e una parte a integrazione, con interventi di mindfulness.

Lo studio è stato realizzato su dieci giovani di età compresa tra gli 8 e i 17 anni con Disturbo d’Ansia Sociale. Oltre alle misure adottate per la diagnosi e per la rilevazione dei sintomi d’ansia, gli autori hanno previsto anche la valutazione della flessibilità dei terapeuti, caratteristica indispensabile per costruire un intervento personalizzato e adattato al singolo paziente. Elemento interessante della ricerca, infatti, è l’opportunità dei terapeuti di poter scegliere tra dieci diversi moduli, strutturando l’intervento sulla base delle componenti individuali da trattare. È stato possibile decidere il numero di sedute, le caratteristiche dei compiti assegnati e i moduli sui quali concentrarsi, includendo e favorendo gli elementi che avrebbero potuto incrementare l’efficacia del trattamento, come ad esempio la ristrutturazione cognitiva, il trattamento espositivo, le abilità di coping e/o gli esercizi di mindfulness.

Lo studio ha condotto a risultati interessanti. Innanzitutto, dopo una media di undici sedute, il 50% del campione non risultava più rispondere ai criteri per il DAS al re-test e l’80% al follow-up. Gli autori sottolineano come la brevità dell’intervento, inferiore rispetto alla media di molti studi, possa essere imputabile alla possibilità di concentrarsi solo sugli elementi (e quindi moduli) ritenuti necessari per ogni singolo caso. In secondo luogo, i giovani sembrano aver beneficiato dell’accostamento della mindfulness agli elementi base della CBT, proposto nel 50% dei casi. Secondo gli autori, si tratta del primo studio in cui è stato aggiunto un intervento mindfulness a una CBT divisa in moduli in età evolutiva.

I risultati presentati favoriscono importanti riflessioni cliniche: la possibilità di muoversi all’interno dei protocolli della CBT tradizionale e scegliere in modo flessibile le aree sulle quali concentrarsi nel trattamento, integrando, quando utili, interventi di terza generazione, ha permesso di adattare e personalizzare l’intervento. Un protocollo modulare e flessibile permette così al terapeuta di strutturare un trattamento che “osservi” realmente le necessità personali e che consenta di trattare il bisogno individuale anziché il disturbo nella sua accezione di etichetta diagnostica.

Per approfondimenti

American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fifth Edition, DSM-5. Arlington, VA. (Tr. it.: Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Quinta edizione, DSM-5. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014).

Liesbeth G. E. Telman, Francisca J. A. Van Steensel, Ariënne J. C. Verveen, Susan M. Bögels & Marija Maric (2020): Modular CBT for Youth Social Anxiety Disorder: A Case Series Examining Initial Effectiveness, Evidence-Based Practice in Child and Adolescent Mental Health, DOI: 10.1080/23794925.2020.1727791

Reagire all’imprevedibile

di Emanuela Pidri

Tecniche di auto aiuto per la gestione di stress e traumi

Gli esseri umani hanno la tendenza a credere di poter controllare la maggior parte dei domini della propria vita e quando ci si imbatte in eventi catastrofici, drammatici, avversi e imprevisti, è necessario adattarsi. Ci sono, tuttavia, degli eventi difficili da gestire così che l’equilibrio viene sopraffatto determinando, in alcuni casi, la manifestazione di traumi. Gli eventi stressanti possono essere di diversa natura: psicologica, fisica, biologica; ma mantengono lo stesso processo biochimico composto da tre fasi: allarme, resistenza, esaurimento. Il disagio percepito dall’individuo insorge quando lo stress non viene efficacemente gestito dalle risorse individuali. Pur conservando capacità resilienti e protettive, dato il carico improvviso rapportato a eventi sopraffacenti, tali capacità risultano strumenti non sufficienti per affrontare il disagio. Per tale motivo, è importante sperimentare tecniche che ne promuovano il mantenimento. Vivere eventi negativi porta, quasi inevitabilmente, a ragionare continuamente sul passato e sul futuro, dando l’illusione di avere il controllo su ciò che si sta vivendo. Tuttavia, rimanendo orientati nel passato o nel futuro, non si facilita il processo di adattamento alla situazione stressante. È funzionale riorientarsi nel presente, nel qui e ora, riformulando i pensieri disfunzionali e creando alternative di pensiero, analizzando i propri comportamenti a breve e lungo termine. Praticare la Mindfulness aiuta, per esempio, a imparare a lasciar andare ciò che non si può controllare, maturando la flessibilità mentale necessaria per sviluppare la capacità di resilienza. Gli effetti della Mindfulness sul cervello sono rilassamento profondo, maggiore attenzione e concentrazione e maggiore capacità di adattamento. La pratica permette di comprendere i pensieri senza cercare di eliminarli, di vivere le emozioni senza evitarle o senza farsi travolgere dalle stesse. Esempi di esercizi sono: “i pensieri sono solo pensieri”, “respiro lento e profondo”, “meditazione della montagna”. Rispetto alla meditazione sul respiro esistono altre tecniche che possono essere sperimentate, ad esempio esercizi di respirazione rendono più efficace e funzionale il mantenimento dell’arousal ottimale. Può succedere, però, che l’evento abbia un impatto intenso che viene registrato nel corpo poiché i ricordi sono organizzati nella memoria principalmente a livello percettivo e sensoriale. In questo caso, sarebbe utile attuare la “tecnica del posto sicuro”. In un periodo fortemente stressante, un modo per rilassarsi è immaginare un posto sicuro, un angolo rassicurante e sereno della mente: scegliere un luogo della casa e pensare a una situazione, a un ricordo preciso o a un’immagine inventata in cui ci si è sentiti bene; si conclude pensando a una frase o a una parola che permetta di ricordare immediatamente il proprio posto sicuro, tale per cui può essere riportata alla mente ogni volta che ve ne sia la necessità. Il Training Autogeno è una forma di psicoterapia breve fondata sull’autodistensione da concentrazione che permette di mantenere l’equilibrio neurovegetativo attraverso esercizi di: pesantezza per mezzo della distensione muscolare; calore per mezzo di una vasodilatazione vascolare; cuore per mezzo del controllo del respiro; plesso solare per mezzo dell’influenzamento degli organi addominali; fronte fresca per mezzo dell’opposizione della testa rispetto al corpo. Per evitare di incorrere in disturbi come quello post traumatico da stress, il burnout o la somatizzazione sul fisico, è importante applicare strategie personalizzate e individuali per gestire questo stress, senza tuttavia ovviare alla richiesta di aiuto di uno specialista soprattutto in casi complessi ove le pratiche e/o le tecniche non possono prescindere da un percorso psicoterapeutico.

Per approfondimenti:

Carlson, L.E., Speca, M, Patel, K.D., Goodey, E. (2004). Mindfulness-based stress reduction in relation to quality of life, mood, symptoms of stress and levels of cortisol, dehydroepiandrosterone sulfate and melatonin in breast and prostate cancer outpatients. Psychoneuroendocrinology, 29(4), 448-474.

Hoffmann B.H., Manuale di Training Autogeno, Roma, Astrolabio, 1980.

Mike Maric M., Il potere antistress del respiro. Il metodo per abbandonare definitivamente ansia, tensioni e stanchezza. Vallardi A., 2020.

Shapiro, F. (2000). EMDR. Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso movimenti oculari. McGraw-Hill editore.

Shepherd, J., Stein, K., Milne, R. (2000). Eye movement desensitization and reprocessing in the treatment of post-traumatic stress disorder: a review of an emerging therapy. Psychological Medicine, 30, 863-871.

Foto di Polina Tankilevitch da Pexels

Genitori non si nasce, si diventa

di Sonia Di Munno

Depressione post partum. Un trattamento efficace per i genitori

Il periodo della gravidanza e quello successivo al parto sono molto particolari e delicati per la famiglia. La madre, in primis, vive un momento che può essere meraviglioso ed entusiasmante ma anche di grande fragilità e vulnerabilità. Il cambio di ruolo, la riorganizzazione familiare, le paure, il senso di inadeguatezza possono portare alcune donne a sviluppare una depressione post partum. Il disturbo generalmente esordisce dalla sesta alla dodicesima settimana dalla nascita del figlio: la madre si sente inadeguata, impotente e triste e molte volte provare questa tristezza può portare a sentimenti di colpa e vergogna che non permettono di chiedere aiuto.

Simile alla depressione post partum è il baby blues, un disturbo dell’umore transitorio (in genere scompare dopo il primo mese), molto comune nelle neomamamme, dovuto principalmente al cambiamento ormonale e caratterizzato da lievi sintomi depressivi.

La depressione post partum comporta una varietà di sintomi: dai disturbi del sonno, dell’appetito e di concentrazione alla sensazione di vuoto, inadeguatezza, dall’assenza di piacere a pensieri di poter far del male al bambino o che la vita sia inutile.

Vi sono dei fattori di rischio che possono portare alla depressione post partum, come avere una depressione prenatale, ansia prenatale, mancanza di supporto sociale, stress finanziario o coniugale ed eventi avversi nella vita, aver avuto in passato una precedente storia di depressione o aver sofferto di baby blues dopo la nascita. Anche la giovane età della madre può essere un fattore di rischio (è molto più frequente nelle madri adolescenti). Inoltre, come per molti altri disturbi, aver subito dei traumi (abusi sessuali sia nell’infanzia sia nell’età adulta) o aver sperimentano degli eventi stressanti prima e durante la gravidanza può portare a sviluppare questa patologia.

Di solito i trattamenti per questo disturbo comprendono l’uso dei farmaci antidepressivi e di psicoterapia; tuttavia durante la gravidanza e l’allattamento, devono essere molto ben valutati e limitati perché possono comportare rischi sia per il feto sia per la madre, aumentando la suscettibilità a disturbi come l’ipertensione. Per questo motivo sono stati studiati e convalidati nuovi trattamenti per il benessere della mamma e del bambino, con dei protocolli molto efficaci che si basano sui mindfulness-based programs (MBP) e sulla compassione.

I programmi basati sulla mindfulness (consapevolezza) sono corsi educativi mente-corpo, che hanno lo scopo specifico di allenare la mente, attraverso la pratica della meditazione, ad adottare una consapevolezza non giudicante focalizzata sul momento presente. Per “compassione”, si intende un particolare orientamento della mente che riconosce l’universalità della sofferenza nell’esperienza umana e coltiva la capacità di affrontare quella sofferenza con gentilezza, empatia e pazienza. Crescono le prove che la compassione sia un meccanismo importante negli MBP e alcuni ricercatori sostengono l’importanza di un’esercitazione pratica alla compassione all’interno del percorso. Questi trattamenti hanno dimostrato di essere efficaci sia per i sintomi di depressione sia per altri disturbi mentali.

Gli MBP producono un  miglioramento della salute e del benessere mentale e fisico,  riducono significativamente i sintomi della depressione e prevengono le recidiva alla stessa, oltre a essere un valido aiuto per la gestione e la riduzione dello stress. Nel caso specifico del periodo peri/post natale hanno aiutato anche a gestire il dolori e i fastidi della gravidanza (compreso quello del parto), diventando un valido aiuto per i genitori in attesa; queste pratiche hanno permesso anche di  aumentare la disponibilità e le attenzioni dei genitori alla cura del bambino una volta nato.

Genitori non si nasce ma si diventa, e questo momento di passaggio e di cambiamento nella vita di un genitore porta con sé anche tante paure e difficoltà, insite nella natura umana. Come diceva Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un essere umano, niente che sia umano mi è estraneo.

Per approfondimenti

Jennifer L. Payne, Jamie Maguire (2019), Pathophysiological Mechanisms Implicated in Postpartum Depression, Neuroendocrinol. 52: 165–180. doi:10.1016/j.yfrne.2018.12.001.

Ministero della salute (2017), La nostra salute, Enciclopedia Salute, Disturbi psichici, Depressione post partum

Olga Sacristan-Martin, Miguel A. Santed, Javier Garcia-Campayo, Larissa G. Duncan, Nancy Bardacke, Carmen Fernandez-Alonso, Gloria Garcia-Sacristan, Diana Garcia-Sacristan, Alberto Barcelo-Soler  and Jesus Montero-Marin (2019); A mindfulness and compassion-based program applied to pregnant women and their partners to decrease depression symptoms during pregnancy and postpartum: study protocol for a randomized controlled trial. Sacristan-Martin et al. Trials, 20:654 https://doi.org/10.1186/s13063-019-3739-z

Perché la Mindfulness è così speciale?

di Antea D’Andrea

Non è la panacea di tutti i mali ma, come dimostrato dalle neuroscienze, ha effetti positivi nell’interazione delle reti neuronali

Si sente spesso parlare di Mindfulness, termine usato e abusato in diversi campi dell’esperienza. Se da un lato la diffusione di questo concetto risulta assolutamente positiva e necessaria, dall’altro l’abuso rischia di banalizzarne i principi e l’utilità. La Mindfulness, infatti, ad oggi appare come la panacea di tutti i mali, come il “nero sta bene con tutto”, ma proprio come il nero poi rischia di venire a noia. Allora – si chiederanno in molti e a giusta ragione – perché scrivere della Mindfulness?

Anche gli studi scientifici seguono le mode, diciamoci la verità, e attualmente è una pratica di tendenza anche nelle neuroscienze: abbiamo avuto il periodo dei disturbi dell’apprendimento, poi quello delle correlazioni tra autismo e vaccini e adesso è il turno della Mindfulness. Le neuroscienze sono un po’ come Picasso!

Se da un lato risulta di tendenza perché ha rivoluzionato la terapia cognitiva costituendo, insieme ad altre, quella che viene definita “terapia cognitiva di terza ondata”, dall’altro gli studi neuroscientifici e, in particolare, quelli sulle reti neurali hanno evidenziato la sua efficacia nella modificazione non solo del comportamento nella vita quotidiana, ma anche delle caratteristiche funzionali e strutturali del sistema nervoso centrale.

Partiamo dal principio. La meditazione Mindfulness affonda le sue radici nell’antica tradizione meditativa buddista. Secondo la teoretica filosofica buddista, la Mindfulness rappresenta un concetto che può essere strutturato come un “tener presente” o una “non distrazione” e rappresenta un esercizio integrato in cui sono coinvolte numerose abilità cognitive e motorie che generano comportamenti orientati verso l’etica. Con l’ascesa dei moderni interventi basati sulla Mindfulness, il significato è stato ampiamente dibattuto, assumendo un aspetto più sfaccettato e multidimensionale rispetto a quello tradizionale e così, come la definisce il professore newyorkese Kabat-Zinn, la Mindfulness rappresenta la consapevolezza che nasce nel momento in cui si focalizza l’attenzione sul momento presente, in maniera curiosa e non giudicante.

Fin qui tutto nella norma: da secoli si sa che la meditazione, così come altre forme di promozione di capacità autoriflessive, giovi ai più (per lo meno a chi ha la pazienza di imparare a praticarla senza farsi assalire dai propri pensieri, dalla rabbia e dal senso del ridicolo). Allora cosa rende la Mindfulness così speciale?
La ricerca scientifica e i nuovi paradigmi utilizzati nelle neuroscienze cognitive, affettive e sociali hanno identificato alcuni correlati neurologici e fisiologici di questa pratica meditativa, conducendo alla comprensione di come la neuroplasticità sia influenzata e indotta da cambiamenti correlati all’esperienza. In questa cornice teorica, grande rilevanza ha avuto lo studio delle reti neurali, quindi l’importanza delle interazioni locali e globali tra le aree cerebrali, configurandosi ad oggi come il maggior interesse delle scienze che studiano la consapevolezza e la meditazione.

Attualmente sono state evidenziate tre reti cerebrali fondamentali nel coordinamento cognitivo e nell’elaborazione affettiva e interpersonale: la Central Executive Network (CEN), rappresentata da un circuito fronto-parietale, la Default Mode Network (DMN), rete che coinvolge l’attivazione di numerose regioni corticali e sottocorticali e la Salience Network (SN) che coinvolge sistemi frontali e cingolati.
È stato dimostrato che, se praticata regolarmente, la Mindfulness comporta una ridotta attività della Default Mode Network (DMM), rete deputata a processi di richiamo delle memorie, alla regolazione emotiva e, più nello specifico, dedita a processi di pensiero autoriflessivi e al mind wandering e a un aumento dello spessore corticale di aree come le cortecce prefrontali e l’insula; aree tipicamente associate a processi sensoriali, enterocettivi e attentivi.

Inoltre, l’aumento dello spessore di queste aree, correlato con l’esperienza meditativa e quindi maggiormente evidenziato in soggetti più anziani, sembra suggerire che la meditazione potrebbe rallentare i processi di assottigliamento corticale correlati all’invecchiamento.
Diversi studi di neuroimmagine hanno sottolineato cambiamenti indotti dalla meditazione, sia a lungo che a breve termine, non solo a livello strutturale ma anche a livello funzionale; è interessante notare come la maggior parte dei modelli evidence-based della psicopatologia sottolineano che siano proprio le alterazioni nelle interazioni tra i diversi network cerebrali a sottendere differenti stati psicopatologici.

L’influenza positiva della Mindfulness sulla modificazione delle dinamiche di interazione tra i network, e all’interno di uno stesso network, che risultano alterate dai più svariati processi, di cui l’invecchiamento e le condizioni psicopatologiche rappresentano solo un esempio, rappresenta il principale vantaggio e il maggior meccanismo funzionale che sottende questa pratica.
Tuttavia, sebbene molto potente, la Mindfulness non è la panacea di tutti i mali e non sta bene con tutto come il nero. È opportuno un uso consapevole di questa pratica per non banalizzare e invalidare il grande lavoro di direttore d’orchestra che questa svolge sul coordinamento delle nostre reti neurali e sulla sincronizzazione dell’attività delle diverse aree cerebrali.

Per approfondimenti

Thompson, E. Looping Effects and the Cognitive Science of Mindfulness Meditation. 2017. Oxford University Press, New York
Dunne, J.D. Buddhist styles of mindfulness: a heuristic approach. In: Ostafin, B., Robinson, M., Meier, B. (Eds.), Handbook of Mindfulness and Self-Regulation. 2015.  Springer pp. 251–270
Sharf, R.. Mindfulness and mindlessness in early chan. Philos. East West. 2014. 64, 933–964
Kabat-Zinn, J. An outpatient program in behavioral medicine for chronic pain patients based on the practice of mindfulness meditation: theoretical considerations and preliminary results. Gen. Hosp. Psychiatry. 1982. 4, 33–47
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