Anna vede ma non viene vista

di Claudia Colafrancesco
a cura di Erica Pugliese
illustrazione di Elena Bilotta – Disegni per la salute mentale

Cosa è successo ai bambini che hanno assistito alla violenza durante il lockdown?

“Dottoressa, secondo lei si sta bene anche da sola? Mica devo avere un compagno per forza? Quando il mio ragazzo mi ha lasciato, papà ha fatto un casino, per lui la famiglia deve restare unita. Non sopporta neanche che mio cugino si sia separato e abbia un’altra compagna. A me sembra felice”.

[…] “Ma l’amore esiste davvero? Io non voglio un compagno. Ho visto soffrire troppo mamma e non voglio fare la sua stessa fine”.

[…] “Una volta ho visto papà picchiare mio fratello. Calci e pugni. Gli prendeva la testa e gliela sbatteva contro il muro. Ho avuto paura. Mica è normale?! Avrebbe potuto anche ucciderlo.

Una volta è successo anche con mamma, ma ero più grande e ho chiamato i Carabinieri. Papà ancora oggi ce lo rinfaccia. Mamma dice che è meglio non denunciare. Se pazientiamo ancora un po’, vendiamo la casa e andiamo a vivere da un’altra parte”.

[…] “Papà dice che andrà via ma a me pare che sta sempre lì. Secondo lei non se ne va perché è ancora innamorato di mamma? Mamma dice che deve essere lui a lasciare la casa, noi non ce ne dobbiamo andare”.

[…] “Non ce la faccio più dottoressa, non si può più uscire e anche lui sta sempre a casa. No, non è violento. Con me non è mai stato violento (fisicamente, ndr). L’altra mattina ho fatto rumore mentre mi facevo il caffè e l’ho disturbato. Mi ha detto: ‘Sta grassona! Ancora stai a casa a spese mie. Quando morirà tua madre, che pensi che ti manterrà tuo fratello?! Resterai sola!’. Ho provato a raccontarlo a mamma, ma lui mi ha sentito. Ha fatto uno scatto, come se volesse farmi del male. Aveva gli occhi indemoniati. Ho pensato: ‘Ora mi uccide!’. Si è fermato”.

Anna vede ma non viene vista. È stata una bambina “invisibile”, cresciuta nella paura del padre. Non considerata oggetto di violenza, soprattutto quando questa è stata meno palese come lo è il maltrattamento psicologico, viene percepita estranea alla situazione. Oggi è una giovane donna, ma respira ancora violenza. Quella violenza invisibile, a volte assistita, altre subita, che non lascia segni sulla pelle e sulle ossa. Le “cicatrici” sono visibili, però, nel suo presente dai contorni incerti, fatto di dubbi ossessivi, e nei suoi vissuti stravolti da una burrasca emotiva legata al terrore di restare sola.

Per Anna il periodo di reclusione ha esacerbato i costi della convivenza con un padre violento, così come tanti bambini e adolescenti che in questi mesi di chiusura forzata sono stati costretti a respirare l’aria di casa.

I media hanno promosso immagini positive di famiglie intente a preparare pizze e dolci e a studiare passatempi per rendere meno noiose le giornate. Ma dietro questi quadretti gioiosi si nascondono le tante, sicuramente troppe, “Anna” che hanno vissuto tre mesi da incubo, come denuncia Gloria Soavi, presidente del Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (Cismai) che, assieme ad altre decine di associazioni, ha chiesto al Governo un “decreto bambini” per realizzare una task force dedicata e la messa in campo di misure straordinarie. L’isolamento amplifica le situazioni di violenza:  “anche in condizioni normali – ha spiegato Soavi – non è facile chiedere aiuto, adesso è praticamente impossibile riuscire a rivolgersi a un adulto di cui si fidano”.

Una ricerca portata avanti dall’ospedale Giannina Gaslini ha evidenziato le ripercussioni che il lockdown ha portato con sé sullo stato psicologico dei bambini. Dall’analisi dei dati relativi alle famiglie con figli minori di 18 anni a carico, è emerso che sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione. In particolare, si è registrato un aumento dell’irritabilità, instabilità emotiva, cambiamenti del tono dell’umore, disturbi del sonno e disturbi d’ansia, per effetto diretto del confinamento stesso e per il riflesso del malessere vissuto dai genitori.

Se questo è lo specchio di quel che è stato il lockdown per i bambini in “comuni” famiglie italiane, possiamo solo immaginare le conseguenze per quei bambini che abitualmente respirano violenza. Un intervento tempestivo nella fase acuta consente di ridurre i rischi di sintomatologie post-traumatiche perduranti nel tempo. La letteratura nazionale e internazionale considera la psicoterapia cognitivo comportamentale (TCC) il trattamento psicologico d’elezione nei casi di violenza assistita con una efficacia dimostrata a livello scientifico secondo una prospettiva di Evidence-based Medicine.

Anna è intrappolata in una casa che dovrebbe proteggerla, l’unico spazio che sente suo è quando si reca in terapia e può essere “vista”.

Per approfondimenti:

http://www.gaslini.org/wp-content/uploads/2020/06/Indagine-Irccs-Gaslini.pdf

https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/minori_maltrattati_cismai_il_lockdown_ha_innalzato_il_rischio_di_abusi_

Saper uscire dal protocollo

di Elena Cirimbilla

Dal manuale a Dragon Ball: la flessibilità del terapeuta in età evolutiva

Il termine “flessibilità” indica, in senso figurato, la “facilità a variare, a modificarsi, ad adattarsi a situazioni o condizioni diverse”. Nel lavoro clinico o di ricerca, frequentemente si incontra la raccomandazione al terapeuta di essere flessibile. Ciò significa, se osserviamo il significato del termine, adattarsi alle condizioni del paziente.

Certamente occorre tener conto delle esigenze del paziente in ogni fase di vita, ma l’età evolutiva richiede una particolare attenzione all’adattamento dei contenuti al livello di sviluppo. A partire da questa necessità, il terapeuta ha la possibilità di rifarsi a numerosi manuali che propongono modalità ludiche con le quali è possibile adattare l’intervento al bambino.

Così, qualche tempo fa, a un piccolo paziente è stato proposto l’uso del “semaforo”, uno strumento per il problem-solving (volto cioè all’apprendimento di strategie di risoluzione dei problemi), tipico dell’intervento cognitivo comportamentale con l’età evolutiva. Con molto entusiasmo, è stato costruito lo strumento e ne è stata condivisa la modalità di utilizzo. All’incontro successivo però, il semaforo non aveva funzionato, il paziente non era riuscito a utilizzarlo e farlo suo e, non ultimo, aveva avvertito un senso di inadeguatezza per questo.

Uno strumento semplice, divertente e adatto all’età del bambino che i manuali suggeriscono non era stato utile. Che fare?

Sarebbe stato possibile riproporlo, provando a capire se gli fosse sfuggito qualcosa o se non lo avesse applicato nel modo giusto, ma il rischio di farlo sentire nuovamente inadeguato era elevato. A questo punto diviene fondamentale la flessibilità del terapeuta, intesa non solo come la capacità di non aderire rigidamente ai protocolli, ma, soprattutto nel lavoro con i bambini, la capacità di costruire e cucire sul piccolo paziente il processo o lo strumento più adatto a lui. In tal senso, la flessibilità nel lavoro in età evolutiva si può intendere come la capacità di distanziarsi dal manuale, di cogliere il razionale dietro agli strumenti per riadattarli sulla base delle passioni e degli interessi del bambino, al fine di permettergli di essere agente e attore del cambiamento.

Attraverso il gioco, le immagini, gli esempi concreti e le metafore a lui familiari, legate ad aspetti di vita conosciuti e sperimentati, il terapeuta può costruire assieme al bambino uno strumento nuovo, personalizzato, che lo accompagni nel processo sul quale si sta intervenendo. Non è inusuale che il terapeuta legga i fumetti o veda i cartoni a cui il bambino è appassionato, in una prima fase per costruire una buona alleanza, ma successivamente per poter utilizzare ciò che il bambino ama e in cui è semplice coinvolgersi al servizio della terapia.

E così all’incontro successivo, nel lavoro sul problem solving, il “semaforo” che il manuale tanto decantava era diventato “Karin”, il gatto maestro di arti marziali di Dragon Ball.

 

Per approfondimenti:

Di Pietro M., Bassi E. (2013). L’intervento cognitivo comportamentale per l’età evolutiva. Strumenti di valutazione e tecniche per il trattamento. Trento: Erickson Edizioni

Foto di Jennifer Murray da Pexels

Papà tristi durante la gravidanza

di Rossella Cascone

La depressione perinatale paterna

L’attesa di un figlio e la sua nascita implicano grandi cambiamenti individuali e relazionali e possono provocare forti ansie e preoccupazioni. La maggior parte degli studi scientifici si sono concentrati sulla figura materna e sulla possibilità di sviluppare una sintomatologia depressiva, tralasciando che la gravidanza è un evento di coppia.

Nonostante sia vero che le donne manifestano un’incidenza maggiore delle sindromi depressive rispetto agli uomini, e che quindi sono considerate più a rischio di sviluppare una patologia in gravidanza, è importante sottolineare come anche i padri possano sviluppare psicopatologie della genitorialità.

Ricerche mostrano come oltre il 10% dei padri sperimenta depressione e ansia durante il periodo perinatale. Questa incidenza è alta e spesso sottostimata, anche se negli ultimi anni è cresciuto l’interesse per l’argomento.

Il padre, nonostante viva un coinvolgimento diverso rispetto alla donna durante la gravidanza, prova e sperimenta forti emozioni come paura e gioia, ma anche gelosia, invidia e senso di esclusione dalla relazione tra mamma e figlio.

Con “Depressione Perinatale Paterna”, dal francese Depression Périnatale Paternelle (DPP), si definisce la manifestazione nel padre di una sintomatologia depressiva dall’inizio della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, caratterizzata da: tristezza, malinconia, irrequietezza, impotenza, umore depresso, disperazione, sconforto, costante preoccupazione, ansia elevata, perdita d’interessi, calo della libido, insonnia, crisi di rabbia, ipocondria e somatizzazione. A questi si associano anche acting out comportamentali come fughe, relazioni extraconiugali, disturbi del comportamento alimentare, dipendenze patologiche, attività fisiche o sessuali compulsive.

In Italia, una ricerca ha messo in evidenza il ruolo fondamentale del pediatra nel riconoscere la depressione post-partum all’interno della coppia somministrando loro un semplice test. Dall’indagine, condotta su un campione di 499 padri e 1122 madri, è emerso come alla prima visita il 26,6% delle madri e il 12,6% dei padri ha riportato un alto punteggio all’EPDS mentre, alla seconda visita, il 19,0% delle madri e il 9,1% dei padri, ha riportato un risultato al test che segnalava il rischio della malattia depressiva. Dati che dimostrano come la DPP è comune nella popolazione media.

Nella maggior parte degli studi condotti sul tema si ha conferma del fatto che i disturbi mentali della madre rappresentano un fattore di rischio per la Depressione Perinatale Paterna. In altri studi, il basso livello di soddisfazione di coppia, la coesione coniugale e gli alti livelli di stress perinatale sono stati individuati come fattori di rischio per lo sviluppo di ansia e depressione paterna e possono influenzare anche l’attaccamento dei padri ai loro figli. In particolare, elevati livelli di stress, in entrambi i sessi, possono presentarsi durante la gravidanza fino a diciotto mesi dal parto, soprattutto se il neonato ha un temperamento impegnativo, richiede continuamente attenzione, piange o dorme con difficoltà. Francine de Montigny e colleghi dell’Università del Québec, in Canada, sottolineano come questi aspetti sono percepiti come più stressanti dai padri rispetto alle madri. Gli studiosi hanno inoltre evidenziato come sperimentare un senso di inutilità, sentirsi inadeguato e percepirsi poco efficace come genitore costituiscano fattori predittivi per la depressione paterna.

Fra i fattori di rischio vi sono anche i tratti di personalità. Alcune ricerche, tra cui quella condotta nel 2010 da Franco Baldoni e Luisa Ceccarelli dell’Università di Bologna, hanno individuato nei padri con depressione post-natale la presenza di tratti depressivi e ansiosi, di un elevato grado di nevroticismo e di un basso livello di estroversione. In particolare, i tratti ansiosi possono emergere più marcatamente fra il terzo trimestre di gestazione e i primi due mesi di vita del bambino e sono caratterizzati da pensieri intrusivi e comportamenti volti a prevenire “danni irreparabili” alla mamma e al bambino, quasi del tutto sovrapponibili a quelli che si manifestano nel Disturbo Ossessivo Compulsivo.

Infine, lo scarso sostegno sociale e familiare rappresenta un ulteriore aspetto di vulnerabilità sia nelle madri sia nei padri.

Dagli studi fino ad oggi condotti, emerge come i disturbi depressivi paterni solitamente si inseriscono all’interno di una crisi di coppia, in cui vi è un basso consenso e una  scarsa coesione coniugale, associati a disturbi mentali nella partner. Attualmente non vi sono informazioni circa la conduzione dello screening sulla depressione perinatale paterna e sulle terapie più indicate ma la letteratura scientifica sottolinea come la terapia cognitivo comportamentale risulta molto efficace per il trattamento della depressione e della depressione post-partum. Nonostante i sintomi della depressione paterna siano tendenzialmente più lievi e maggiormente esternalizzanti rispetto alla depressione post-partum materna, vi sono casi in cui la sintomatologia risulta essere più marcata. In questi casi, l’intervento psicoterapeutico dovrebbe mirare alla riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva.  Inoltre, l’analisi delle ricerche più recenti mostra il diffondersi di terapie sulla prevenzione e sulla cura della depressione perinatale basate sulla mindfulness. Tale tecnica potrebbe essere applicata anche nella prevenzione della depressione perinatale paterna così da attuare un intervento con entrambi i genitori.

Per approfondimenti

  • Baldoni F., Ceccarelli L. (2010). “La depressione perinatale paterna. Una rassegna della ricerca clinica ed Empirica”, Infanzia e adolescenza, 9(2), 79 – 92.
  • Cicchiello S. (2015). “La depressione perinatale materna e paterna”, Psicoterapeuti in-formazione 15, 3 -36.
  • Currò V., De Rosa E., Maulucci S., Maulucci M.L., Silvestri M.T., Zambrano A., Regine V. (2009). “The use of Edinburgh Postnatal Depression Scale to identify postnatal depression symptoms at well child visit”. Italian Journal of Pediatry 28, 35, 1, 32
  • Demontigny F., Girard M.E., Lacharité C., Dubeau D., Devault A. (2013). “Psychosocial factors associated with paternal postnatal depression”. Journal of Affective Disorders 150, 1, 44-49.
  • Goodman J.K. (2004). “Paternal postpartum depression, its relationship to maternal postpartum depression, and implications for family health”. Journal of Advanced Nursery 45, 1, 26-35.
  • Letourneau N., Tryphonopoulos P.D., Duffett-Leger L., Stewart M., Benzies K., Dennis C.L., Joschko J. (2012). “Support intervention needs and preferences of fathers affected by postpartum depression”. Journal of Perinatal and Neonatal Nursing 26, 1, 69-80.
  • Paulson, J.F., Bazemore, S.D., (2010), “Prenatal and postpartum depression in fathers and its association with maternal depression: a meta-analysis”, JAMA vol. 303, 19.

 

Stare male. Farsi male

di Miriam Miraldi

Il dolore fisico come tentativo di soluzione al dolore emotivo tra gli adolescenti

Negli ultimi anni, se da una parte i dati sul suicidio, seconda causa di morte nei giovani, hanno mostrato un generale calo, dall’altra sono invece aumentati i comportamenti autolesivi, ovvero di aggressione diretta verso di sé, attraverso tagli, bruciature, ferite.

Secondo uno studio del 2017 dell’Osservatorio Nazionale per l’adolescenza, due giovani su dieci hanno questo tipo di esperienza. Alcuni studi rilevano maggiore frequenza nelle ragazze, altri sembrano invece non rilevare significative differenze tra ragazzi e ragazze nella frequenza, piuttosto le differenze di genere sono più evidenti nelle modalità: mentre le ragazze utilizzano maggiormente il cutting o il tagliarsi, attraverso l’uso di lamette o altri materiali come pezzi di vetro,  i ragazzi tendono a utilizzare prevalentemente colpi autoinferti  o bruciature, per esempio di sigaretta o con accendini. I dati possono essere sottostimati in quanto tali comportamenti vengono agiti segretamente e possono essere accompagnati anche da vergogna e colpa, contrastando il diffuso malinteso che l’autolesionismo sia prevalentemente una forma di ricerca di attenzioni.

Solitamente il primo episodio avviene tra i 13 e i 14 anni, tuttavia si osservano alcune più rare situazioni anche in età precedente; in ogni caso si tratta generalmente di giovani che riportano caratteristiche associate al disagio emotivo come la forte autocritica, la depressione, l’ansia e la disregolazione delle emozioni. Inoltre, la letteratura indica che questi fenomeni si associano ad altri tipi di comportamenti autodistruttivi, come le difficoltà legate all’alimentazione e l’abuso di sostanze.

La ricercatrice americana Jennifer Muehlenkamp, in una recente analisi sul tema, condotta insieme ai suoi colleghi, ha evidenziato come nella letteratura scientifica il termine “autolesionismo intenzionale” o “auto-danneggiamento intenzionale” (DSH, deliberate self-harm) viene spesso impiegato come un termine più comprensivo per comportamenti autolesionistici, con o senza intenzionalità suicidaria, che hanno esiti non fatali; questa espressione tende a essere utilizzato principalmente nei paesi europei. Al contrario, molti studi pubblicati da ricercatori del Canada e degli Stati Uniti utilizzano “autolesionismo non suicidario“ (NSSI, non-suicidal self injury) per intendere l’aggressività deliberata e autoinflitta al proprio corpo, senza intento suicidario. In quest’ultima accezione, l’autolesionismo è riconosciuto anche come disturbo specifico nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5). Uno dei criteri diagnostici, in particolare, sottolinea anche l’aspetto “motivazionale”, per cui si osserva che l’individuo è coinvolto in attività autolesionistiche con una o più delle seguenti aspettative: ottenere sollievo da una sensazione o uno stato cognitivo negativi;  risolvere una difficoltà interpersonale; indurre una sensazione positiva.

L’autolesionismo può associarsi a diverse condizioni psicopatologiche, è positivamente correlato al suicidio, e assolve a differenti funzioni sia interpersonali che intrapersonali; lo si riscontra in particolare tra i giovani affetti da disturbi ansioso-depressivi e in coloro i quali mostrano alti livelli di disregolazione emotiva, caratterizzata da marcati e repentini cambiamenti dell’umore.

Ma perché i giovani e giovanissimi attivano tali comportamenti?

Le emozioni costituiscono un potente trigger e l’autolesionismo può essere al servizio di vari scopi: può servire per esprimere rabbia autodiretta o disgusto verso di sé, per punirsi o espiare una colpa, per porre fine a momenti di dissociazione o depersonalizzazione (dovuti per esempio a traumi o abusi); in generale, comunque, viene per lo più eseguito per “dare sollievo”, per alleviare – seppur solo temporaneamente – intense emozioni negative e per interrompere stati mentali indesiderati di frustrazione, solitudine, tristezza, distacco, angoscia o vuoto. Le condotte autolesionistiche consentono di spostare l’attenzione sul dolore fisico, non occupandosi di quello emotivo da cui, di fatto, originano. Anche da un punto di vista psicofisiologico, diverse ricerche sostengono l’ipotesi per cui esso eserciti la funzione di “regolatore delle emozioni”, in quanto si riscontra un abbassamento dell’arousal durante e dopo la messa in atto comportamenti autolesivi, che avrebbero dunque un potere “calmante”; questi studi derivano per lo più dalla teoria di Marsha Linehan sulla disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità, e sostengono che l’autolesionismo sia quindi una strategia di coping, ovvero di fronteggiamento delle situazioni emotivamente stressanti, per quanto chiaramente maladattiva. Il fatto che tale strategia in qualche modo “funzioni”, inducendo stati positivi, può attivare un circolo vizioso di mantenimento, favorendo la reiterazione di tali comportamenti.

Per approfondimenti

Muehlenkamp, J. J., Claes, L., Havertape, L., & Plener, P. L. (2012). International prevalence of adolescent non-suicidal self-injury and deliberate self-harm. Child and adolescent psychiatry and mental health6(1), 10.

Linehan M.M. (2011). Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina Editore.

Klonsky E.D., Victor, S.E e Boaz Y.S. (2014). Nonsuicidal Self-Injury: What we know and what we need to know. The Canadian Journal of Psychiatry, 59(11), 565-568.

Andover M.S., Morris B.W., (2014). Expanding and Clarifying the Role of Emotion Regulation in Nonsuicidal Self-Injury. Can J Psychiatry, 59(11): 569–575.

Se i bambini assistono alla violenza

di Claudia Colafrancesco a cura di Erica Pugliese

Che adulti saranno domani?

“Una volta papà Toni voleva farmi star zitta e mi ha tenuto con la bocca aperta sotto al rubinetto con l’acqua aperta”. Gioia (nome di fantasia) è stata “fortunata”: il suo fratellino Giuseppe è stato ucciso dalla ferocia del patrigno Toni Barde il 27 gennaio scorso e lei è stata risparmiata. Le storie raccontate dalla bambina alla psichiatra infantile Carmelinda Falco sugli episodi di violenza vissuti tra le mura domestiche pesano come macigni sulla coscienza di chi questa tragedia poteva e doveva evitarla. 

“Una volta – continua Gioia – anche la mamma reagì: ‘Basta! Li stai uccidendo!’”, aveva urlato. Quel giorno infame Giuseppe non stava fingendo di essere svenuto come avevano imparato a fare per difendersi dal patrigno ma si arrendeva davanti a un destino che aveva deciso di togliergli perfino l’infanzia. “Ho visto Giuseppe sul divano, non riusciva a parlare, aveva gli occhi un po’ aperti e un po’ chiusi. Gli ho detto: ‘respira’”.

Giuseppe aveva 7 anni ed è morto. Che ne sarà della sorellina?

Giuseppe e Gioia sono diventati, loro malgrado, protagonisti delle cronache nazionali per un epilogo terribile, ma quanti sono i bambini che quotidianamente subiscono violenza o portano con loro le ferite di una situazione familiare drammatica che resta chiusa dietro la porta di casa e che potrebbe segnarli per sempre? I dati dell’ultima relazione ISTAT sono allarmanti: circa il 69% dei bambini, figli di vittime di violenza, ha assistito agli abusi e il 18% ha subito violenza. Vista la delicatezza del tema, si può immaginare ancora un ampio sommerso.

Quando una madre decide di denunciare, riferisce che i figli non sono presenti mentre le mura domestiche si trasformano in uno scenario di violenza: “Erano nella loro stanza”, “Stavano dormendo”, “Non si sono accorti di nulla”. Sembrano essere invisibili agli occhi dei genitori i bambini che fanno esperienza di atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, da un genitore nei confronti dell’altro o nei confronti di un fratello o una sorella. Ma i bambini sono presenti non solo quando assistono direttamente. Lo sono anche quando compaiono lividi e ferite sul corpo della mamma o quando la paura e la tristezza segnano il suo volto, quando di ritorno da scuola trovano a casa tavoli e porte rotte e quando entrano in contatto con assistenti sociali, sistema giudiziario o personale sanitario.

Questa “violenza assistita” è rimasta per troppo tempo una questione privata, trovando il suo riconoscimento sociale in Italia solo al termine degli anni Novanta, quando i centri antiviolenza hanno portato alla luce i danni che tale tipo di maltrattamento provoca sul minore. Gli effetti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale nel breve e nel lungo periodo sono drammatici e più intensi se i bambini vengono colpiti in tenera età.

Uno recente studio, condotto dall’attuale presidente di Prevent Child Abuse America Chicago, Melissa Merrick, e collaboratori, evidenzia come le ferite subite nel “nido” familiare non solo non si rimarginano, ma nel tempo diventano dei buchi neri da un punto di vista sanitario, sociale ed economico per la collettività.

Malattie coronariche, ictus, asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, cancro (escluso il cancro della pelle), malattie renali, diabete, depressione, sovrappeso, obesità, fumo, abuso di alcol, dispersione scolastica, disoccupazione e mancanza di assicurazione sanitaria: questo è l’identikit del bambino invisibile ormai adulto che viene fuori dall’indagine portata avanti in 25 Stati americani. Quando mamma e papà litigano, i bambini assistono e vivono uno stress tossico che altera l’espressione dei geni: cervello, sistema immunitario e organi portano con sé i segni per tutta la vita.

Dal report emerge, inoltre, che le fasce più colpite sembrano essere le donne, i giovani tra i 18 e i 34 anni e le minoranze etniche. Questo significa che far leva sui giovani adulti consente di modificare i comportamenti a rischio per la salute e ridurre le conseguenze negative a lungo termine a livello individuale e sociale. Il vantaggio più grande è quello di spezzare il ciclo intergenerazionale di esperienze infantili avverse poiché è più probabile che sia questa l’età in cui iniziano a costruirsi una relazione più stabile. Una tesi sostenuta anche dai dati ISTAT 2019 che mostrano come dietro la violenza esiste già un passato di violenza subita o assistita in famiglia.

In conclusione, l’arma più efficace per mettere un argine a questa deriva è quella della prevenzione tra le mura domestiche: educare alle relazioni sane e alla creazione di ambienti sicuri per tutti i bambini e le famiglie è fondamentale per ridurre le gravissime conseguenze che esperienze infantili precoci sia dirette sia assistite possono causare.

La violenza assistita è un reato. Se conosci bambini vittime di questa grave forma di abuso, non esitare, chiedi aiuto alle forze dell’ordine o al più vicino centro antiviolenza.

Per approfondimenti: 

Merrick M.T. e coll. (2019). Estimated Proportion of Adult Health Problems Attributable to Adverse Childhood Experiences and Implications for Prevention — 25 States, 2015–2017. In Morbidity and Mortality Weekly Report.
Istat (2019). Report di analisi dei dati del numero verde contro la violenza e lo stalking 1522 – Gennaio 2913-Settembre 2019

 

La palude masochistica

di Roberto Petrini

Il mantenimento del problema nel carattere masochista: capire come uscire a “riveder le stelle”

Il carattere, come descritto dallo psichiatra e psicoterapeuta statunitense Alexander Lowen, può essere definito come un comportamento tipico con cui si affronta la vita, nel tentativo di trovare un equilibrio tra le richieste dall’ambiente e le esigenze e bisogni della persona.
Per adattarci all’ambiente, il nostro comportamento deve essere fluido e adeguato alla situazione, non possiamo rispondere a stimoli diversi con i nostri repertori di comportamento e pensiero tipici; se lo facciamo, le richieste di chi ci circonda, inizieranno a sembrarci inadeguate ed eccessive o cominceremo a sentirci inadeguati noi.Il carattere di una persona è facilmente rilevabile quando osserviamo gli altri, se invece rivolgiamo l’attenzione verso noi stessi e proviamo a essere introspettivi, spesso dobbiamo fare i conti con pensieri razionalizzanti che giustificano il nostro comportamento. 

Nel carattere descritto come masochistico, l’aggressività è rivolta contro se stessi, ma c’è anche un elevato risentimento verso gli altri, ci si sente spesso sotto pressione e sofferenti con la sensazione di esplodere. La frustrazione si esprime spesso sotto forma di lamenti, che hanno anche l’esito di tormentare le persone più prossime. La persona vive un conflitto irrisolvibile, è cosciente della realtà ma al tempo stesso non l’accetta e al contrario la combatte. Si sente in trappola e più lotta più sprofonda, cerca di ottenere approvazione e affetto con un metodo che tuttavia gli restituisce solo frustrazioni e sfiducia.

Il masochista vuole essere aiutato ma non crede nella bontà dell’aiuto e non crede nemmeno in se stesso. Da bambino, non gli sono mancati l’amore e l’accudimento delle figure genitoriali, ma è stato sottoposto a numerose critiche e offese, spesso accusato d’incapacità e inettitudine. La struttura del comportamento masochista spesso si forma, infatti, in una famiglia con un padre passivo e sottomesso e una madre dominante che si auto sacrifica per il bene della famiglia, cercando però di controllare il comportamento del figlio colpevolizzandolo e assillandolo e non permettendone atteggiamenti di libertà e protesta.

Per uscire dalla palude, occorre divenire consapevoli di cosa si fa per tentare di risolvere la situazione e come gli altri poi rispondano ai propri tentativi di soluzione, occorre osservare come poi le difficoltà si stabilizzino e si trasmettano ad altre aree di funzionamento. Spesso, purtroppo, accade che proprio i nostri tentativi di soluzione e le strategie che adottiamo per risolvere il problema siano essi stessi causa del mantenimento del problema. È importantissimo, quindi, fare attenzione a ciò che si ripete nel nostro comportamento e in quello altrui, e pensare a una nuova via che attivi altri cicli relazionali. 

Questo è il lavoro che dovrà essere affrontato nella psicoterapia: far fronte ai meccanismi responsabili del mantenimento della sofferenza e porre attenzione massima sulle situazioni attivanti, antecedenti al comportamento problematico, ma anche su quello che succede dopo. Sapere non basta: per uscire dalla palude non serve solo conoscere e capire, occorre sperimentare nuovi comportamenti “impegnati”, andare oltre i soliti pensieri circolari e non usarli per rassicurarci, per illuderci che ragionando da soli sulla questione riusciremo a trovare una soluzione. Quando si esprimerà tutto il rancore accumulato, probabilmente la rabbia lascerà il posto alla tristezza, al dolore e all’angoscia; uno stato penoso ma necessario, una situazione che dovrà essere accettata per rompere definitivamente il circolo vizioso nel quale si è incastrati e intravedere la libertà che ci attende fuori della palude. 

Follower e haters: uguali o diversi?

di Sonia Di Munno

Gli adolescenti e i social media: il tema del confronto e dell’invidia nei social media

L’uso dei social network è una delle attività preferite dagli adolescenti e, negli ultimi dieci anni, è diventata importante per la connessione, la comunicazione e la socializzazione con gli altri, nonché un modo per rafforzare l’identità ed esprimere la propria opinione. 

Indagando gli aspetti positivi dei social è emerso che: diminuiscono lo stress, attraverso la distrazione che permette una pausa dalla pressione lavorativa; aumentano la percezione di un sostegno sociale, grazie alla facilità nel rimanere in contatto e di fare nuove amicizie; permettono di esprimere i propri pensieri e contenuti e di auto-presentarsi. D’altro canto, l’uso e, soprattutto, l’abuso dei social ha fatto emergere effetti negativi come: l’hikikomori, vale a dire l’isolamento sociale, poiché si delegano alla sola esperienza virtuale i contatti e le amicizie;  la diminuzione dell’efficienza lavorativa; la crescita di fenomeni dannosi come il cyberbullismo, il sexting, il ricatto, la dipendenza da internet, dai videogiochi e dai giochi d’azzardo online.

In concomitanza con l’utilizzo dei social media, si è vista incrementare nelle persone,  in maniera particolare negli adolescenti, l’emozione dell’invidia tra pari, scaturita da un costante confronto sociale basato anche su falsi miti di felicità e benessere.

Lo psicologo e sociologo statunitense Leon Festinger, nella sua “teoria del confronto sociale”, ha dimostrato che gli individui sono motivati ​​a confrontarsi con i simili per valutare le proprie capacità e prestazioni e che, sebbene ciò avvenga comunemente con colleghi, familiari e amici nella vita quotidiana reale, il paragone è amplificato nei social media, dove c’è una maggiore tendenza a esporre le proprie caratteristiche positive. Il lavoro accurato e continuo per mantenere la propria identità e reputazione sui social media può suscitare ansia, bassa autostima e problemi di depressione soprattutto negli adolescenti che sono più invischiati in questo meccanismo. Nell’accentuato confronto sociale, trova terreno fertile l’emozione dell’invidia definita come “una miscela spiacevole e spesso dolorosa di sentimenti causati da un confronto con una persona o un gruppo di persone che possiedono qualcosa che desideriamo” oppure come “un’emozione dolorosa che deriva dal confronto con qualcuno che possiede qualcosa che noi vorremmo”. 

Da uno studio su 250 teenagers dai 13 ai 19 anni, è emerso che gli adolescenti che usano con più intensità i social media (misurata in termini di percezione di attaccamento agli stessi, più che dall’uso effettivo) sono anche più propensi all’invidia e al confronto, soprattutto se vivono in contesti molto competitivi. La tendenza ad avere un maggiore confronto con gli altri, infatti, non nasce solo dai social network, che ne sono un terreno fertile, ma può avere origine nell’educazione genitoriale, che spesso tende a comparare i propri figli con i compagni di scuola. Un comportamento che porta gli adolescenti a sviluppare personalità e comportamenti negativi come gelosia, rivalità e perdita di fiducia in se stessi, conducendoli a essere più inclini all’invidia, più suscettibili alle critiche e a impegnarsi di più nell’autopresentazione e promozione di sé. La tendenza a provare più confronto sociale e invidia dipende anche dal tipo di relazioni che si instaurano con i pari. La competizione e concorrenza attiva il sistema motivazionale interpersonale del rango che è alla base dell’idea che essere più forti e superiori dell’altro porti a un maggiore accesso alle risorse disponibili; per avvenire ciò, l’altro deve riconoscere questa superiorità attraverso l’ammirazione; al contrario, quando si pensa di avere delle caratteristiche o qualcosa che gli altri non apprezzano, c’è una diminuzione di autostima e sensazione di inferiorità o invidia. Per questo motivo trovarsi in un gruppo di pari in cui è forte il tema del confronto e della competizione induce una forte pressione psicologica nell’adolescente e a provare più invidia nei confronti degli amici. 

Non sono i social media, dunque, a scaturire negli adolescenti il tema del confronto e dell’invidia. Ma sono certamente un contesto fecondo per il proliferarsi di comportamenti negativi appresi nell’ambiente sociale di appartenenza.

Per approfondimenti

Peerayuth Charoensukmongkol (2018), The Impact of Social Media on Social Comparison and Envy in Teenagers: The Moderating Role of the Parent Comparing Children and In-group Competition among Friends; J Child Fam Stud 27:69–79

Shunyu Li, Hao Lei, Lan Tian (2018); Social Behavior And Personality, 46(9), 1475–1488 Scientific Journal Publishers Limited. All Rights Reserved, https://doi.org/10.2224/sbp.7631

Stefano Eleuteri , Valeria Saladino e Valeria Verrastro (2017). Identity, relationships, sexuality, and risky behaviors of adolescents in the context of social media; sexual and relationship therapy, vol. 32, nos. 3–4, 354–365; https://doi.org/10.1080/14681994.2017.1397953

Ruminazione rabbiosa e disimpegno morale

di Miriam Miraldi

In assenza di standard morali adeguati, capaci di guidare il buon comportamento, l’individuo tende a giustificare i propri comportamenti aggressivi

L’aggressività è un comportamento considerato un rilevante problema sociale e dunque, date le sue evidenti conseguenze negative, è di importanza oltre che teorica anche pratica esplorare quei fattori che possono contribuire a un suo incremento. Oggetto di studio in tal senso è l’emozione di rabbia, la quale viene distinta in letteratura come rabbia “di tratto”, vale a dire una caratteristica personologica stabile nel tempo, e rabbia “di stato”, cioè una condizione emotiva esperita in un momento dato. La rabbia predice i comportamenti aggressivi e alcuni studiosi hanno rilevato come, tra le due, la rabbia di tratto sia più incisiva di quella di stato su questo tipo di condotte. Gli individui che hanno alti livelli di rabbia di tratto hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti aggressivi.

Il concetto di “ruminazione rabbiosa” (AR, Anger Rumination) si riferisce alla tendenza a concentrarsi e a reiterare – anche per un tempo prolungato – stati d’animo, esperienze, ricordi passati legati alla rabbia. Alcuni studi hanno dimostrato che essa abbia un ruolo nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’auto-controllo e della capacità di tolleranza di condizioni spiacevoli, e nella messa in atto di comportamenti aggressivi, sia fisici sia verbali. Le ricerche finora effettuate hanno considerato il rapporto diretto tra rabbia e aggressività, ma è utile anche studiare i meccanismi di mediazione e moderazione: è chiaro che la rabbia di tratto è associata all’aggressività, ma la misura in cui le variabili intervengono mediando questa relazione è meno studiata. Secondo il modello di aggressione generale (GAM) di Craig Anderson e Brad Bushman, le persone agiscono in modo aggressivo sulla base dell’interazione tra vari livelli: fattori personali e situazionali, stati interni ed esiti dei processi di valutazione e decisionali. In particolare, i fattori personali (per esempio tratti di personalità e atteggiamenti) interagiscono con fattori situazionali (per esempio ricevere un insulto) per creare uno stato interno composto da cognizioni (come pensieri ostili), emozioni e attivazione fisiologica. Lo stato interno a sua volta influenza valutazioni e processi decisionali che possono o meno determinare una risposta aggressiva, cioè la rabbia di tratto (come fattore personale) potrebbe influenzare la propensione degli individui all’aggressività attraverso l’innesco di pensieri aggressivi e una crescente attenzione selettiva su eventi provocatori. Alcuni teorici hanno affermato che gli individui con alti livelli di rabbia di tratto hanno una maggiore tendenza alla ruminazione rabbiosa, la quale può contribuire a un aumento dell’aggressività. 

Oltre la ruminazione, un’altra variabile predittiva di comportamenti aggressivi molto studiata, in particolare da Albert Bandura, è il disimpegno morale (MD, Moral Disengagement): esso si riferisce a uno schema psicologico capace di “disconnettere” selettivamente le auto-sanzioni morali apprese, trasformandole in contenuti socialmente accettabili e giustificabili, liberando così l’individuo da sentimenti di autocondanna e colpa. Secondo la teoria del disimpegno morale, la maggior parte delle persone ha sviluppato standard morali personali capaci di guidare il buon comportamento e scoraggiare le condotte aggressive. Pertanto, gli individui di solito si comportano in modo coerente con i loro standard morali interni; tuttavia, questo processo di autoregolazione può essere disattivato in modo selettivo, nel momento in cui viene meno il rispetto delle norme, attraverso il disimpegno morale, che ricostruisce cognitivamente i comportamenti aggressivi in modo tale da renderli poco (o per nulla) sbagliati e dannosi per gli altri.

Partendo dalle conoscenze fin qui acquisite sulla ruminazione rabbiosa e sul disimpegno morale, Xingchao e colleghi hanno condotto uno studio su 646 giovani cinesi, i quali hanno completato questionari che misurano rabbia di tratto, ruminazione rabbiosa, disimpegno morale e aggressività. È emerso che la rabbia di tratto risulta positivamente associata all’aggressività e che la ruminazione rabbiosa media questa relazione. Il disimpegno morale funziona come moderatore sia nella relazione ruminazione rabbiosa/aggressività, sia nella relazione rabbia di tratto/aggressività. È interessante notare che la relazione significativa tra ruminazione e aggressività sembra essere presente solo tra individui con elevato disimpegno morale. Pertanto, il disimpegno morale è un fattore di rischio che rafforza gli effetti negativi della rabbia di tratto e della ruminazione rabbiosa sul comportamento aggressivo. Intervenire per abbassare i livelli di disimpegno morale potrebbe indebolire l’associazione tra rabbia e aggressività, nonché tra ruminazione e aggressività.

In sintesi, lo studio ha portato a due considerazioni importanti: 1) la ruminazione rabbiosa ha un ruolo cardine nella relazione tra rabbia e aggressività e può ulteriormente compromettere le capacità di autoregolazione e di risoluzione della rabbia, a causa della concentrazione prolungata su stati d’animo rabbiosi e su pensieri aggressivi; 2) la relazione tra ruminazione rabbiosa e aggressività non è significativa negli individui con basso disimpegno morale: questo risultato può essere spiegato dalla teoria del disimpegno morale secondo cui gli individui con disimpegno morale alto possono usare molte potenziali spiegazioni per razionalizzare e giustificare i loro comportamenti aggressivi. Al contrario, gli individui con basso disimpegno morale hanno poche probabilità di autoassolversi giustificando i loro comportamenti aggressivi.

A livello di intervento, i programmi che cercano di ridurre la ruminazione rabbiosa andranno particolarmente a beneficio di quelle persone che presentano livelli più alti di disimpegno morale.

Per approfondimenti:

Wang, X., Yang, L., Yang, J., Gao, L., Zhao, F., Xie, X., & Lei, L. (2018). Trait anger and aggression: A moderated mediation model of anger rumination and moral disengagement. Personality and Individual Differences125, 44-49.

Caprara, G. V., Tisak, M. S., Alessandri, G., Fontaine, R. G., Fida, R., & Paciello, M. (2014). The contribution of moral disengagement in mediating individual tendencies toward aggression and violence. Developmental Psychology50(1), 71.

Delusioni e dintorni

  di Monica Mercuriu     

Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda. E lui si dice: “Il mio fiore è là in qualche luogo.”… Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto un tratto, tutte le stelle si spegnessero.
Antoine de Saint-Exupéry – Il Piccolo Principe                                                                      

La delusione rappresenta un sentimento di amarezza generato dalla mancanza di corrispondenza tra la realtà e una propria o altrui speranza.

Si può deludere qualcuno o essere deluso da qualcuno o qualcosa. In entrambe le situazioni, il soggetto non è passivo: genera un’aspettativa su sé stesso o sugli altri, immagina e si rappresenta uno scenario per lui positivo, e quando la realtà si scontra con la sua rappresentazione, senza adeguarsi ad  essa, la persona delusa si sente affranta, triste, prova emozioni sgradevoli che non sempre riesce ad accantonare.

Un bambino che prova delusione ha sicuramente immaginato una situazione in cui gli elementi presenti nella realtà vengono uniti insieme dalla migliore delle ipotesi: la speranza, talmente salda, a volte, da essere quasi irrealistica, nonostante la presenza scomoda di altri elementi pronti a contrastarla.

“Papà stasera ha detto che farà tardi, deve passare a ritirare una cosa… Forse si è ricordato che volevo l’album in edicola, sicuramente è così e vuole farmi una sorpresa”. La “migliore delle ipotesi” vince sul dubbio e, probabilmente, riesce a prevalere perché il bambino ha già sperimentato una situazione simile, con esito positivo, e ciò costituisce un antecedente forte e positivo.

La delusione che potrebbe nascere varierà d’intensità, da lieve a molto intensa, qualora il bambino non veda realizzata la sua aspettativa. Il genitore può essere però di grande aiuto nel processo di accettazione, poiché può confortare nell’immediato, facendo sentire il bambino al sicuro, e aiutarlo a capire dove il suo ragionamento, condito di speranza, ha seguito un’unica direzione, pur non avendo elementi di rinforzo o conferma. Da una delusione si guarisce, maggiori sono le aspettative infrante, maggiori saranno gli effetti di una delusione, ma pur sempre transitori.

Ma cosa accade quando il genitore comunica al bambino di essere stato deluso da lui, da un suo atteggiamento o comportamento, o magari dal fatto che non ha aderito a una sua richiesta? S’incontrano qui due stati d’animo: l’essere deluso del genitore e lo stato emotivo del bambino che ha deluso, caratterizzato spesso da elevati stati d’ansia, colpa e vergogna.

Un bambino, vulnerabile o sensibile alla colpa, può trovare inaccettabile questa condizione, sperimenta un fallimento per non essere riuscito nel suo intento o magari per aver fatto qualcosa che il proprio genitore non approva, e si può sentire colpevole, preoccupato, perché l’idea di aver generato nel genitore questo stato di forte amarezza è per lui grave. Può generarsi una credenza erronea di dover in tutti i modi far sì che i propri genitori non si sentano più delusi, alzando quindi costantemente il livello di controllo sulle proprie azioni, mantenendo alti standard di funzionamento a casa, a scuola, persino a livello sociale. Il bambino compie questo processo gradualmente con lo scopo di allontanare il più possibile l’eventualità di essere fonte di delusione. Questo vale anche per gli insegnanti e le altre figure di riferimento che fanno parte della sua vita; molto spesso il timore di deludere l’insegnante sovrasta il timore di prendere un brutto voto. Nella mente del bambino il voto si recupera, la fiducia una volta persa forse non si recupera più.

Alcuni test utilizzati nell’assessment in età evolutiva, soprattutto quelli che indagano la presenza di nuclei psicopatologici legati alla presenza dell’ansia, sono costituiti da questionari self report che il bambino può compilare da solo. Tra gli item proposti, spesso ricorrono le seguenti affermazioni: “temo di deludere i miei genitori”, “penso che i miei genitori non siano contenti di me”. Molti sono i bambini che, nell’intervista diagnostica, spiegano come questa sia una delle preoccupazioni più frequenti e importanti.

Un genitore o un insegnante può fare la differenza in queste circostanze. È importante comprendere come l’essere deluso e deludere faccia parte del processo maturativo di ogni individuo e come il superamento di tali emozioni porti, molto spesso, a cambiamenti positivi e stabili nel tempo, che tutelano il bambino e lo rendono allo stesso tempo autonomo e responsabile. È possibile, però, evitare conseguenze estreme o indesiderate, soprattutto in quelle famiglie dove il pattern di comportamento genitoriale si basa su uno stile di parenting autoritario o iperprotettivo, e dove l’essere colpevoli o fonte di delusione costituisce la base e la modalità di relazione preferenziale con i figli.

Concludendo questa riflessione, ancora una volta il romanzo “Il Piccolo Principe” può venirci in aiuto e costituire uno spunto di riflessione per l’adulto che di fronte ai singhiozzi di un piccolo principe, deluso e sconfortato può fare la differenza:

Era caduta la notte.
Avevo abbandonato i miei utensili.
Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone della sete e della morte.
Su di una stella un pianeta, il mio, la Terra, c’era un piccolo principe da consolare!
Lo presi in braccio. Lo cullai.
Gli dicevo:
“Il fiore che tu ami non è in pericolo. . . Disegnerò una museruola per la tua pecora. . .
e una corazza per il tuo fiore. . . Io. . .”
Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro.
Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo. . .
Il paese delle lacrime è così misterioso.”