La scelta di Alida

a cura di Giordana Ercolani

Soffrire è, senza dubbio, un’esperienza soggettiva che può essere difficile da sperimentare e ancor più da condividere. Possono emergere infatti valutazioni di auto-critica, poichè il solo fatto che si stia soffrendo può farci sentire fragili, minacciati, sbagliati e dunque più soggetti a perdite e/o giudizi negativi. Tutto questo amplifica il dolore emotivo, alimentando anche un senso di incomprensione e solitudine molto comune.

Per questa ragione vogliamo condividere la storia di Alida; affinché il coraggio di raccontarsi anche nella sofferenza psicologica possa essere dimostrazione di “normalità” e perché la condivisione dell’esperienza terapeutica di cambiamento possa aiutare chi sta soffrendo a considerare la possibilità di chiedere aiuto.

Ciao,
mi chiamo Alida e ho 28 anni; soffro di DOC dall’età di 10.

Non sapendo cosa fosse esattamente, mi sono sempre sentita una “bambina strana”, “un po’ particolare”, un po’ troppo fissata per la pulizia e con pensieri ricorrenti su contaminazione e contatti con cose/persone che avrebbero potuto in qualche modo danneggiarmi.

Resa insicura da queste paure e vergognandomene molto, facevo di tutto per camuffare, compiacere gli altri, fare ironia su di me, tutte cose che (col senno di poi) sono state nocive per la mia autostima.

Dopo il 2020, la situazione è esplosa, sfuggendo dal mio controllo. Se fino a quel momento ero riuscita ad imbrigliare il DOC nella mia quotidianità di studentessa universitaria con una buona media, figlia presente e affidabile, sorella e amica con (apparentemente) nessuna difficoltà…di lì in poi tutto cambiò.

Ero terrorizzata, impaurita dal contatto con gli altri e con gli oggetti. Ero reticente ad uscire di casa. I pensieri erano così presenti e pervasivi da distogliermi dallo studio, tanto che cominciai ad andare fuoricorso. Le compulsioni che il DOC mi suggeriva rubavano letteralmente le mie giornate e tutta la mia energia vitale.

Non avevo voglia di vedere persone né di condividere spazi e cose. Per paura disdicevo gli appuntamenti con i miei amici e colleghi all’ultimo momento e  mi fingevo molto impegnata per non doverne prendere di nuovi. Mi ero spenta, depressa, resa irriconoscibile a me stessa.

Al culmine di questa sempre più esasperata situazione, mi rendo conto che avevo urgente bisogno di chiedere aiuto così, dopo vari tentativi non andati a buon fine, intraprendo un intervento specifico per il DOC. Mi rivolgo a uno psichiatra che mi ha sapientemente affidato alle cure specialistiche di una psicologa psicoterapeuta, competente in materia e con una formazione certificata.

Il suo modo sicuro ma delicato e gentile, le ha permesso di valicare confini rigidi che a nessuno avevo mai permesso di oltrepassare e dietro i quali mi trinceravo, piena di vergogna e paura. Per la prima volta mi sono sentita ascoltata e compresa, mai derisa, fuori luogo o giudicata.

Abbiamo iniziato a ricostruire i meccanismi del mio funzionamento, sino ad arrivare alla mia vulnerabilità al disturbo. Da lì in poi rimettere insieme i pezzi è stato un passaggio naturale: più il puzzle prendeva forma, più le catene del mio DOC si spezzavano, facendomi sperimentare per la prima volta nella vita, adulta e consapevole, la libertà.

Alcuni concetti come quello di scelta, responsabilità e senso di colpa, sono stati fondamentali per sbloccarmi da quella condizione. Ogni mia difficoltà palesata, per quanto assurda mi sembrasse, è stata affrontata in terapia e resa gestibile con accettazione, impegno e tempo.

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un abitante invisibile della nostra mente, tuttavia questo scomodo inquilino dai toni perentori prende tanto più spazio quanto più siamo disposti a cederne! Scegliere di non mettere in atto le compulsioni, correre il rischio e tollerare l’ansia che arriva, più forte che mai, se non si mettono in atto le compulsioni riduce lo spazio occupato dal DOC.

La prima volta in cui ho scelto di “correre il rischio” è stato per partecipare ad una lezione di yoga in uno spazio aperto a piedi nudi, in un posto che non conoscevo e con persone estranee (il tutto fonte di grande ansia per me perché rappresentava diverse minacce). Accogliere tutta quella paura, disgusto e ansia mi è servito: è stata la prima volta in cui mi sono sentita libera! Avevo spezzato la catena! Ero stata libera di scegliere, di assecondare la mia volontà nel partecipare a qualcosa che desideravo e di cui il DOC, invece, voleva privarmi.

Ricordo di essere tornata a casa stanchissima quella sera, ma felice: avevo scelto di correre il rischio e con mia sorpresa ci ero riuscita! Solo una prima dimostrazione di quanto potere io avessi di seguire ciò che volevo per me, anziché subire quello che mi veniva imposto dal DOC. Da lì non ho più smesso di scegliere; ho fatto altri piccoli grandi passi, finalmente consapevole di avere forza nelle mie gambe.

Oggi la mia vita è pressoché “normale”; sto imparando che non sono responsabile di ogni cosa che, nel bene e nel male, mi accade. Sto imparando che la vita è fatta di coincidenze e di occasioni che creano momenti, belli e brutti, e vanno vissuti tutti. Non voglio privarmi di vivere per la paura di contaminarmi o compromettere in qualche modo la mia salute e integrità. Chiudermi in casa spendendo il mio tempo a proteggermi, pulendo e mettendo in atto altre compulsioni, non aveva nulla a che fare con la vita. Io posso avere delle responsabilità ma non posso controllare, prevedere o fare una stima esatta di tutto ciò che mi sta intorno; questo ora lo accetto. Più di tutto sto imparando giorno per giorno a concedermi la libertà di sbagliare perché “non ci avevo pensato”.

Se stai leggendo questo articolo e soffri di DOC, chiedi aiuto.

È un consiglio dato da chi ne soffriva in forma molto grave e oggi invece riesce a vivere.

Conosco a cosa si va incontro. Conosco quanto ti possa sembrare impossibile, quanta ansia ti assale al solo pensiero di non ascoltare quella voce ma credimi ne vale la pena. Meglio soffrire per conquistarsi la vita che vivere in una spirale di sofferenza.

Al di là della paura c’è un mondo di esperienze che puoi fare, di possibilità, di cose che puoi toccare. Scegliendo, si diventa più forti. Spero che queste parole, frutto di tanta strada, ti siano d’aiuto.

 

Foto di Nataliya Vaitkevich: https://www.pexels.com/it-it/foto/resto-cambiamento-possibilita-chance-6120219/

Autocritica: un viaggio nel dialogo interiore che alimenta il malessere psicologico

di Luciana Ciringione

Negli ultimi anni la ricerca clinica si sta concentrando sempre di più sullo studio dell’autocritica, non solo per la sua capacità di influenzare profondamente lo stato di salute mentale degli individui, ma anche per il suo impatto sullo sviluppo e sul trattamento di diverse condizioni psicopatologiche.

Si definisce “autocritica” una modalità di auto-valutazione e auto-analisi che, quando raggiunge livelli patologici, si manifesta attraverso un dialogo interno ostile e auto-punitivo (Gilbert et al., 2004). Nell’articolo «You’re Ugly and Bad!»: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms (Papa et al., 2024), recentemente pubblicato sulla rivista Current Psychology, gli autori e le autrici hanno evidenziato l’importanza del considerare le caratteristiche specifiche dell’autocritica per meglio comprendere e trattare le diverse psicopatologie.

In particolare, viene sottolineato l’aspetto transdiagnostico dell’autocritica, il quale influisce negativamente sulla salute mentale degli individui associandosi a varie forme di psicopatologia come, ad esempio, disturbo d’ansia sociale, disturbo ossessivo-compulsivo e disturbi alimentari. I risultati dello studio mostrano come l’autocritica assuma specifiche caratteristiche in relazione al funzionamento psicologico individuale e, in particolare, al profilo interno dei diversi disturbi (Papa et al., 2024). Ad esempio, in individui che riportano sintomatologia di ansia sociale, l’autocritica tende a manifestarsi sotto forma di confronto costante con gli altri, percepiti come superiori e/o critici: questo meccanismo genera sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che alimentano la paura del giudizio altrui (Thompson & Zuroff, 2004). Nei disturbi alimentari, invece, l’autocritica è spesso legata al perfezionismo, con standard irrealistici riguardanti il proprio corpo. Infine, nel disturbo ossessivo-compulsivo, l’autocritica si manifesta con un atteggiamento punitivo verso sé stessi per non aver rispettato standard morali estremamente elevati (Mancini et al., 2021).

Si identificano, in particolare, due forme principali di autocritica: l’inadequate-self, legato a un senso di fallimento e frustrazione in risposta ai fallimenti, e l’hated-self, caratterizzato da sentimenti di disgusto e odio verso sé stessi (Gilbert et al., 2004). L’inadequate-self è più comune nei disturbi come l’ansia sociale, dove l’individuo si sente costantemente inferiore rispetto agli altri considerati più “adeguati”. L’hated-self, d’altra parte, è più strettamente associato ai disturbi alimentari e al disturbo ossessivo-compulsivo, dove il soggetto può arrivare a sviluppare un profondo disprezzo per sé stesso all’idea di non riuscire a raggiungere gli irrealistici standard di tipo sociale o morale. Infatti, nella relazione fra queste due forme di autocritica e lo sviluppo di sintomatologia, particolare rilevanza sembra assumere l’autocritica comparativa che si focalizza sul confronto svantaggioso con gli altri (Thompson & Zuroff, 2004).

Lo studio di Papa e collaboratori (2024) sottolinea, inoltre, come l’autocritica si intrecci spesso con l’alessitimia, ovvero la difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni (Sifneos, 1973). Gli individui con elevati livelli di autocritica, infatti, tendono a evitare di entrare in contatto con i propri stati emotivi, ostacolando l’elaborazione delle emozioni negative e rafforzando i sentimenti di inadeguatezza (Gilbert et al., 2011). Inoltre, la presenza di alessitimia predispone all’utilizzo di strategie di regolazione emotiva disadattive, come l’autocritica, creando un circolo vizioso di difficoltà emotive e pensieri auto-punitivi che mantengono la sintomatologia (Pascual-Leone et al., 2016).

Alla luce di queste evidenze, risulta fondamentale distinguere le diverse forme di autocritica nei pazienti per sviluppare interventi terapeutici mirati. I trattamenti che integrano la consapevolezza delle emozioni, come la schema therapy attraverso il chairwork, stanno dimostrando di essere particolarmente efficaci nel ridurre l’autocritica e migliorare il benessere emotivo (Young et al., 2003).

Si può, quindi, considerare l’autocritica come un fenomeno eterogeneo e multidimensionale che incide significativamente sulla salute mentale degli individui. Comprenderla in modo approfondito consente non solo di delineare strategie di intervento più efficaci, ma anche di promuovere una maggiore consapevolezza emotiva nei pazienti, migliorando così i risultati degli interventi clinici.

Bibliografia

Gilbert, P., Clarke, M., Hempel, S., Miles, J. N., & Irons, C. (2004). Crit­icizing and reassuring oneself: An exploration of forms, styles and reasons in female students. British Journal of Clinical Psychol­ogy, 43(1), 31–50.

Gilbert, P., McEwan, K., Matos, M., & Rivis, A. (2011). Fears of com­passion: Development of three self-report measures. Psychology and Psychotherapy: Theory Research and Practice, 84(3), 239– 255.

Mancini, F., Luppino, O. I., & Tenore, K. (2021). Disturbo ossessivo-compulsivo. In Perdighe, C., & Gragnani, A. (Cur.) Psicoterapia cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali (pp 511–558). Raffaello Cortina Editore.

Papa, C., D’Olimpio, F., Zaccari, V., Di Consiglio, M., Mancini, F., & Couyoumdjian, A. (2024). “You’re Ugly and Bad!“: a path analysis of the interplay between self-criticism, alexithymia, and specific symptoms. Current Psychology, 1-16.

Pascual-Leone, A., Gillespie, N. M., Orr, E. S., & Harrington, S. J. (2016). Measuring subtypes of emotion regulation: From broad behavioural skills to idiosyncratic meaning‐making. Clini­cal Psychology & Psychotherapy, 23(3), 203–216.

Sifneos, P. E. (1973). The prevalence of ‘alexithymic’characteristics in psychosomatic patients. Psychotherapy and Psychosomatics, 22(2–6), 255–262.

Thompson, R., & Zuroff, D. C. (2004). The levels of self-criticism scale: Comparative self-criticism and internalized self-criticism. Personality and Individual Differences, 36(2), 419–430.

Young, J. E., Klosko, J. S., & Weishaar, M. E. (2003). Schema therapy: A practitioner’s guide. Guilford Press.

Nuove terapie: come orientarsi?

di Claudia Perdighe

Il convegno SITCC di Bari ha affrontato il tema dell’approccio professionale agli interventi di psicoterapia più recenti e in continua nascita

Come orientarsi nel proliferare di sempre “nuove psicoterapie”? Non sarebbe compito delle scuole di formazione fare da interfaccia tra gli studenti e le varie forme di terapia possibile?

Sono questi i due quesiti centrali emersi durante la tavola rotonda che ha dato il via al convegno Sitcc di Bari. La prima domanda, posta dal prof. Cesare Maffei, ha trovato risposta della seconda, rivolta al relatore da una studentessa tra il pubblico. Ebbene, sono proprio le scuole a supportare gli specializzandi nelle scelte rispetto alla formazione e sugli interventi terapeutici più efficaci con i pazienti.

Argomentazioni esaurienti a queste e ad altre domane sono state fornite durante il simposio “Disturbo Ossessivo Compulsivo: protocolli di intervento, procedure e tecniche di intervento innovative”, che ha visto Elena Prunetti  in veste di chair e  Teresa Cosentino nel ruolo di discussant. Difficile sintetizzare l’intera discussione, che tocca vari temi chiave per la psicoterapia.  Per darvi un’idea dei percorsi affrontati, ecco un elenco di quesiti con risposta che possono rappresentare i cardini delle riflessioni durante l’incontro:

    • perché si soffre? La spiegazione va cercata a livello di scopi e credenze;
    • perché i pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo soffrono? Perché hanno il terrore di vedere minacciata la loro dignità morale, vale a dire iper-investono sulla prevenzione della colpa;
    • quale è il bersaglio dell’intervento, vale a dire cosa devo cambiare perché i sintomi si riducano? Il timore di colpa;
    • quali strumenti terapeutici abbiamo a disposizione per colpire il bersaglio? Tutti quelli della terapia cognitivo comportamentale (CBT) di prima e seconda generazione, innovazioni di queste (come quella proposta da Angelo Saliani), procedure di terza generazione come la compassion therapy;
    • funziona? Sono stati elaborati dati attendibili su esiti positivi delle procedure.

In altri termini, sembra che quando ci si muove su una spiegazione chiara della psicopatologia e di uno specifico disturbo, ne derivi una ipotesi chiara sul funzionamento dello specifico paziente che definisce il target dell’intervento. Diventa così più facile orientarsi (e orientare i giovani specializzandi) tra le procedure e forme di terapia. Ad esempio, se è chiaro che il mio bersaglio è il timore di colpa, posso provare a farlo con: esposizione, provando a modificare le credenze che lo sostengono, provando ad aumentare la disponibilità al perdono di sé e all’autocompassione, provando a modificare le memorie delle esperienze su cui il timore di colpa si è creato con procedure di Schema Therapy o EMDR e cosi via. Con questa impostazione, ne deriva anche una maggiore facilità di risposta alla domanda: funziona?

Un’osservazione a margine: in questo simposio non si è posta l’attenzione esplicita sulla relazione. L’impressione è che, come suggerito sempre da Angelo Saliani nelle tavole rotonde sull’impasse terapeutico, una profonda conoscenza della psicopatologia permette di ricavare interventi che riducono i problemi di ordine relazionale oltre a facilitare una via d’uscita efficace laddove si presentano.

In sintesi, tornando al tema principale, laddove ci sia una teoria psicopatologica chiara (e in questo caso è quella di Francesco Mancini sul DOC), diventa molto più facile orientarsi, applicare e studiare l’efficacia di procedure nuove.

In questa impostazione, troviamo anche una risposta alla domanda: come ci si può formare bene su tutte queste nuove terapie?

Non è necessario “formarsi bene”, se con questo si intende formarsi a un altro modello teorico di spiegazione della psicopatologia. È vero che le terapie di terza onda sono basate su una teoria esplicativa diversa da quelle di seconda generazione, ma per usare molte procedure non è necessario “comprare tutto il pacchetto”.

Cosi come è accaduto con il training assertivo o con l’ERP, procedure di cambiamento nate all’interno della teoria comportamentale, possono essere integrate perfettamente tra le tecniche di un terapeuta CBT senza la necessità di “sposare” la teoria esplicativa sottostante. Se fatto in modo coerente non è confusivo ne tantomeno un ecclettismo pasticciato; l’importante è avere chiaro cosa esattamente si vuole cambiare nel paziente e in che modo quella procedura può essere utile a tale fine. Del resto credo che pochi tra i colleghi della Sitcc che usano l’EMDR, sposino anche la teoria esplicativa sottostante.

Un’ultima osservazione: sembra che parte della confusione nasca dal mettere molte procedure di cambiamento nella categoria “terapia” e non “tecnica” o “procedura”, con il sottinteso che è una nuova o differente teoria di spiegazione, oltre che di cura, del paziente. E, purtroppo, forse spesso la ragione di questo è più economica e di status, che di tipo scientifico.

Curare il disturbo ossessivo compulsivo

di Mauro Giacomantonio

La Terapia Cognitivo Comportamentale è efficace?

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una psicopatologia piuttosto diffusa e invalidante. Può manifestarsi in diverse forme, ad esempio con compulsioni di lavaggio o di controllo, ed esordire già in giovane età. È quindi di fondamentale importanza sviluppare e mettere alla prova protocolli di intervento sempre più incisivi e sostenibili dalle persone che soffrono di DOC.

Proprio con questo intento, Andrea Gragnani e collaboratori hanno recentemente pubblicato un articolo che esamina, attraverso uno studio condotto su pazienti che presentavano sintomi ossessivi, l’efficacia di un intervento sviluppato e perfezionato dal Prof. Francesco Mancini e il suo gruppo clinico e di ricerca negli ultimi venti anni.

Questo modello di intervento, oltre ad essere basato su una specifica concettualizzazione teorica del DOC, si pone il problema di favorire la capacità di tollerare la minaccia ossessiva e, quindi, di aderire meglio alla tecnica dell’esposizione con prevenzione della risposta (ERP). L’ ERP, infatti, è una tecnica psicoterapica molto efficace per il trattamento del DOC, che troppo frequentemente viene rifiutata o abbandonata dai pazienti perché percepita come ansiogena.

In risposta a questo problema, l’intervento esaminato nell’articolo propone una serie di tecniche cognitive che facilitano il processo di accettazione della minaccia, riducendo sia la convinzione di potere o dovere ridurre il rischio temuto, sia la tendenza a ricorrere a ragionamenti eccessivamente sbilanciati sul versante della prudenza. La capacità di accettare il rischio aiuterà poi il paziente a tollerare l’esposizione rinunciando alle condotte di protezione. Dei 40 pazienti che hanno sperimentato il protocollo proposto, una elevata percentuale (80%) ha riportato un beneficio significativo e in pochissimi hanno abbandonato il trattamento proposto.

Questi risultati confermano la necessità di articolare un trattamento complesso che favorisca prima l’accettazione “cognitiva” della minaccia e permetta poi di sperimentarla praticamente attraverso l’ERP.

Studi di efficacia come quello pubblicato da Gragnani e colleghi sono particolarmente preziosi per la pratica clinica quotidiana, perché permettono di valutare gli aspetti cruciali per la riuscita del trattamento, aprendo così la strada al suo perfezionamento.

Per approfondimenti

Gragnani, A., Zaccari, V., Femia, G., Pellegrini, V., Tenore, K., Fadda, S., Luppino, O.I., Basile, B., Cosentino, T., Perdighe, C., Romano, G., Saliani, A.M., Mancini, F. (2022). Cognitive-Behavioral Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder: The Results of a Naturalistic Outcomes Study. Journal of Clinical Medicine, ;11(10):2762.

Articolo integrale: https://doi.org/10.3390/jcm11102762

Senso di colpa, emozione a due facce

di Estelle Leombruni

Colpa altruistica e colpa deontologica: una tesi dualistica

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, offrendo al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la “colpa altruistica”, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la “colpa deontologica”, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana, tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni: per esempio, la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come del cosiddetto omission bias ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, in particolare, nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui la colpa deontologica svolge un ruolo cruciale, e di alcune forme di reazione depressiva, per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati.

L’approfondimento proposto dai due autori consente, quindi, non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma anche di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

ERP o non ERP, questo è il dilemma

di Benedetto Astiaso Garcia

L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani

L’esposizione con prevenzione della risposta (ERP) consiste nell’esporre il paziente al pensiero, all’immagine o all’evento temuto per un tempo superiore a quello che normalmente riesce a tollerare (esposizione) e nell’aumentare la resistenza all’impulso di mettere in atto i comportamenti cui abitualmente ricorre per contenere, prevenire o neutralizzare la minaccia temuta (prevenzione della risposta).

Benché sia risaputo che l’ERP sia un intervento evidence-supported indicato dalle linee guida internazionali come trattamento d’elezione per il Disturbo Ossessivo Compulsivo, per quali ragioni alcune ricerche ne evidenziano uno scarso impiego nella pratica clinica? 

Uno studio pilota sviluppato nel 2022 da Cosentino, Raimo, et al. si prefigge lo scopo di rispondere a tale quesito, indagando l’utilizzo dell’ERP tra gli psicologi cognitivisti italiani e valutandone la frequenza, le credenze associate alla messa in atto di tale pratica e il ruolo giocato dalle caratteristiche personali del terapeuta, quali la sensibilità al senso di colpa: come proposto da Sars e Van Minnen nel 2015 per l’anxiety sensitivity, viene ipotizzato dagli autori che anche la disposizione a prevenire ed evitare di sentirsi in colpa potrebbe indurre un mancato impiego della tecnica. 

Hanno preso parte a tale indagine 105 partecipanti, in prevalenza donne (74%) e di età compresa tra i 30 e i 40 anni (60%). I partecipanti, per la maggior parte esercitanti la libera professione (80%), per il 43% svolgono attività di psicoterapia da meno di cinque anni. 

Dai risultati, in linea con la letteratura internazionale, emerge come le credenze sull’efficacia dell’ERP e un atteggiamento favorevole al suo impiego correlino positivamente con la frequenza dell’utilizzo. Certamente d’interesse la correlazione negativa tra la sensibilità alla colpa e il ricorso all’ERP nel trattamento del DOC: come ipotizzano gli autori, probabilmente, il terapeuta, proprio come il paziente, al fine di evitare i propri stati di colpa tende a ricorrere a evitamenti e comportamenti protettivi, ad esempio per non sperimentare la responsabilità di avere un ruolo attivo nell’infliggere sofferenza al paziente e le eventuali conseguenze. 

Per quanto complessivamente il 65% dei terapeuti utilizzava l’ERP nel trattamento del DOC e circa il 40% nel trattamento degli altri disturbi d’ansia, i terapeuti con attività clinica inferiore ai cinque anni utilizzano in maniera nettamente minore tale tecnica: l’autoefficacia percepita dal terapeuta nella gestione delle situazioni complesse correla positivamente nell’utilizzo dell’esposizione. Come poter dunque favorire una maggiore disponibilità negli psicoterapeuti ad affidarsi a tale tecnica?

Rispondere a tale domanda solleva una questione quanto mai urgente e attuale: l’importanza di un adeguato e strutturato addestramento. Essere capaci di gestire situazioni complesse passa necessariamente attraverso la formazione in psicoterapia, condizione determinante per la crescita personale e lo sviluppo di competenze, atte a modificare credenze negative circa tale pratica e offrire uno specifico padroneggiamento della tecnica. È necessaria, dunque, una formazione valida che, accanto a una profonda conoscenza teorica, offra utili strumenti pratici per porre il professionista nella miglior condizione di esercitare l’esposizione con prevenzione della risposta, garantendo di conseguenza ai pazienti un trattamento di grandissima efficacia comprovata.

Gli psicologi per primi, molto spesso, sono spaventati dall’utilizzo di strumenti e tecniche che in realtà conoscono poco, timorosi di scottarsi attraverso la sofferenza del paziente. Una buona formazione in psicoterapia diviene l’unica modalità per danzare sui carboni ardenti. Precludersi all’utilizzo di una tecnica di acclarata efficacia, molto spesso a causa di una mancata formazione, significa compromettere la buona riuscita della terapia.  Come affermava George Orwell, “il primo compito delle persone intelligenti è la riaffermazione dell’ovvio”. Oggi più che mai, anche grazie alla ricerca Utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, siamo chiamati a difendere l’ovvio: una buona formazione degli specialisti. Cui prodest? Certamente ai pazienti. 

Per approfondimenti: 

Raimo, S., Battimiello, V., Biondi, D., Ciccarelli, M., Colardo, T., Riemma, D., Schiano Di Zenise, L., Gragnani, A., Scuotto, A., Cosentino, T., (2022). L’utilizzo dell’esposizione con prevenzione della risposta in un campione di psicoterapeuti italiani, Psicoterapia Cognitiva Comportamentale, 28 (3), 245- 260.

Cosentino, T., De Sanctis, B., Luppino, O., (2021). Le procedure comportamentali: esposizione con prevenzione della risposta. In: Perdighe, C., Gragnani, A., Psicoterapia Cognitiva, Raffaello Cortina Editore.

 

Foto di DS stories:
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Non posso, non devo, non voglio…

 

Il rapporto tra scopi e anti-scopi nella genesi della sofferenza psicologica

Nel corso della terapia il Sig. S. si esprime sempre con frasi che specificano bene come dovrebbe e non dovrebbe essere: “Non voglio essere dipendente da nessuno, non voglio essere debole, non voglio essere un fallito, non voglio somigliare ai miei genitori, voglio essere amato e sostenuto”. Per evitare il realizzarsi di questi scenari temuti S. riferisce di impegnarsi molto sul lavoro, di sacrificarsi e controllare i suoi pensieri e comportamenti. Tuttavia tali strategie sembrano causargli disagio, ansia generalizzata e preoccupazioni ipocondriache sino a farlo sentire proprio come suo padre che descrive come spento, solo e fallito.
Proprio come il nostro Sig. S. ogni altro individuo rappresenta se stesso e il mondo che lo circonda secondo strutture di significato definite “credenze” e orienta naturalmente i propri processi cognitivi e le proprie condotte sulla base di stati desiderati, definiti invece “scopi”, la cui soddisfazione potrà avvenire attraverso una modificazione della realtà, al fine di renderla il più possibile aderente a ciò che ci si è idealmente rappresentati oppure con la prevenzione di ciò che si teme maggiormente. In altre parole, ciò che perseguiamo, per cui ci battiamo, e che governa e dirige l’attenzione, la memoria e più in generale il pensiero, oltre che i comportamenti, ricopre un ruolo fondamentale nel funzionamento psicologico di ciascuno. Negli anni, la teorizzazione di tale concetto (scopo) è stata centrale e dibattuta dalle diverse discipline e correnti psicologiche.
Alcuni sottolineano la presenza di scopi evolutivi e innati, altri parlano di scopi esistenziali; il cognitivismo approfondisce il rapporto fra scopi-credenze e sofferenza psicologica, evidenziando la differenza fra scopi strumentali e scopi terminali.
Il cognitivismo, in ogni caso, definisce il ruolo degli scopi come un elemento fondamentale dell’organizzazione cognitiva, emotiva e comportamentale dell’individuo. Infatti, proprio in relazione a gli scopi, il cognitivismo spiega come la sofferenza psicologica sia supportata dalla presenza di convinzioni automatiche negative, rigide e assolutistiche, su se stessi, su gli altri e sul mondo, che possono minacciare o compromettere tali scopi in modo più o meno definitivo.
L’esperienza quotidiana di ciascuno ci suggerisce, e la letteratura scientifica lo conferma, che uno scopo compromesso o minacciato sarà fonte di sofferenza psichica la cui intensità solitamente è direttamente proporzionale sia a quanto lo scopo è nucleare nel funzionamento della persona, sia a quanto questo scopo venga investito, o ancor più iper-investito, in termini di valore conferito e dispendio di energie impiegate per perseguirlo. Francesco Mancini e Claudia Perdighe in un interessante articolo forniscono una chiara spiegazione di cosa si intenda per compromissione e minaccia di uno scopo. Nel dettaglio gli autori intendono per compromissione “una rappresentazione della realtà diversa dallo stato desiderato, ove lo stato desiderato è la rappresentazione del mondo verso cui tendere” e per minaccia “una rappresentazione di un evento al quale si attribuisce o del quale si riconosce il potere di compromettere uno o più scopi personali”.
Talvolta, però, si formulano desideri, aspirazioni (e con questi altresì credenze e regole) anche al negativo: “Non posso/voglio essere debole, non voglio essere dipendente e bisognoso, non voglio essere come mia madre, non devo arrabbiarmi. Un simile stato mentale, in cui ci diciamo quello che mai vorremmo essere (anti-scopo), sembra giocare un ruolo cruciale nella genesi e nell’accrescimento del dolore emotivo”.
Da questa prospettiva è evidente quale rilevante ruolo abbiano le credenze che si intrattengono in merito a scopi e anti-scopi. Dunque, cosa avviene quando ci prefiguriamo nella mente gli scopi al contrario, ovvero formulando le aspirazioni al negativo e anticipando scenari temuti?
Cosa significa per l’individuo “non posso essere debole, non devo essere bisognoso o non posso essere arrabbiato”? Quali emozioni vengono esperite e come sono gestite? Dunque, inseguire o fuggire?
Talvolta potrebbe essere proprio il focus sullo scopo VS anti-scopo a determinare differenze individuali che a loro volta generano uno stato mentale orientato al perseguimento o alla fuga.
 Roberto Lorenzini spiega, infatti, come al mondo del perseguimento si affianchi quello della fuga motivata dall’anticipazione dello scenario temuto e dalla prevenzione del rischio che esso si verifichi. In questo caso non saremmo, dunque, guidati dalla spinta verso il raggiungimento del risultato bensì dalla prevenzione o dall’evitamento del fallimento. Seguendo questa concettualizzazione, si potrebbero pertanto delineare due configurazioni dissimili rispetto all’attenzione rivolta verso gli scopi o gli anti-scopi e le loro diverse declinazioni nei diversi profili di sofferenza e psicopatologia.
Per fare un esempio, quanto è saliente nel Sig. S. la relazione tra lo scopo dell’essere amabile/accudito/riconosciuto e lo scopo di essere debole vs forte?
Nell’ottica di questa concettualizzazione, infatti, ci si imbatte spesso in progetti di vita, il più delle volte inconsapevoli, in cui non ci si impegna tanto a perseguire ciò che effettivamente renderebbe più serena l’esistenza, quindi verso scopi raggiungibili, bensì si impiegano consistenti dosi di energie per evitare i loro antagonisti – gli antiscopi, sacrificando cosi preziose opportunità pur di aggirare scenari catastrofici altamente temuti.
Si innesca, dunque, uno stato mentale orientato alla prevenzione e finalizzato a sorvegliare l’investimento su scopi ed anti-scopi in modo trasversale: ad esempio nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, a prescindere dal posizionamento di scopi e antiscopi (essere moralmente integro/degno, essere non colpevole/non sporco) il funzionamento del disturbo sembra risiedere in un atteggiamento iper-prudenziale secondo il quale non è contemplata, in nessuna misura, la possibilità di esporsi anche ad un piccola quota di rischio.
In virtù di quanto esposto, identificare i propri scopi e anti-scopi permette da un lato di fare luce sulla loro origine e sul loro significato, dall’altro di individuare le credenze che vi si legano, le emozioni esperite e i comportamenti più o meno problematici messi in atto per promuoverli o tutelarli. Nel caso del Sig. S. potrebbe essere proprio il conflitto fra le due posizioni (atteggiamento promozionale/atteggiamento di prevenzione) a generare sofferenza. Ad esempio il suo iniziale approccio di tipo promozionale “essere forte, affermato, autonomo, allegro, soddisfatto” cede difronte ad un evento di vita spiacevole (condizione medica transitoria) portandolo a sviluppare un atteggiamento di tipo preventivo (di inibizione ed evitamento) in risposta alla minaccia di scopi per lui nucleari di appartenenza, autonomia ed amabilità, compromessi dalla condizione di malattia (debole/malato=non amabile e solo).
Pertanto, nel corso del trattamento, è stato utile riflettere sui costi dei suoi comportamenti di controllo e sul senso del suo iper investimento portandolo così, nel tempo, a ristrutturare le credenze “non voglio essere debole” sino ad accettare il rischio di poter esperire sofferenza e quindi debolezza e vulnerabilità senza per questo rinunciare alla piacevolezza dell’esistenza.
Concludendo, tracciare una mappatura di scopi e anti–scopi si mostra funzionale a svelare velocemente i temi centrali della persona, il loro grado di soddisfazione/compromissione e le determinanti cognitive e comportamentali correlate; il tutto con l’intento di conoscere la provenienza e il funzionamento della sofferenza psicologica al fine ultimo di sviluppare un percorso di psicoterapia capace di promuovere un processo di ristrutturazione e cambiamento.

Per approfondimenti

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Castelfranchi C., Miceli M. (2002). Architettura della mente: scopi, conoscenze e la loro dinamica. In Castelfranchi C., Mancini F., Miceli M. (eds) Fondamenti di cognitivismo clinico, pp.45-62. Torino, Bollati Boringhieri.

Paglieri F., Castelfranchi C. (2008). Decidere il futuro: scelta intertemporale e teoria degli scopi. Giornale italiano di psicologia / a. XXXV, n. 4, dicembre 2008, 739-771.

Capo R., Mancini F. (2008). Scopi terminali, temi di vita e psicopatologia. In Perdighe C, Mancini F. (eds) Elementi di psicoterapia cognitiva, pp.39-67. Roma, Giovanni Fioriti Editore.

Mancini F., Perdighe C. (2012); Perché si soffre?
il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotive. Cognitivismo Clinico (2012) 9, 2, 95-115

Lorenzini R. (2016). Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali. In Lorenzini R. Ciottoli di psicopatologia generale (rubrica), State of Mind, id 117470, gennaio 2016.

Mancini F., Romano G. (2014). Bambini che mangiano poco, bambini che mangiano troppo: il trattamento CBT per i disturbi alimentari in età evolutiva. Relazione presentata al convegno “Cibo, corpo e psiche. I disturbi dell’alimentazione”. Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, Roma.

Lorenzini R. (2013). Tribolazioni 05- Gli Antigoal. In Lorenzini R. Tribolazioni (monografia a cura di), State of Mind, id 29681, aprile 2013

Mancini F., Gangemi A. e Giacomantonio M. (2021). Il cognitivismo clinico e la psicopatologia. In Perdighe C. e Gragnani A. (eds) Psicoterapia Cognitiva. Comprendere e curare i disturbi mentali. Raffaello Cortina Editore.

Mancini, F. (2016) (ed). La mente ossessiva. Curare il disturbo ossessivo-compulsivo. Raffaello Cortina Editore.

Johnson-Laird P.N., Mancini F., Gangemi A. (2006). A hyper-emotion theory of psychological illnesse. In: Psychological Review 113, No. 4, 822–841, 113 (4), pp. 822–841.

Una configurazione prototipica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo all’MMPI-2

di Silvia Assisi

Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disordine mentale invalidante, caratterizzato da pensieri ricorrenti, persistenti, egodistonici ed intrusivi e da comportamenti o atti mentali ripetitivi. Questi comportamenti hanno lo scopo di prevenire o ridurre l’ansia e lo stress sperimentati o di neutralizzare le ossessioni correlate.

Esistono diverse interviste strutturate finalizzate alla valutazione della sintomatologia ossessiva, tra le quali la Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS) e il Padua Inventory (PI). Tuttavia, al fine di discriminare in maniera più esaustiva le diverse manifestazioni cliniche del disturbo, sarebbe importante adottare una procedura integrata di valutazione, che includa differenti metodi e strumenti di indagine, come ad esempio l’utilizzo del Minnesota Multiphasic Personality Inventory-2 (MMPI-2). Il suo utilizzo, infatti, potrebbe garantire l’individuazione di caratteristiche personologiche e, di conseguenza, portare a descrivere un funzionamento più profondo del disturbo.

La letteratura scientifica, fino ad oggi, ha rilevato come un punteggio elevato alla scala Pt dell’MMPI-2 sia strettamente correlato alla presenza di pensieri ossessivi, a processi di ruminazione mentale e a rituali e comportamenti di controllo, elementi centrali del disturbo. In questi soggetti, inoltre, è stato riscontrato un significativo incremento anche delle scale Sc e Pd.

Tuttavia, la letteratura non ha ancora identificato un profilo prototipico del DOC al test MMPI-2. Pertanto, lo studio condotto da Femia e colleghi (2020) si è proposto l’obiettivo di identificare una configurazione prototipica del DOC tramite l’utilizzo dell’MMPI-2, al fine di discriminare – in fase di assessment – le caratteristiche chiave del funzionamento psicologico del disturbo e di distinguere la sintomatologia ossessiva da quella tipica di altri quadri sintomatologici. Lo studio ha sottolineato come alcune risposte fornite al test, infatti, possono essere dettate dal funzionamento ossessivo, portando ad un’elevazione dei punteggi su scale generalmente prototipiche di altri disturbi psicopatologici.

Gli autori dello studio, tra le ipotesi di ricerca, avevano prefigurato:

  • un aumento del punteggio della scala Pt – a conferma dei dati già presenti in letteratura – che indica la presenza di un comportamento iper-prudenziale e ossessivo;
  • un punteggio più alto della scala Pa rispetto alla scala Hy;
  • una correlazione tra la scala Pt e la scala Mf;
  • un punteggio più alto della scala Sc rispetto alla scala Hs o un’equivalenza di punteggi tra le scale;
  • la presenza di una configurazione specifica HPC in pazienti ossessivi, che li distingue da pazienti con altri disordini.

Il campione dello studio condotto era costituito da 395 partecipanti, suddivisi in tre categorie diagnostiche (1. Disturbo Ossessivo-Compulsivo; 2. Disturbo di Panico e Agorafobia; 3. Disturbi dell’Umore), ai quali sono stati somministrati un questionario demografico, l’MMPI-2 e la Y-BOCS.

Le analisi statistiche condotte da Femia e colleghi hanno evidenziato come i pazienti con Disturbo Ossessivo- Compulsivo abbiano riportato elevati punteggi a tre scale cliniche specifiche dell’MMPI-2, vale a dire Pt, D e Sc, e una correlazione positiva tra le scale Pt, Sc e Pa, dando vita ad una configurazione che permette di distinguere i pazienti con DOC da altri pazienti con diagnosi di Disturbi dell’Umore, Disturbi di Panico e Agorafobia.

Nello specifico, gli autori hanno supposto che questi risultati fossero l’evidenza empirica della comune esperienza clinica sperimentata con questi pazienti, connotata spesso da:

  • ragionamenti iper-prudenziali e altre compulsioni (Pt);
  • bias di ragionamento cognitivo, con il vissuto depressivo che ne consegue (D);
  • tendenza a sperimentare timori di impazzimento e ruminazioni, a discapito delle relazioni interpersonali (Sc).

Gli autori dello studio hanno riscontrato anche una correlazione positiva tra il punteggio alla scala Pt e il punteggio ottenuto dai pazienti alla Y-BOCS, suggerendo l’ipotesi che la scala Pt possa essere un buon predittore della gravità della sintomatologia ossessiva.

È stata evidenziata, inoltre, una correlazione tra i punteggi bassi delle scale Pt e MF, giustificata, secondo gli autori, dalla presenza – nei pazienti ossessivi – dei pensieri proibiti, già descritti da Mancini come pensieri che coinvolgono la colpa deontologica, intollerabile per i pazienti con DOC.

L’elemento innovativo e di interesse clinico che hanno messo in evidenza gli autori attraverso questo studio è stato quello di riscontrare una particolare configurazione HPC del disturbo (Pt, D, Sc), che potrebbe chiarire il confine tra il DOC e il funzionamento psicotico e nevrotico. Comunemente, le scale Pt e Sc, infatti, sono associate all’area di funzionamento psicotico. Tuttavia, nel caso del DOC, punteggi elevati alle scale potrebbero assumere un significato diverso da quello dell’alterazione del pensiero: potrebbero essere associati alla paura dei pazienti di diventare pazzi a causa dei loro pensieri ossessivi, giustificando quindi l’innalzamento della scala Sc. L’elevazione di questa scala non è stata riscontrata nei gruppi di controllo: gli autori hanno ipotizzato che questo innalzamento, in un quadro psicopatologico ossessivo, potrebbe essere considerato come una conseguenza determinata dalle ossessioni che condurrebbero all’evitamento e quindi a deficit interpersonali, piuttosto che essere correlata alla presenza di sintomi psicotici.

In conclusione, gli autori dello studio hanno avanzato l’ipotesi secondo la quale il ragionamento iper-prudenziale e altri bias di ragionamento caratteristici dei pazienti ossessivi possano rendere ragione di elevati punteggi a queste scale, portando i pazienti a rispondere in maniera affermativa agli items che indagano la coerenza e la qualità del pensiero.

La configurazione specifica emersa potrebbe essere una guida valida ed efficace in fase di valutazione iniziale del disturbo al fine di identificare e discriminare gli indicatori caratteristici del DOC, distinguendolo da altri disturbi psicopatologici.

Bibliografia:

Butcher, J. N. (2016). Preparing for Court Testimony Based on the MMPI-2 Guide 6th Edition. Minneapolis: Department of Psychology University of Minnesota. Retreived July 12, 2020 from: http://mmpi.umn.edu/documents/Preparing%20for%20Court%20Testimony%20Based%20on%20the%20MMPI-2.pdf

Femia, G., Gragnani, A., Cosentino, T., Giacomantonio, M., Diano, F., Bernaudo, A., Pellegrini, V., Mancini, F. (2020). A prototypical MMPI-2 configuration of Obsessive-Compulsive Disorder. Mediterranean Journal of Clinical Psychology, 8(3). https://doi.org/10.6092/2282-1619/mjcp-2554

Goodman, W. K., Price, L. H., Rasmussen, S. A., Razure, C., Fleischmann, R. L., Hill, C. L., … & Charney, D. S. (1989). The Yale-brown obsessive compulsive scale: I. Development, use, and reliability. Archives of General Psychiatry 46(11), 1006-1011. https://doi.org/10.1001/archpsyc.1989.01810110048007

Mancini, F. (A Cura di, 2016). La Mente Ossessiva. Curare il Disturbo Ossessivo Compulsivo. Milano: Raffaello Cortina

Sanavio, E. (1988). Obsessions and compulsions: the Padua Inventory. Behavior research and therapy, 26(2), 169-177. https://doi.org/10.1016/0005-7967(88)90116-7.

Giornata salute mentale: webinar sul DOC

COME LA PANDEMIA HA PEGGIORATO
I SINTOMI OSSESSIVO-COMPULSIVI

Gli esperti spiegano effetti e cure in un webinar aperto a tutti il 10 ottobre 2021 alle ore 17.00

La pandemia da Covid-19 ci ha resi tutti un po’ ossessivi. “Mi sono disinfettato a sufficienza?”, “Indossavo correttamente la mascherina?”, “Anche le scarpe potrebbero essere contaminate?”, “E la spesa?”, “La posta?”: queste domande hanno spesso attraversato la nostra mente spingendoci a prestare attenzione ai nostri gesti, a prendere tutte le precauzioni per non contrarre il virus e non trasmetterlo ai nostri cari. In questo contesto pandemico, abbiamo avuto un assaggio di cosa voglia dire temere di esser contagiato e di quanto impegno e stress comporti la prudenza.

Cosa distingue il normale dubbio da quello patologico?
Quali sono i meccanismi che imprigionano la persona nelle maglie del disturbo Ossessivo Compulsivo? Come uscirne?

Se ne parlerà domenica 10 ottobre 2021 nel corso della terza edizione della conferenza Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC): comprendere come funziona per scegliere come curarsi, organizzata dalla Scuola di Psicoterapia Cognitiva di Roma in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, che da oltre venti anni si propone di sensibilizzare le istituzioni e la comunità e di stimolare gli sforzi necessari affinché tutti possano esercitare il pieno diritto al benessere psicologico. L’incontro, patrocinato dall’Associazione Italiana Disturbo Ossessivo-Compulsivo (AIDOC) e dalla SITCC Lazio (Società Italiana Terapia Comportamentale Cognitiva), si svolgerà alle ore 17.00 in modalità webinar, è gratuito e aperto a tutti.

“Ho investito qualche pedone mentre guidavo la mia automobile?”
“Ho lavato a sufficienza le mani?”
“Ho chiuso il gas? E la portiera della macchina?”
“Ho disposto correttamente gli oggetti sulla scrivania?”

Sono questi normali dubbi che insorgono quotidianamente nella nostra mente senza crearci particolare disagio. Quando persistono e condizionano pesantemente la vita della persona, arrivano a configurare un vero e proprio disturbo, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC): secondo stime recenti, in Italia sono circa 800 mila le persone che ne soffrono. Il DOC può essere così debilitante e invasivo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) lo ha classificato nella Top ten delle malattie più invalidanti, in termini di perdita di reddito e riduzione della qualità della vita. Le persone affette da questo disturbo si ritrovano a svolgere ogni giorno controlli estenuanti per accertarsi di aver chiuso la porta di casa, l’auto, il gas, a effettuare lavaggi massacranti del proprio corpo e dell’ambiente per prevenire malattie, a ripetere scaramanticamente gli stessi gesti per scongiurare eventuali disgrazie, o, ancora, a ripercorrere alla guida della macchina lo stesso tragitto diverse volte per sincerarsi di non aver causato incidenti.

Diversi studi si sono occupati di verificare gli effetti che la diffusione del Covid 19 e le conseguenti misure di prevenzione e contenimento, abbiano avuto sulla salute fisica e mentale della popolazione mondiale. Gli autori hanno registrato un generale peggioramento di diversi quadri clinici e un aumento delle difficoltà psicologiche sia negli adulti (Hao et al., 2020) sia nei bambini e negli adolescenti (Clemens et al., 2020). Alla luce di questi dati, è interessante chiedersi quali siano state le conseguenze che l’emergenza Covid-19 abbia avuto sul disturbo ossessivo compulsivo; d’altra parte, quello che stiamo vivendo equivale per molti di noi ad un assaggio dell’universo in cui una persona con disturbo ossessivo compulsivo si trova a vivere ogni giorno: in particolare, siamo colpiti da frequenti pensieri intrusivi circa la possibilità di esserci contaminati o sulla responsabilità che abbiamo nel proteggere adeguatamente noi stessi e i nostri cari.

Recenti ricerche hanno analizzato i dati raccolti durante il primo lockdown (gennaio-maggio 2020) su persone con disturbo ossessivo compulsivo in diversi Paesi compresa l’Italia (Benatti et al., 2020) ed è stato dimostrato un peggioramento dei sintomi ossessivo-compulsivi confermato anche sul campione italiano. In particolare, è stato dimostrato un aumento significativo delle ossessioni di contaminazione e delle compulsioni di lavaggio sia negli adulti (Prestia et al., 2020) sia nei bambini e adolescenti anche in presenza di un trattamento in corso (Tanir et al., 2020). Una possibile spiegazione di questi dati potrebbe essere correlata al timore costante circa il virus e alle incessanti raccomandazioni nel mantenere elevati livelli di igiene (Chaurasiya et al., 2020).

Infine, è stato registrato un aumento dei comportamenti di evitamento e una maggiore richiesta di consulenza psichiatrica durante il lockdown rispetto all’anno precedente (Capuzzi et al., 2020).

Nel webinar in programma domenica 10 ottobre, a condividere e divulgare le conoscenze scientifiche a oggi disponibili su questo disturbo saranno esperti di fama nazionale e internazionale, moderati dalla giornalista Paola Mentuccia: Francesco Mancini, psichiatra e psicoterapeuta, direttore delle Scuole di Specializzazione In Psicoterapia Cognitiva (SPC) e gli psicologi e psicoterapeuti Teresa Cosentino, Francesca Mancini, Monica Mercuriu, Giuseppe Romano, Angelo Maria Saliani, Paola Spera e Katia Tenore.

Nel corso dell’evento, saranno affrontati i diversi aspetti del Disturbo Ossessivo-Compulsivo, per chiarirne le caratteristiche nei soggetti in età evolutiva e negli adulti e illustrare i trattamenti di provata efficacia. In particolare, i relatori si concentreranno sui seguenti temi:

  • Cos’è il DOC, come si manifesta e quanti sottotipi esistono
  • Quanto è diffuso e che impatto ha sulla società e sulla vita di chi ne soffre
  • Il DOC in epoca Covid-19
  • Perché la persona non riesce a liberarsi da quei pensieri, pur giudicandoli assurdi o esagerati
  • Come mai ripete più e più volte lo stesso gesto/azione e ha difficoltà a smettere
  • Quali sono i segnali del DOC nei bambini e come distinguerli dai tic
  • Quali sono le cause del DOC e i fattori che predispongono la persona al suo sviluppo
  • Quali sono le cure che si sono dimostrate efficaci per gli adulti e per i bambini
  • Cosa possono fare i familiari per essere d’aiuto ai propri cari.

Ampio spazio sarà dedicato, infine, alla discussione e alle domande che arriveranno dal pubblico.

Per informazioni: 3332541724 –  conferenzadoc@apc.it