Arrossire? Esprime sincerità

di Maurizio Brasini

Il rossore sul viso è un po’ come ammettere un torto e induce la benevolenza del prossimo

Quello dell’arrossire è, tra i fenomeni emotivi, uno dei più affascinanti e misteriosi. Charles Darwin, il primo a proporre la teoria che le emozioni umane siano utili per la sopravvivenza della specie e che siano, nella loro forma essenziale, innate, ovvero ereditate e invarianti, sosteneva che l’arrossire fosse “la più peculiare e anche la più umana di tutte le espressioni emotive”. Oggigiorno sappiamo che Darwin aveva ragione sulle emozioni: sono una specie di linguaggio universale e automatico, di fondamentale importanza per una specie iper-sociale come è la nostra. Pertanto, sebbene sia soggettivamente spiacevole sentirsi avvampare in presenza di terze persone, e anche se immaginare che tutti possano accorgersi del nostro imbarazzo generalmente peggiora le cose, tuttavia è ragionevole supporre che anche l’arrossire serva a comunicare qualcosa agli altri, e che questo messaggio sia utile e vantaggioso.

Perché, dunque, arrossiamo? Dal punto di vista fisiologico, il rossore dipende dalla vasodilatazione dei capillari presenti nel volto, nel collo e nelle orecchie; la vasodilatazione a sua volta è regolata attraverso meccanismi involontari del cosiddetto sistema neurovegetativo. Bisogna considerare che il volto è il veicolo principale attraverso il quale esprimiamo le nostre emozioni, per cui in generale il sangue affluisce al viso quando siamo maggiormente disposti alle interazioni sociali, un po’ come se volessimo disporci a usare i muscoli della faccia e al tempo stesso attirare l’attenzione degli altri su ciò che stiamo per comunicare. Al contrario, il sangue defluisce dal volto e si riversa nei muscoli quando ci prepariamo, ad esempio, a combattere contro un nemico o a fuggire da un pericolo.

Se ci fate caso, si arrossisce in situazioni diverse; in genere quando pensiamo all’arrossire abbiamo in mente le figuracce, cioè la vergogna; ma anche la timidezza e il pudore possono farci arrossire. Arrossisce, inoltre, chi si arrabbia, specialmente di una rabbia emotivamente “calda”, mentre la violenza del serial-killer è gelida anche nei tratti del volto che tende a impallidire. Si diventa rossi anche nel pianto, che segnala una condizione di disagio e il bisogno di ricevere cure e conforto. Si può dire che, in generale, arrossisce chi si “accalora” emotivamente, ovvero è molto coinvolto in uno scambio emotivo; se ci fate caso, anche nella passione dell’eros si colorano le gote.

Una prima ipotesi allora è che un po’ di rossore accompagni il cosiddetto “social engagement”, cioè il coinvolgimento emotivo nella relazione. Ma a cosa serve in particolare quella condizione di rossore esasperato che, quasi per dispetto, fa la sua comparsa proprio quando vorremmo farci piccoli piccoli oppure sprofondare e scomparire dalla vista dell’altro? Se ci soffermiamo sull’arrossire che accompagna la vergogna, notiamo alcune peculiarità. La prima, dal punto di vita fisiologico, è che la vasodilatazione periferica dei capillari del volto si accompagna a una attivazione concomitante del sistema simpatico, quello che, per intendersi, regola i comportamenti di attacco/fuga e che dovrebbe comportare il pallore del volto; in pratica, siamo contemporaneamente in una situazione di stress che ci predispone all’autodifesa e in una condizione esasperata di ricerca di contatto e coinvolgimento nella relazione. Qualcosa di simile si può osservare se consideriamo gli altri segnali emotivi del corpo che accompagnano il rossore nella vergogna: in genere la testa tende a chinarsi e lo sguardo a rivolgersi in basso; sembra proprio che qualcosa segnali il nostro desiderio di “scomparire” dalla relazione, mentre qualcos’altro (il colore rosso) ci rende più evidenti e visibili agli occhi dell’altro. Che significa tutto questo?

Secondo la prospettiva evoluzionista, la vergogna è un’emozione cosiddetta di “rango”, cioè un modo di segnalare la propria sottomissione e “arrendersi” all’altro; nel mondo degli animali sociali, poter dare un segnale di resa è di fondamentale importanza perché interrompe ogni contesa e consente allo sconfitto di essere nuovamente ammesso nel branco; teniamo anche presente che il branco tende ad allontanare chi ne viola le regole. Secondo questa ipotesi, il rossore della vergogna potrebbe servire a trasmettere pressappoco questo messaggio: “In questo momento vorrei scomparire perché sono una persona indegna, ma al tempo stesso spero che vorrete accogliermi ancora tra voi e aspetto un vostro segnale per avvicinarmi”. Arrossire è un po’ come ammettere un proprio torto, e mostrare apertamente ai propri simili il sincero disagio che ne deriva. Una recente ricerca sostiene proprio questa ipotesi; la gente è più benevola nei confronti di qualcuno che ha fatto qualcosa di vergognoso (come non rispettare una fila o rovesciare del caffè addosso a qualcuno) se questa persona arrossisce. Un po’ come se arrossire testimoniasse la buona fede del trasgressore e lo aiutasse a “salvare la faccia”. In pratica, se anche fosse possibile controllare il rossore della vergogna… Sarebbe controproducente!

Ci sono tuttavia alcune persone che tendono ad arrossire molto facilmente e vivono il loro rossore come un problema invalidante, che può anche portarli a evitare di esporsi agli altri; questo problema è chiamato “eritrofobia”: la paura di diventare rosso in volto. In questi casi il problema non è la vergogna in sé, che è un’emozione naturale, ma la cosiddetta “meta-vergogna”, ovvero la vergogna che si prova nel vergognarsi. In pratica, alcune persone valutano in modo particolarmente negativo il fatto di provare vergogna, immaginando conseguenza catastrofiche, in genere legate a ciò che gli altri penseranno nel vederli arrossire, o a ciò che di negativo il loro rossore dimostra sul loro conto. Da qui la paura di trovarsi in situazioni in cui si potrebbe arrossire, che paradossalmente aumenta la probabilità di arrossire e rende più intenso e duraturo lo stato di vergogna che mantiene il rossore. I meccanismi di questo circolo vizioso sono ben noti e vi sono numerose prove di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nel contrastare questo problema. La terapia consiste essenzialmente nel riconoscere i meccanismi che alimentano la vergogna di vergognarsi e nell’imparare ad accettare il proprio rossore come qualcosa di non-catastrofico.

Che schifo! Sarò stato contaminato?

di Barbara Basile

Cosa è il disgusto? Che funzione ha nella nostra vita e cosa accade se siamo troppo sensibili ad esso?

 Il disgusto ci salva dall’ingestione di cibi andati a male o dal contatto con sostanze potenzialmente pericolose. Grazie alla sua intensa sgradevolezza, associata a una specifica espressione del viso, a sensazioni fisiologiche (come nausea e vomito) e a una risposta di repulsione e allontanamento, l’uomo è riuscito a evitare alimenti putrefatti, a sottrarsi al contatto con animali sporchi e potenziali vettori di malattia, a evitare il possibile contagio tramite ferite o manifestazioni corporee potenzialmente dannose. Tutte queste caratteristiche e manifestazioni sono descritte in modo molto evocativo nel libro “Il Profumo” di Patrick Süskind.

Un’altra accezione più evoluta e socialmente determinata è quella del disgusto socio-morale, inteso come regolatore delle relazioni tra le persone. Capita spesso di sentir dire: “Che persona disgustosa!”, “Quell’individuo mi fa schifo! Non ci voglio avere a che fare”, rispetto a soggetti che agiscono in modo immorale, per esempio pedofili, stupratori, dittatori politici o personaggi che in qualche modo ledono, usano o approfittano degli altri. In questo senso, il disgusto incoraggia risposte di rifiuto e repulsione e anche di punizione (come accade, ad esempio, per i condannati criminali che vengono sottoposti a una pena da scontare in carcere).

Il disgusto si apprende fin dai primi mesi di vita, quando i genitori usano manifestazioni verbali o smorfie per indicare al bambino di non toccare o raccogliere oggetti sporchi e potenzialmente dannosi. Le figure genitoriali hanno quindi un ruolo fondamentale nell’insegnare al bambino come approcciarsi a questa emozione e rappresentano un modello di apprendimento molto importante.

Nel Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) il disgusto gioca un ruolo chiave. Ciò è particolamente vero nel sottotipo da contaminazione, in cui si ha il timore di potersi sporcare o di essere contagiati da una possibile malattia. Queste paure molto intense spingono a comportamenti di evitamento (arrivando anche a non uscire più di casa), di controllo e soprattutto di lavaggio, con lo scopo di prevenire a tutti i costi qualsiasi possibile contaminazione. Il film francese “Supercondriaco – Ridere fa bene alla salute” rappresenta abbastanza fedelmente quali possono essere i timori e i comportamenti che una persona affetta da questo disturbo vive.

Trattare chi ha una elevata sensibilità al disgusto è molto difficile, soprattutto considerando il forte potere attivante che questa emozione racchiude. Il flooding rappresenta una possibile tecnica di intervento terapeutico, difficile da attuare poichè richiede una fortissima adesione del paziente. Si tratta di un approccio comportamentale, in cui l’individuo entra in contatto con le situazioni che generano ansia in modo non-graduale e prolungato. L’ipotesi è che nel soggetto esposto allo stimolo ansiogeno per molto tempo, pian piano la risposta d’ansia si attenui fino alla completa estinzione. Proprio questo, senza anticipare troppo il finale del film diretto da Dany Boon, è quello che sperimenta il protagonista. Altri interventi consistono nell’aiutare il paziente a esporsi gradualmente agli stimoli disgustosi o pericolosi, senza poi mettere in atto i comportamenti di lavaggio (Esposizione e Prevenzione della Risposta, E/RP). Ancora, si può chiedere all’individuo di associare più volte gli stimoli disgustosi con stimoli valutati da lui come molto gradevoli. Se correttamente applicato, questo processo di controcondizionamento dovrebbe depotenziare l’effetto attivante negativo degli stimoli disgustosi. Anche in ambito scientifico, purtroppo, gli studi volti a verificare l’efficacia di uno specifico trattamento psicoterapico sono ancora scarsi.

 

Per approfondimenti:

 – Questa et al., Cognitivismo Clinico (2013) 10, 2, 161-172

– Mancini F. (2016), a cura di “La mente ossessiva”. Raffaello Cortina Editore

Saper regolare affettività e emozioni

di Sabina Marianelli

Dissociazione, attaccamento e basi neurobiologiche nella regolazione affettiva personale

Un modello mente-corpo è fondamentale per la formulazione di una teoria clinica della regolazione affettiva: già Freud postulava che la regolazione del corpo in termini pulsionali fosse fondamentale per lo sviluppo della vita mentale.
L’affetto può essere inteso come rappresentante dello stato del corpo, che viene monitorato dal sistema di regolazione affettiva: se l’affetto è regolato, l’organismo risponde in maniera flessibile all’ambiente, sia interno che esterno; mentre, se è disregolato, diventiamo dissociati, ridotti a processi automatici e a compartimenti di memoria slegati tra loro.
Quello che pensiamo come un Sé unitario consiste, in realtà, in una serie di stati del sé e ogni stato comprende i diversi modi che si ha di pensare, sentire e agire: siamo sempre versioni differenti di noi stessi, quando siamo stressati e quando siamo rilassati, quando siamo in diverse relazioni, ruoli, contesti. Leggi tutto “Saper regolare affettività e emozioni”

Insegnare ai bambini a gestire le emozioni

di Barbara Basile

Crescendo, i bambini imparano a regolare le proprie emozioni e lo fanno soprattutto osservando i propri genitori: quali suggerimenti seguire per aiutarli al meglio in questo percorso?

Le risposte emotive nei bambini variano parecchio nella loro espressione, nella frequenza e intensità e nella capacità di regolarle. La capacità di gestire le emozioni non è innata, ma si apprende con la crescita, soprattutto osservando ciò che accade in famiglia. Sono i genitori, infatti, che aiutano il bambino a comprendere e orientare la tensione interna che si accompagna a un vissuto emotivo. Alcuni bambini sono, per natura, più sensibili o più facili da calmare di altri. In età scolare il bambino diventa più responsabile e consapevole del proprio funzionamento emotivo e all’intervento genitoriale si affianca quello scolastico. Nel corso dell’adolescenza le modificazioni a carico del sistema ormonale sfidano quanto fino ad allora appreso provocando un’apparente retrocessione nella capacità di gestire le emozioni. Leggi tutto “Insegnare ai bambini a gestire le emozioni”

Perché e come ci si difende dall’invidia

di Angelo Saliani

Ecco le strade che solitamente si percorrono per mantenere distacco dall’emozione più temuta e più negata

L’invidia è una delle emozioni più dolorose e al tempo stesso la più negata. Ma perché? Per rispondere è necessario prima definirla: cos’è esattamente l’invidia?
Stando all’analisi proposta da Maria Miceli e Cristiano Castelfranchi, l’invidia nasce dal confronto tra il proprio potere e quello di un altro rispetto a un dato scopo o bene. Chi invidia si percepisce inferiore, difettoso rispetto a tale potere e prova malanimo nei confronti dell’invidiato, ne desidera il male. È un’emozione “cattiva”. Perché? Per la presenza del malanimo, evidentemente, ma soprattutto perché questo appare – agli occhi dello stesso invidioso – ingiusto e ingiustificato. Leggi tutto “Perché e come ci si difende dall’invidia”

Mai una gioia? Emozioni negative e depressione in adolescenza

di Monica Mercuriu

Un deficit nell’identificazione delle emozioni facciali può costituire un buon predittore di disturbi depressivi

Molti studi, anche se con risultati diversi e non sovrapponibili, hanno evidenziato come un “bias” (interpretazione) nell’identificazione delle emozioni facciali possa giocare un ruolo fondamentale nel corretto sviluppo emotivo di un adolescente e possa costituire un fattore di vulnerabilità per lo sviluppo di sintomi depressivi in adolescenza e in età adulta. La depressione all’inizio o nel corso dell’adolescenza viene stimata con una prevalenza tra il 4 e l’8% sulla popolazione mondiale per arrivare, tra i 10 ed i 19 anni, al 28% ed è correlata fortemente al rischio di suicidio. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (volume di riferimento per psicologi e psichiatri di tutto il mondo, meglio noto come “DSM 5”), i due sintomi principali della depressione sono l’“anedonia” (perdita di piacere) e la tristezza; sperimentare uno di questi sintomi è una condizione necessaria per ricevere una diagnosi di disturbo depressivo. Il peso della depressione dei ragazzi non si limita all’adolescenza: la depressione in adolescenza è un forte predittore di depressione negli adulti.
Le teorie cognitive contribuiscono a mettere in luce come i “bias” negativi possono avviare, mantenere e rafforzare gli schemi depressivi, sostenendo che gli stimoli congruenti con il tono dell’umore vengono elaborati più facilmente e in modo corretto rispetto agli stimoli non congruenti. Leggi tutto “Mai una gioia? Emozioni negative e depressione in adolescenza”

Alessitimia ed estroversione: come la difficoltà a identificare le emozioni è associata alle abilità di socializzare con gli altri

di Luana Stamerra

Se per “alessitimia” si intende l’incapacità di riconoscere e verbalizzare i sentimenti e l’utilizzo di uno stile cognitivo orientato verso eventi esterni, con “estroversione” ci si riferisce a una dimensione della personalità caratterizzata da tendenze socievoli. Tali costrutti apparentemente lontani sono tra loro correlati, come dimostrato da diversi studi che dimostrano che individui alessitimici e meno estroversi mostrano difficoltà nella comunicazione di emozioni, e che alti livelli di alessitimia sono legati a bassi livelli di estroversione. Tali evidenze, emerse da ricerche che hanno utilizzato solo misure esplicite per valutare l’estroversione, cioè misure che chiedono all’individuo di giudicare se determinate affermazioni corrispondono a loro caratteristiche e tendenze comportamentali, ora vengono supportate anche dall’utilizzo di misure indirette che, di contro, inferiscono le rappresentazioni di sé o i contenuti mentali attraverso specifiche performance in contesti sperimentali. Tali misure indirette permettono di rilevare stabili rappresentazioni associative del sé (implicito concetto di sé della personalità) correlate a comportamenti guidati da tendenze e motivazioni di natura automatica. Dunque, mentre le misure esplicite evidenziano i processi deliberativi sottostanti ai comportamenti sociali, le misure implicite rilevano i processi automatici e più impulsivi sottostanti agli stessi. L’utilizzo di entrambi i tipi di misure, ugualmente importanti nella loro complementarietà, è avvenuto in uno studio pubblicato di recente, nel quale è stata esaminata la relazione tra l’alessitimia e l’estroversione misurata in maniera esplicita ed implicita, attendendosi il riscontro di una correlazione negativa tra l’alessitimia e l’estroversione, misurata direttamente e indirettamente. Leggi tutto “Alessitimia ed estroversione: come la difficoltà a identificare le emozioni è associata alle abilità di socializzare con gli altri”

La Schema Therapy, uno sguardo ai bisogni e alle emozioni dell’età infantile

di Barbara Basile

Le esperienze negative legate alle figure di riferimento del bambino sono spesso l’origine di problematiche psicologiche nell’adulto

La “Schema Therapy” (ST) è un approccio di terapia integrato che negli ultimi anni ha ricevuto molta attenzione e consenso non solo negli USA, dove è nata, ma anche nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria, in Svizzera, in Israele, in Turchia e in Australia. Nasce principalmente con lo scopo di coprire i limiti della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) nel trattamento dei disturbi di personalità. In particolare, il suo fondatore, Jeffrey Young, si concentrò sulle problematiche emotive e interpersonali presentate dai pazienti, spesso legate a esperienze negative avvenute in età precoci.

Il modello integra elementi della TCC, della terapia della Gestalt e della Teoria dell’Attaccamento e impiega strategie di tipo esperienziale, emotivo e immaginativo, oltre alle “classiche” cognitivo-comportamentali. Leggi tutto “La Schema Therapy, uno sguardo ai bisogni e alle emozioni dell’età infantile”

I bambini hanno il diritto di essere tristi?

di Anita Parena

È facile fare affermazioni come “tutte le emozioni sono buone” o “tutte le emozioni, anche quelle negative, aiutano a crescere”. In questo momento in cui nelle sale c’è Inside out la legittimità delle emozioni negative è particolarmente in auge, dal momento che il film in modo molto intelligente ed efficace mette in luce i vari modi in cui anche emozioni considerate negative come la tristezza sono da vivere e da esperire in piena consapevolezza perché funzionali al nostro equilibrio. Tradurre questo in pratiche Il-linguaggio-del-cuore_590-0762-3educative, però, è meno facile. Nel libro “Il linguaggio del cuore” di Claudia Perdighe, ci sono esempi presi dalla vita quotidiana di come i genitori “involontariamente”, in mille modi diversi, insegnano a inibire o reprimere le emozioni; molto spesso questo accade perché spaventati sia dalle emozioni dei loro bambini, sia dai possibili effetti su loro stessi. Il primo e forse più chiaro esempio è il contrasto del pianto del bambino, il “non piangere” che per mesi o anni guida tante interazioni genitore-figlio; interrompere il pianto del bambino, infilargli un ciuccio in bocca, cercare mille strategie per farlo smettere, è il primo modo in cui diciamo al bambino “non esprimere ciò che senti”. Il pianto  prolungato e apparentemente senza una causa a cui è possibile trovare una soluzione immediata come fame, freddo o sonno, attiva sentimenti di preoccupazione, disagio e timori sulle proprie capacità di genitore…!

Se invece nel “calmare il bambino” ci ricordassimo che “tutti i bambini piangono e non è un problema che necessariamente richiede una soluzione” anche il ruolo dei neo-genitori sarebbe più semplice.

Se il bambino smette di piangere io mi sento meglio, vero! Se però ogni volta che piange rispondo con “non piangere”, rischio inconsapevolmente di insegnargli che deve sempre essere di buon umore o che non deve mostrare il suo disagio.

Il diritto dei bambini di essere tristi, titolo scelto dall’autrice originariamente, sarebbe il giusto titolo del libro, il cui tema sono appunto le emozioni, piacevoli e spiacevoli: quelle dei bambini e quelle dei genitori.