Nei neonati, una scarsa preferenza per il viso predice lo sviluppo di tratti anti-sociali a due anni

di Barbara Basile

Rachael Bedford e collaboratori (2015) hanno indagato la capacità di predire lo sviluppo di uno stile interpersonale callous-unemotional (CU, letteralmente insensibile-non emotivo) in bambini di due anni e mezzo, partendo dalla loro preferenza (i.e., maggiore attenzione) tra volti umani e oggetti inanimati, in neonati di poche settimane.

Come indicato da Frick (2009), le persone con tratti CU sono caratterizzati da una scarsa propensione a provare senso di colpa o rimorso, da una riduzione delle preoccupazioni per le emozioni altrui, da una espressione superficiale delle emozioni e da una diminuzione delle preoccupazioni relative alle proprie performance. Le caratteristiche cognitive che caratterizzano chi ha tratti CU includono una maggiore resistenza al cambiamento, una scarsa sensibilità ai segnali di punizione (Frick, Kimonis et al., 2003) e la sottostima della probabilità di essere puniti (Pardini et al., 2003). Sul piano comportamentale, questi individui ricorrono frequentemente all’aggressività premeditata e strumentale, finalizzata all’acquisizione di guadagni personali ed alla dominanza sugli altri (Frick, Cornell, et al., 2003). Leggi tutto “Nei neonati, una scarsa preferenza per il viso predice lo sviluppo di tratti anti-sociali a due anni”

Relazione tra scopi, emozioni e controllo cognitivo

di Simone Gazzellini

Ecco un’interessante review di Michael Inzlicht e coll., dal titolo “Emotional foundations of cognitive control”, in press su Trends in Cognitive Science. L’articolo evidenzia la relazione tra scopi, emozioni e controllo cognitivo. In particolare si rinforza l’idea che l’emozione scaturisca dalla rilevazione di discrepanza tra stato attuapdf-logole e stato di raggiungimento di uno scopo (quindi emozione a guardia dello scopo) e che inoltre sia l’emozione a guidare il controllo cognitivo (es. attenzione, pianificazione, funzioni esecutive).
Una buona base di evidenze a sostegno di una teoria che, da anni, circola anche nelle nostre scuole di Psicoterapia Cognitiva APC e SPC.

 

The paradoxes of depression: a goal driven approach

di Francesco Mancini

È stato pubblicato il capitolo di F. Mancini e A. Gangemi dal titolo “The paradoxes of depression: a goal driven approach”.

Le bozze del capitolo sono scaricabili qui pdf-logo

In caso di uso, si prega di citare F. Mancini e A. Gangemi dal titolo The paradoxes of depression: a goal driven approach. in The goals of cognition: essays in honour of Cristiano Castelfranchi (edited by F. Paglieri, L. Tummolini, R. Falcone e M. Miceli), pp 253.273, College Pubblications, 2012
http://www.istc.cnr.it/news/festcris

Il capitolo è dedicato ai paradossi della reazione depressiva (RD), cioè alla reazione con cui normalmente gli esseri umani rispondono a perdite e fallimenti che considerano senza speranza di recupero o sostituzione. La depressione clinica è di solito considerata una variante più intensa e duratura della reazione depressiva, ma  non è l’oggetto del capitolo. Le manifestazioni della RD sono riducibili a due insiemi. Nel primo vi sono il dolore, la tristezza, il pianto e i lamenti. Questi sintomi assieme alla ruminazione sul bene perduto e alla più generale difficoltà a distaccarsi da ciò che ricorda il bene perduto, dimostrano che a seguito di una perdita e di un fallimento l’investimento nel bene perduto o nella meta fallita si mantiene o addirittura aumenta, infatti, si pensa a una persona perduta da poco, più di quanto ci si pensava prima. Per un verso ciò appare del tutto ovvio e scontato: nessuno si stupisce per il pianto e la disperazione di chi ha perso una persona cara. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, è anche vero che mantenere, o addirittura aumentare, l’investimento in un bene che si sa essere perduto, senza speranza di recupero, appare paradossale: che senso ha, infatti, piangere e disperarsi per il latte versato? Perché si continua a investire in un bene che si sa essere perduto per sempre? Non sarebbe più funzionale distaccarsene e dedicarsi ad altro?

Il secondo insieme di sintomi include la perdita di interessi, l’anedonia, il pessimismo e la conseguente riduzione della attività. Questi sintomi, al pari dei precedenti, appaiono del tutto scontati e normali e non sembrano sollevare alcun problema, infatti, sembra ovvio che dopo un lutto si perda interesse per il lavoro, che gli amici non diano più piacere e si preferisca chiudersi in casa. Ma, anche in questo caso, ad un esame più attento la questione non appare per niente ovvia e scontata, anzi, piuttosto, si rivela problematica: perché si perdono i nomali interessi e non si gode più di ciò che prima suscitava piacere? Non sarebbe più funzionale cercare di compensare il bene perduto aumentando investimenti alternativi? Perché invece si disinveste?
La persistenza di un investimento in qualcosa che si sa essere perduto e il disinvestimento da beni alternativi pongono due problemi. Il primo è un problema psicologico. Premesso che la mente è un apparato al servizio di bisogni, desideri e scopi dell’individuo, come è possibile che reagisca alle perdite e ai fallimenti, deprimendosi, cioè mantenendo o addirittura rafforzando l’investimento nel bene perduto (endowment effect)  e, al contempo, disinvestendo da beni alternativi o sostitutivi? La soluzione cognitivista standard, cioè quella di Beck, spiega il pessimismo e quindi, in parte, la perdita di interessi ma con difficoltà rende ragione dell’anedonia e, soprattutto, non considera la persistenza dell’investimento in un bene che si sa essere perduto senza speranza. La soluzione Freudiana, cioè la depressione come autopunizione per aver distrutto l’oggetto d’amore, urta contro l’osservazione dei fatti: il senso di colpa, infatti, non è una componente sistematica della reazione depressiva studies on the relationship between guilt and depression show only a very weak association (e.g., Kim et al., 2011), per giunta, quando è presente, è di solito legato al fatto stesso di essere depressi.
Il secondo problema è evoluzionistico. Perché si è evoluta una razza che reagisce alle perdite e ai fallimenti deprimendosi? La reazione depressiva implica un vantaggio evolutivo? Se si, quale è? Oppure dobbiamo ammettere che ci siamo evoluti nonostante la tendenza a reagire depressivamente?

La soluzione al problema psicologico, che noi proponiamo, prende spunto da una osservazione piuttosto comune, esemplificata da una signora in lutto per aver perso il marito: “se io dessi via i suoi vestiti e gli oggetti che lui usava tutti I giorni, sarebbe come perderlo una seconda volta” e aggiungeva “se smettessi di tenere puliti e in ordine i suoi vestiti, sarebbe come scrivere la parola fine alla nostra storia e perdere definitivamente anche il nostro passato assieme”. La spiegazione della signora rivela due aspetti legati fra loro: innanzitutto che il suo investimento non era finalizzato a riavere il marito ma a evitare di perderlo “una seconda volta”  e che, in secondo luogo, disinvestire da ciò che ricordava il marito equivaleva a sanzionarne la perdita definitiva e a perdere anche ciò che era stato fra loro. In sintesi, disinvestire avrebbe implicato un costo, che possiamo definire sommerso (il ben noto fenomeno dei sunk costs). Una persona cara morta, infatti, può essere ulteriormente perduta disinvestendo  da ciò che la ricorda e investendo in altro. Nella RD, dunque, l’investimento non è per il recupero del bene perduto ma per evitare di perderlo ancora di più. Allo stesso tempo, un bene, per il solo fatto di essere valutato nel dominio delle perdite , acquista un valore maggiore rispetto a quello che ha se è valutato nel dominio dei guadagni (endowment effect).
L’aumento di investimento è a discapito dell’investimento in altri beni, che susciteranno minor interesse e piacere, perciò ottenerli equivale a ricevere dell’acqua quando si ha fame e non si ha sete
E il pessimismo?. Notiamo, innanzitutto che il pessimismo riguarda la inutilità dei propri sforzi, l’inutilità di coltivare speranze, e la pochezza dei risultati raggiunti, anche in domini non intaccati dalla perdita. È da ricordare  che i processi cognitivi sono orientati dagli scopi dell’individuo nel tentativo di ridurre il rischio di errori costosi. Ma quali sono gli errori costosi che si cerca di evitare con il pessimismo? Sembrano due, molto simili fra loro, il primo riguarda il pessimismo circa le possibilità di recupero del bene perduto ed è il costo della delusione, che è vissuta, di solito, come una nuova perdita. Il secondo è l’errore di investire in beni alternativi a quello perduto o sostitutivi di esso che si potrebbero rivelare tali da non giustificare il distacco dal bene perduto.

La RD implica un vantaggio evolutivo e, se si, quale?
Le funzioni principali che si attribuiscono alla RD, sono due. La prima è la richiesta di aiuto: le manifestazioni di dolore servirebbero a disporre gli altri in un modo più favorevole. Non si spiega però la funzione della perdita di interessi. La seconda è il risparmio di energie in attesa di tempi migliori. Non si spiega la sofferenza che caratterizza la RD e che, al contrario, implica dispendio di energie.
Noi suggeriamo che la RD, di per se, non implichi un vantaggio evolutivo. Ciò che implica vantaggi evolutivi, invece, sono i meccanismi psicologici che sostengono la RD e che intervengono normalmente in ogni  attività della mente, dunque anche indipendentemente dalla RD. Se si osservano i meccanismi psicologici della RD si nota che svolgono una funzione stabilizzatrice degli investimenti, in particolare degli investimenti affettivi, cioè diretti verso singole e specifiche entità individuali, e in circostanze avverse. Una funzione del genere sembra assai vantaggiosa per la sopravvivenza di un sistema dotato di molti scopi diversi e spesso opposti, che, dunque, rischia di disorganizzarsi senza adeguate capacità stabilizzanti. Appare vantaggiosa soprattutto perchè facilita la fedeltà affettiva e dunque favorisce la stabilità dei gruppi. I meccanismi stabilizzanti alla base della RD sono presumibilmente funzionali in situazioni avverse cioè di perdite e fallimenti non definitivi, ma lo sono ben meno o forse per nulla, in caso di perdite e fallimenti definitivi. D’altra parte va considerato che le perdite e i fallimenti transitori, cioè le frustrazioni limitate, sono ben più frequenti di quelle definitive, e perciò il vantaggio evolutivo dei meccanismi stabilizzanti vale più degli svantaggi.

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Un modello dimensionale delle emozioni: integrazione tra le neuroscienze dell’affettività, lo sviluppo cognitivo e la psicopatologia

di Barbara Basile  

La teoria delle emozioni (Ekman, 1992; Panskepp, 1998) più nota e attualmente dominante propone un sistema di classificazione di tipo categoriale, dove le emozioni sono classificate come entità discrete, indipendenti le une dalle altre e facilmente dinstiguibili. Questo sistema tassonomico non riesce però a spiegare fenomeni come la frequente comorbilità che si osserva tra diversi disturbi psicologici, né risolve l’annosa questione relativa alla corrispondenza tra emozioni e uno specifico substrato neurofisiologico. Nell’ultimo decennio è stato proposto un approccio alle emozioni di tipo dimensionale (Posner  et al., 2005, Russel 2003; Watson et al., 1999), che ne facilita l’identificazione e la caratterizzazione. Il modello circonflesso delle emozioni, emerso in questi ultimi anni, sostiene che gli stati effettivi sono riconducibili a due principali sistemi neurofisiologici, uno che spiega la valenza dell’emozione (lungo un continuum di piacevolezza-sgradevolezza) ed un altro che si riferisce al livello di arousal/attivazione fisiologica corrispondente (Figura 1). Secondo questa teoria, ogni emozione può essere spiegata come la combinazione lineare tra le due dimensioni, variando per valenza (positiva o negativa) e intensità di attivazione. La gioia, ad esempio, è concettualizzata come uno stato emotivo connotato da valenza positiva e da un livello di arousal moderato. La successiva attribuzione cognitiva, che permette l’integrazione delle due dimensioni, l’esperienza fisiologica sottesa e la stimolazione determinante, permettono, infine, l’identificazione dell’emozione di gioia. Scopo di questo articolo è mostrare l’utilità e l’evidenza empirica a sostegno del suddetto modello. Leggi tutto “Un modello dimensionale delle emozioni: integrazione tra le neuroscienze dell’affettività, lo sviluppo cognitivo e la psicopatologia”

I depressi sono più sensibili ad emozioni negative o provano meno emozioni positive?

di Roberta Trincas

Tempo fa mi è capitato di leggere Emotion and Psychopathology (Rottenberg  e Johnson, 2007), un libro molto interessante che comprende diverse teorie e studi sul ruolo che le emozioni hanno nello sviluppo della sintomatologia di diversi disturbi mentali. Per esempio, si fa riferimento al fatto che un’emozione può essere causa di sintomo quando ha un’eccessiva intensità (es. disturbi d’ansia), è di lunga durata (es. nella depressione, la tristezza e l’anedonia permangono nel tempo), o interferisce sui processi cognitivi (memoria, attenzione, ecc). Leggi tutto “I depressi sono più sensibili ad emozioni negative o provano meno emozioni positive?”

Senti che puzza…d’ansia!

di Carlo Buonanno

Ad occhi ed orecchie inesperte sembra impossibile che situazioni sociali complesse come un crimine, la perdita di una persona cara o una condotta prosociale possano essere decodificate anche grazie al naso. Una conferma che se vedi oltre il tuo naso, sentirai puzza d’ansia, oppure odore di felicità, arriva da un recente studio pubblicato sull’ultimo numero di Emotion.

Ricercatori dell’università di Dresda hanno chiesto a 119 soggetti a quali odori e/o immagini fossero associate le emozioni di base (sono felice se odoro…) ed hanno costruito classi di appartenenza di odori ed immagini, in relazione alle risposte fornite. In questo modo hanno ottenuto 7 classi evoluzionisticamente fondate: Natura, Piante, Animali, Umani, Cultura, Morte, Cibo. Tra gli obiettivi dello studio, testare due canali apparentemente concorrenti: vista ed olfatto. E la vista vince, ma non di tanto. Leggi tutto “Senti che puzza…d’ansia!”