A me gli occhi, please

di Monica Mercuriu

Il contatto di sguardo è essenziale perché il bambino e l’adulto comunichino e decodifichino le emozioni

Molti teorici interessati alle prime forme di comunicazione, allo sviluppo del linguaggio e alla psicopatologia dello sviluppo hanno sottolineato che i primi vis à vis costituiscono la culla di tutte le successive abilità sociali che un bambino può sviluppare nel corso della sua vita.

Il contatto di sguardo, l’osservazione del volto e delle espressioni del caregiver regolano l’impegno reciproco nell’interazione, l’attenzione coordinata e congiunta dei processi intenzionali di comunicazione che portano all’uso della lingua.

Lo psicologo neozelandese Clowyn Trevarthen, con il costrutto di “intersoggettività primaria”, definisce un’innata capacità di condivisione del bambino, che nasce con i mezzi per ottenere una comprensione intima di un partner attento. Secondo questo approccio, il bambino nasce con un interesse per le emozioni e le motivazioni del suo caregiver e s’impegna, fin dall’inizio, in un immediato contatto emotivo con gli altri, acquisisce abilità comunicative e conoscenze su persone e oggetti.

Numerosi studi che hanno utilizzato lo “Still Face Experiment” in cui, durante un’interazione tra madre e bambino, la madre assume l’espressione del “volto immobile”, hanno messo in evidenza come  il bambino tenti di sollecitare, quasi immediatamente, l’attenzione della madre, mostrando una serie di tipici gesti di segnalazione, come sorridere, vocalizzare, gesti di risposta o altri segnali gestuali. Finché persiste l’episodio di Still-Faced e i  tentativi dei bambini falliscono per sollecitare la risposta materna, i bambini si impegneranno anche nel modificare la propria autoregolazione, distoglieranno lo sguardo per evitare lo stimolo stressante, si fermeranno, protesteranno o si mostreranno tristi e arrabbiati.

La pronta riparazione dell’interazione, da parte della madre, ristabilisce l’equilibrio e fornisce supporto e nuovo stimolo alla comunicazione. Il contatto di sguardo è quindi essenziale perché il bambino e l’adulto comunichino e decodifichino le emozioni, costruendo significati nella relazione via via sempre più complessi ed articolati.

Alcune condizioni di rischio presenti nei caregiver e nel bambino possono influenzare lo sviluppo di questa capacità e portare a una deviazione rispetto al normale processo di sviluppo delle capacità comunicative nel bambino. La presenza di condizioni psichiatriche nei genitori portano inevitabilmente alla costruzione di modelli interattivi disadattivi. Ad esempio, la mancanza di risposta riparativa da parte del caregiver (come negli esperimenti still face), può avere effetti a lungo termine sullo sviluppo del bambino, a causa della sua reiterazione cronica che porta inevitabilmente a una loro auto-amplificazione.

La ricerca sulla depressione post partum ha provato che i bambini di madri depresse mostrano alte probabilità di mostrare maggiori comportamenti autoconsolatori nonché utilizzare comportamenti meno interattivi. Deviazioni dai tipici schemi interattivi sono state osservate anche nella diade con madri associate ad alto rischio, esposte a farmaci, alti livelli di stress genitoriale e fattori di rischio parentale. I modelli di scambi affettivi negativi sono stati osservati anche in diade con madri che facevano uso di droghe e questi rappresentano i livelli più alti d’impegno negativo del careviger nell’interazione con il proprio bambino.

In psicopatologia dello sviluppo, alcuni bambini presentano una difficoltà specifica nel riuscire a decodificare lo stato mentale dell’altro, e/o lo stato emotivo. Il costrutto dell’empatia, da sempre d’interesse per i clinici, può essere descritto come un insieme di  diversi sistemi neurocognitivi tra loro connessi che si sviluppa nel bambino grazie all’interazione con l’ambiente e al supporto dei genitori. Le figure genitoriali lo aiutano a creare uno “stato sanzionatorio interno”, teso a sviluppare l’emozione della colpa e dell’empatia, che lo guiderà nel comportarsi in modo adeguato seguendo le regole della famiglia e degli altri ambienti di vita del bambino. In maniera sintetica, sia può distinguere l’empatia cognitiva, legata alla comprensione esplicita dello stato mentale altrui, dall’empatia emotiva, legata alla condivisione dello stato emotivo dell’altro attraverso la decodifica dei segnali facciali o corporei dell’interlocutore, dall’empatia motoria, che implica l’assunzione di risposte motorie dell’altro.

All’interno dei Disturbi dello spettro dell’autismo e dei disturbi del comportamento in età evolutiva, è possibile rintracciare una precisa difficoltà a entrare in relazione attraverso il canale visivo, in modo particolare sostenere lo sguardo dell’altro non è sempre possibile. Molti interventi terapeutici hanno come obiettivo proprio quello di allenare i bambini a prestare attenzione allo sguardo, promuovendo un aumento della loro sensibilità alle risposte emotive e cognitive dell’altro.

In tempo di pandemia da Covid-19 ci viene chiesto di limitare le nostre interazioni fisiche e sociali, il volto è coperto dalla mascherina ma gli occhi sono rimasti liberi dalla minaccia del virus, possiamo impegnarci ancora di più a comunicare attraverso lo sguardo, aiutando i bambini ad allenare questa importante abilità.

Per approfondimenti

I disturbi del comportamento in età evolutiva, Muratori  P. Lambruschi F., 2020

 

 

Un test per scoprire emozioni da Covid

di Giuseppe Femia e Isabella Federico

Gli effetti psicologici della pandemia che stiamo vivendo

Gli effetti psicologici connessi a Covid-19 sembrano – ora più che mai – apparire come tutt’altro che secondari, anzi, talvolta sembrano addirittura precedere e anticipare quelli fisici.

La “coronafobia” provoca: panico, ansia, comportamenti ossessivi, atteggiamenti di “accaparramento”, paranoia, depressione e disturbo da stress post-traumatico (PTSD) nel lungo periodo, un sentimento di maggiore solitudine negli anziani, maggiori ansia e incertezza, irritabilità e noia nei bambini e nei ragazzi, episodi di violenza e scompenso nei pazienti psichiatrici. Tali manifestazioni sono peraltro continuamente alimentate da una cosiddetta “infodemic”, ovvero dai continui messaggi riguardo il virus trasmessi dalle diverse piattaforme dei social media. Non solo: assistiamo a esplosioni di razzismo, stigmatizzazione e xenofobia contro le comunità straniere.

Abbiamo qui associato le lettere che compongono la parola “Covid” agli aspetti che mettono a dura prova la nostra psicologia in questo periodo storico, procurando effetti negativi a lungo termine e segnando la nostra memoria emotiva:

C – OSCIENZA/ COSTRIZIONE: certamente la pandemia e tutti i suoi scenari scuotono la nostra coscienza (di tipo individuale e collettivo), generando uno stato di allarme generalizzato e di preoccupazione, un senso di confusione rispetto ai nostri piani esistenziali, costringendoci a entrare in contatto con gli aspetti più vulnerabili del “Sé”. Ci troviamo di fronte a quelli che sono universalmente gli scenari più temuti: ammalarsi, morire, rimanere soli, in un clima di deprivazione emotiva, di difficoltà ed emergenza. Siamo costretti a un modus vivendi inconsueto, restrittivo, ponendoci di fronte a una richiesta che suona quasi come un paradosso: ignorare la nostra natura sociale di scambio e interazione, diventare degli “animali distanzianti”, a garanzia di un bene comune, quello di preservare la specie.

O–SSESSIONE: il Covid-19 ha generato un proliferare di ossessioni in generale e in particolare di quelle connesse alla salute, all’igiene, oltre a preoccupazioni riguardanti il futuro, una sorta di rimuginio. Ha certamente sollecitato il nostro pensiero spingendolo a ruminare su quanto sia probabile ammalarsi, guarire o morire, e quanto sia grave rispetto alla responsabilità che potremmo avere nel generare un contagio o nel subirlo.

V–ERDETTO: positivo o negativo? Se il verdetto è negativo, possiamo tirare un sospiro di sollievo, ma se il verdetto è positivo? Come mai le persone temono così tanto rendere pubblica la propria positività? Come se non bastasse, allo stato di allerta e pericolo, sembra aggiungersi – nella maggior parte dei casi – un incremento di emozioni non solo di ansia ma di vergogna, senso di colpa e di vissuti di inadeguatezza, come se essere positivi al Covid-19 determinasse un vero e proprio stigma. Uno stato di tensione che genera ansia e certamente segna il proprio vissuto, la propria storia e quotidianità. Uno stato, questo, che certamente favorisce quei fenomeni di ansia anticipatoria, di controllo eccessivo e di preoccupazione ipocondriaca.

I–MMUNITÀ: tutti sogniamo di essere immuni, o poterlo diventare, e taluni credono di esserlo già: negano addirittura la presenza del virus e la sua pericolosità, si sentono onnipotenti e lo sfidano, e alcuni di loro escogitano strategie complottiste, un chiaro segno di rifiuto della realtà. Tale fenomeno ha chiaramente ingrediente di interesse clinico, riflettendo i meccanismi eziopatogenetici di talune condizioni psicopatologiche: spesso quando la minaccia diventa eccessiva si escogitano meccanismi di diniego o di alterazione dell’esame di realtà.

D–EMOCRAZIA/DOMINANZA: nessuno ha più la possibilità di non pensare al Covid-19, il virus ha totalmente invaso la nostra libertà mentale, oltre che fisica (limitazioni negli spostamenti, coprifuoco, etc), DOMINANDOLA. Tutti siamo tenuti a considerarlo nei suoi aspetti catastrofici, dietro i quali risuona la più generale paura della malattia, della morte, della perdita e, se dovessimo dimenticarlo, certamente qualcuno sarà pronto a ricordarcelo. Persino coloro che provano a negare la sua presenza combattono per non vederlo, si ribellano e ne sono invasi in termini di pensiero e comportamento.

Riflettendo sulla situazione attuale dovuta alla pandemia e alla quarantena, possiamo dunque concludere che il clima psicologico del Covid-19 porta con sé una crisi di valori, personali e collettivi, che certamente ci costringe a rivalutare le priorità e a mettere in discussione molti dei nostri schemi culturali di riferimento e di funzionamento psicosociale e per questo si rendono necessari interventi coordinati dei professionisti della salute mentale.

Al fine di indagare sugli effetti mentali del periodo che stiamo vivendo, abbiamo creato il test online Le emozioni durante la pandemia da Covid-19, rivolto a chiunque voglia parteciparvi in forma anonima e gratuita. Gli effetti psicologici a lungo termine dovuti a Covid-19 non sono da sottovalutare, specialmente in relazione a questa seconda ondata. Pertanto meritano approfondimento e ulteriore livello di indagine.

 

Clicca per compilare il test 

Le emozioni durante la Pandemia da Covid-19 

 

Per approfondimenti

Damasio, A. (1994). L’errore di Cartesio. Emozioni, ragione e cervello umano. Adelphi, Milano, 1995

Dubey, S., Biswas, P., Ghosh, R., Chatterjee, S., Dubey, M. J., Chatterjee, S., Lahiri, D., & Lavie, C. J. (2020). Psychosocial impact of COVID-19. Diabetes & metabolic syndrome, 14(5), 779–788. https://doi.org/10.1016/j.dsx.2020.05.035

Lyons, D., Frampton, M., Naqvi, S., Donohoe, D., Adams, G., & Glynn, K. (2020). Fallout from the COVID-19 pandemic – should we prepare for a tsunami of post viral depression?. Irish journal of psychological medicine, 1–6. Advance online publication. https://doi.org/10.1017/ipm.2020.40

Talevi, D., Socci, V., Carai, M., Carnaghi, G., Faleri, S., Trebbi, E., di Bernardo, A., Capelli, F., & Pacitti, F. (2020). Mental health outcomes of the CoViD-19 pandemic. Rivista di psichiatria55(3), 137–144. https://doi.org/10.1708/3382.33569

Vindegaard, N., & Benros, M. E. (2020). COVID-19 pandemic and mental health consequences: Systematic review of the current evidence. Brain, behavior, and immunity, 89, 531–542. https://doi.org/10.1016/j.bbi.2020.05.048

Il ruolo dei bisogni sentiti

di Alessandra Santoro
a cura di Cristiano Castelfranchi

I bisogni sono scopi di grande forza motivante, hanno una natura molto particolare, non solo perché sono rappresentati come imprescindibili necessità la cui mancata soddisfazione è concettualizzata come un danno, ma anche perché si possono “sentire”.
Castelfranchi (2004) delinea l’importante differenza tra “avere un bisogno” e “sentire il bisogno” di qualcosa, e l’efficacia del ruolo cruciale svolto dal corpo e dalla propriocezione nei bisogni “sentiti”, ovvero soggettivamente percepiti e particolarmente “pressanti”.

Si può pensare al passaggio tra i diversi bisogni come un susseguirsi di livelli.

Nella cognizione umana, avere un bisogno, significa che si ha una mancanza di qualcosa (ad esempio: una risorsa, una condizione, un’azione) che si rappresenta come necessaria al raggiungimento di uno scopo, per cui diventa uno scopo-mezzo, che implica un’azione compiuta sotto la spinta di un impulso o istinto, in cui no n entra in gioco il ruolo del corpo.

Prima di affrontare il livello del sentire un bisogno, è opportuno considerare un livello intermedio: quello dei bisogni oggettivi assunti, che ancora non coincidono con i bisogni sentiti, in quanto l’essere umano, può venire a conoscenza di un suo bisogno e tuttavia continuare a non “sentirlo”.

E’ al livello dei bisogni sentiti che il corpo assume una funzione discriminante. Per poter essere attivati, questi bisogni, necessitano di condizioni particolari: una persona deve percepire una  sensazione proveniente dal proprio corpo, deve avere la credenza di avere bisogno di una determinata cosa per raggiungere il suo scopo, ed inoltre deve attribuire la sensazione provata a quella mancanza che non gli permette di soddisfare il bisogno, per cui si attiva la ricerca in termini cognitivi e comportamentali.

Un bisogno sentito, di natura psicologica, che definiamo secondo la classificazione di Castelfranchi come bisogni sentiti astratti, non coinvolgono un segnale somatico periferico, ma ciò che si “sente” è un segnale o una traccia percettiva che è nel cervello e si trova associata a una data configurazione di scopi e credenze.
Sentire bisogni psicologici comporta una forma di disagio, dolore o sofferenza “mentale”, che implica anch’essa un segnale proveniente dal corpo, in questo caso a livello cerebrale non periferico ed inoltre, sentire questi bisogni può comportare l’attivazione di un “marcatore somatico” (Damasio, 1994), cioè di una traccia centrale di esperienze emotive o percettive associate alle rappresentazioni mentali implicate da tali bisogni.

L’importanza del riconoscere i bisogni sentiti, permette di comprendere in che maniera coinvolgono le credenze, gli scopi e l’ emozioni.
Un bisogno sentito si basa sulla credenza che la causa di ciò che si sente è una mancanza, inoltre secondo il meccanismo feeling as information, il sentire un bisogno può essere la base per formare una credenza.

I bisogni, in quanto scopi, hanno la capacità di elicitare un altro scopo, che siano essi mentali o pratici, come quelli che inducono ad  un’azione per essere soddisfatti.

I bisogni sentiti, ovviamente, possono sia associarsi che evocare altre emozioni, ad esempio relative anche al bisogno stesso, in cui la persona che le sperimenta può giudicarsi, positivamente o negativamente, per provare quel bisogno e ciò determina un’altra emozione.

Bibliografia:

Castelfranchi C. & Miceli M.(2004). Gli scopi e la loro famiglia: Ruolo dei bisogni e dei bisogni “sentiti”. Cognitivismo Clinico, 1, 5-19.
Damasio, A.R. (1994). Descartes’ error. New York: Putnam’s Sons.

 

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Il disprezzo è l’altra faccia del disgusto?

di Irene Tramentozzi e Erika Cellitti 
a cura di C. Castelfranchi e M. Miceli   

Dal ­momento che la rabbia viene spesso utilizzata per riferirsi alle emozioni di disprezzo e disgusto, alcuni autori suggeriscono che il disprezzo sia una “miscela” di rabbia e disgusto, altri, invece, mettono persino in discussione che il disgusto sia una vera e propria emozione. Pur condividendo un nucleo comune basato sull’ostilità, disprezzo e disgusto sono, in realtà, come suggerito dagli autori Castelfranchi e Miceli, due emozioni completamente differenti, contraddistinte da diverse caratteristiche cognitivo-motivazionali. Ontologicamente tali emozioni sono accomunate dal possedere un aspetto “morale” e uno “non morale”, inoltre implicano una valutazione negativa di tipo disposizionale ed entrambe innescano tendenze all’azione di evitamento ed esclusione. Tuttavia, nonostante questi elementi comuni, il disprezzo è rivolto, esclusivamente, verso gli esseri umani e comporta un senso di superiorità nei loro confronti, pessimismo riguardo un loro possibile miglioramento, distacco da essi ed evitamento. Al contrario, il disgusto può essere rivolto ad una vasta gamma di stimoli e comporta una certa sensibilità alla contaminazione ed un conseguente evitamento guidato dalla paura stessa. Un’altra differenza significativa tra disprezzo e disgusto è correlata, in primo luogo, ai diversi tipi di “standard” rispetto ai quali viene valutato lo stimolo, in secondo luogo, alla mancanza di rispetto generato dalla stessa valutazione negativa.  

L’emozione del disprezzo implica un confronto con un altro individuo e la conseguente valutazione di quest’ultimo come al di sotto dei propri standard. È possibile distinguere due forme di disprezzo, una “non morale” ed una “morale”. Il disprezzo “non morale”, definito anche “di base”, può essere rappresentato da tre caratteristiche qualificanti: implica una valutazione negativa riguardo le capacità del soggetto a cui viene attribuita una mancanza di potere e inadeguatezza nel rispecchiare gli standard del valutatore, la caratteristica disprezzata viene riconosciuta come un tratto intrinseco del soggetto e, in ultimo, valutata come totalmente negativa e rilevante per gli standard del valutatore. La mancanza di rispetto in questo caso è legata al fatto che la persona disprezzata è considerata carente di quelle capacità necessarie a soddisfare lo standard e gli viene riconosciuta l’impossibilità di acquisirle nel tempo: “non c’è niente da fare”.

Le conseguenti condotte di evitamento saranno supportate non dalla paura in quanto tale, ma dalla considerazione che esso è immeritevole di interesse e “inutile” in un eventuale interscambio sociale. Il disprezzo “morale” ha le stesse componenti cognitive di quello di base, ma oltre all’inadeguatezza, al soggetto disprezzato viene attribuita anche una componente di responsabilità rispetto alle proprie mancanze. Ma come è possibile essere inadeguati e allo stesso tempo responsabili per una propria “mancanza”? Gli autori suggeriscono che vi sia una valutazione, da parte del disprezzante, basata sul “poter acquisire” tale mancanza grazie ad uno “sforzo” di apprendimento, che però il soggetto disprezzato evidentemente non compie. Inoltre, l’evitamento assumerà una forma di esclusione sociale, non solo inteso come allontanamento, ma anche come punizione verso l’altro.  

Il disgusto è identificato da Charles Darwin come una delle sei emozioni di base degli esseri umani, ma secondo quanto suggerito da Castelfranchi e Miceli, è necessario operare un’essenziale distinzione: quando questa emozione è una risposta immediata ad uno stimolo rivoltante, va considerata semplicemente come un effetto sensoriale negativo associato ad una reazione fisiologica (come nausea e vomito) ed affinché il disgusto sia identificabile come un’emozione in quanto tale, è necessario che questa reazione venga ri-simbolizzata cognitivamente, cioè gli venga attribuita una valutazione ed un’interpretazione che gli forniscano una valenza affettiva. Tutte le forme di disgusto condividono delle caratteristiche chiave: sensibilità alla contaminazione, intesa come riconoscimento di uno stimolo come contaminante e causa di minaccia alla propria integrità attraverso il contatto o l’associazione con esso, la paura della contaminazione come diretta conseguenza di tale riconoscimento, e in ultimo, l’evitamento dello stimolo motivato dalla paura stessa. Queste caratteristiche pongono una differenza netta tra disgusto e disprezzo, attribuendo loro delle qualità distintive che permettono di definirle come due emozioni differenti, infatti nel disprezzo non c’è né sensibilità alla contaminazione né paura della contaminazione e la persona disprezzata non è percepita come contagiosa: è solo inferiore e indegna di stima (non suscita paura).  

Il disgusto appare quindi come un’emozione complessa, le cui componenti cognitive non sono facili da identificare, a causa dell’ampia varietà dei trigger che l’attivano. Gli autori pongono un’ulteriore distinzione inerente alle varie tipologie di disgusto, identificando sia il disgusto sociale sia il disgusto morale: il primo può essere considerato come una forma di disgusto associata al ricordo nel comportamento o nell’aspetto, a quelli propri degli animali, come ad esempio mangiare cibo marcio o contaminato, o mangiare animali che in una certa cultura non sono socialmente accettabili, oppure diretto a persone il cui aspetto fisico assume connotati “animaleschi”, e può pertanto essere considerato come legato a convenzioni sociali; il secondo, sembra invece essere associato a violazioni del codice morale di cui la persona è ritenuta responsabile e questo tipo di violazione è considerata talmente grave che la persona viene giudicata come “non conforme allo standard di essere umano” e quindi dis-umanizzata, pertanto il conseguente evitamento non sarà legato solo al distanziamento fisico, ma al distanziamento sociale che assume una doppia valenza, una punitiva (come nel disprezzo morale) e l’altra difensiva, al fine di operare un distacco “protettivo” dal rischio di contagio morale. La mancanza di rispetto generata da questa forma di disgusto, assumerà, pertanto, un aspetto contraddittorio: come può una persona dia-umanizzata moralmente, essere al tempo stesso responsabile di un illecito? La risposta consiste nel fatto che chi è oggetto di disgusto è percepito come un traditore della dignità umana che non combatte le sue tendenze disumane. Pertanto il disgusto è legato all’etica, alla dignità e all’integrità umana, che assume una funzione adattiva in quanto misura autodifensiva e punitiva, che non sempre assume un’accezione negativa e può apparire appropriata quando questa è rivolta a condannare determinati illeciti comportamentali.

In conclusione, quindi, appare evidente che tali emozioni siano differenziate da specifici connotati cognitivi-motivazionali. Il disprezzo implica un elemento di “freddezza” poiché correlato ad una bassa attivazione fisiologica e per sua natura, è caratterizzato da un aspetto piacevole nello sperimentare tale emozione poiché basata su una percezione del sé come superiore all’altro (come ricordano Miceli e Castelfranchi “un caso particolare è rappresentato dal disprezzo verso sé, in cui il soggetto valuta se stesso, o meglio il sé reale percepito, tanto al di sotto degli standard sostenuti dal proprio sé ideale”), mentre il disgusto è ancestrale e “viscerale” poiché derivato da esperienze legate alla paura della contaminazione, è caratterizzato pertanto da un’esperienza spiacevole. Tale distinzione può assumere rilevanza, non solo in ambito clinico, per individuare le specifiche attivazioni fisiologiche, i correlati cognitivi e le attitudini comportamentali legati a queste due emozioni al fine di imparare a riconoscerle e discriminarle.

Riferimenti bibliografici

Miceli M, Castelfranchi C. Contempt and disgust: the emotions of disrespect. J Theory Soc Behav. 2018;1–25. https://doi.org/10.1111/jtsb.12159

Le esperienze passate nell’Anoressia Nervosa

di Barbara Basile

 Quali sono le esperienze relazionali infantili che predispongono allo sviluppo del disturbo psichico con il più alto tasso di mortalità?

L’Anoressia Nervosa (AN) insorge tipicamente in età adolescenziale, anche se negli ultimi anni l’età di esordio si è abbassata drasticamente, fino a toccare l’infanzia. La prevalenza si aggira attorno all’1,7% nelle femmine e allo 0,1% nei maschi e il disturbo, sviluppatosi tipicamente nei Paesi occidentali, si sta diffondendo in culture non occidentali e, in particolare, nei Paesi emergenti (Cina e altri Paesi asiatici).
L’anoressia è la patologia mentale con il più alto tasso di mortalità: tra il 5 e il 20% delle persone affette da questo disturbo alimentare perde la vita (nel 2016 in Germania a causa dell’AN sono morte quasi 40 persone!). La principale causa di morte deriva da complicanze mediche, legate soprattutto a problemi cardiaci. Le conseguenze sull’organismo includono la brachicardia, con consecutiva riduzione del volume cardiaco, la riduzione di calcio nelle ossa, la carenza di vitamina B12, sbalzi ormonali, fatica cronica e spossatezza, disidratazione, perdita dei capelli, pelle secca e aumento della produzione pilifera su tutto il corpo.

Quello che sostiene le pazienti con AN nel loro disturbo è lo scopo del “non essere grasse”. A questo obiettivo si accompagnano la distorsione dell’immagine corporea, un’ossessione perfezionistica che riguarda le forme del corpo e il cibo, e che spesso si estende ad altri ambiti di performance, una iper-focalizazione (sia cognitiva che comportamentale) sul cibo e sul corpo, a discapito dell’investimento su altre aree della vita e conseguenti strategie per ridurre l’aumento del peso o favorire la sua riduzione.

Ma quali sono i fattori di vulnerabilità, ovvero le esperienze di vita, soprattutto di natura relazionale, che predispongono allo sviluppo di questi sintomi? È possibile identificare delle caratteristiche familiari che creano una maggiore sensibilità all’eccessivo timore di “essere grasse”, al punto da mettere a rischio la propria vita?
La letteratura scientifica, purtroppo, ci dà scarse risposte. I pochi studi che hanno esplorato il problema rivelano che le pazienti con anoressia mostrano degli standard genitoriali molto severi e un perfezionismo di base significativamente superiori sia alle persone sane, che a pazienti affetti da altri disturbi psichici. Inoltre, considerando i diversi tipi di disturbi del comportamento alimentare, sembra che rispetto alle persone con Bulimia Nervosa, le pazienti con AN riportano un minor livello di protezione e sicurezza da parte della figura paterna. Da un recente studio preliminare, presentato alla prima edizione del Congresso Nazionale di Schema Therapy, è emerso che le pazienti con AN (confrontate con ragazze sane della stessa età) riportavano un eccessivo coinvolgimento, sia fisico che emotivo, da parte della figura materna, che in questo modo compromette un adeguato sviluppo del sé e dell’identità della figlia. Il padre, invece, è stato descritto come inibito e rigido sul piano della manifestazione delle emozioni e dei bisogni. L’ipercriticismo materno e la tendenza della madre ad avere degli standard molto severi predicevano, altresì, la gravità della sintomatologia anoressica e l’eccessiva preoccupazione per il peso e le forme corporee delle pazienti. Già autori come Minuchin, nel 1978, e Bruch, nel 2003, sostenevano che il cibo e il suo rifiuto potrebbero rappresentare per la ragazza anoressica l’estrema possibilità di opporsi in modo concreto e lampante all’iper-coinvolgimento materno, nel tentativo di rendersi indipendente e distaccarsi da un ambiente familiare invischiante, ipercritico e spesso invalidante sul piano dei vissuti emotivi, dei bisogni e desideri. Le esperienze precoci hanno indiscutibilmente un ruolo nel contribuire allo sviluppo di una vulnerabilità all’AN, così come degli altri disturbi del comportamento alimentare, e una buona parte di questi fattori va ricercata nell’ambiente familiare di origine, oltre che nelle già note dinamiche legate alla cultura (mistificazione dell’apparenza e pressione alla magrezza) e dello stato sociale di appartenenza.

Il cervello emotivo 2.0

di Manuel Petrucci

Le emozioni, le loro basi neurali e i rapporti con cognizione e motivazione nella prospettiva di Luiz Pessoa

 Negli ultimi decenni di fioritura della ricerca neuroscientifica, lo studio delle emozioni ha certamente occupato un posto di primissimo piano. La sfida è stata, ed è, quella di comprendere i meccanismi attraverso i quali attribuiamo salienza, valore agli stimoli esterni o interni, dando origine a una specifica reazione emotiva, e orientando selettivamente le risorse cognitive e comportamentali. Una funzione, quella di valutazione (appraisal) che risulta fondamentale se consideriamo innanzitutto i limiti delle risorse di elaborazione che abbiamo a disposizione. Questo problema, come sottolineato dagli studiosi dell’attenzione, impone ai sistemi cognitivi una selettività strutturale per poter risolvere la “competizione” tra gli stimoli simultaneamente presenti nell’ambiente a favore di alcuni e a discapito di altri.

Nell’ambito del XIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC), il prof. Luiz Pessoa, del dipartimento di psicologia della University of Maryland, ha tenuto una invited lecture dal titolo “The cognitive-emotional brain: from interactions to integration”. Secondo Pessoa, sono gli stimoli rilevanti per gli scopi dell’individuo a vincere la competizione, ed è in funzione del significato che gli eventi-stimolo rivestono per gli scopi attivi che l’emozione viene elicitata, guidando i processi cognitivi successivi e preparando all’azione più appropriata.
L’emozione, dunque, è intimamente collegata alla motivazione, e contribuisce in maniera decisiva alla creazione di una “mappa delle priorità” (priority map) fin dai primissimi stadi dell’elaborazione percettiva, per poi esercitare due specifiche influenze sul controllo cognitivo: un aumento della velocità e dell’efficienza dell’elaborazione (sharpening) e la direzione (shunting) ottimale delle diverse funzioni esecutive (aggiornamento, inibizione, flessibilità) verso il perseguimento degli scopi.
Questa visione integrata dei processi cognitivi, emotivi e motivazionali rappresenta un superamento dei classici modelli “a scatole e frecce”, a connotazione modulare. In questi modelli, la complessità dei fattori e delle funzioni può essere rappresentata solo da interazioni mono o bidirezionali e spesso orientate in senso “verticale”, come nelle dicotomie tra processi top-down/bottom-up o elaborazione corticale/sottocorticale, che risentono pesantemente di ben più antiche dicotomie tra ragione e passione, o tra cognizione ed emozione, appunto.

Appare chiaro che il funzionamento di base dell’individuo è guidato dagli scopi (top-down), ma la necessità di mantenere una flessibilità adattiva verso l’ambiente e le sue variazioni consente che stimoli salienti, dal punto di vista percettivo o emotivo, catturino l’attenzione (bottom-up), ri-orientando eventualmente gli scopi.

Un corollario di questa concettualizzazione è che se ci interroghiamo sul dove si trovi l’emozione nel cervello. La risposta sarà: “In tanti luoghi”. Per molti anni è stata dominante una visione secondo cui l’elaborazione dell’informazione emotiva avviene in maniera rapida, automatica, potenzialmente inconscia attraverso una via sottocorticale specializzata in cui l’amigdala svolge il ruolo principale. Questa visione è stata promossa dalle importanti scoperte della ricerca animale che hanno mostrato che l’attivazione delle connessioni tra il talamo uditivo e l’amigdala è sufficiente per sviluppare alcune forme di condizionamento pavloviano alla paura. Tuttavia, con i suoi studi e le sue influenti rassegne della letteratura, Pessoa ha contribuito a una sostanziale revisione di questo modello, evidenziando innanzitutto come le aree corticali, in particolare quelle coinvolte nelle funzioni esecutive, siano massivamente coinvolte anche nell’elicitazione, e non solo nella regolazione delle emozioni. Ad esempio, considerare “top” la corteccia prefrontale mediale, e “down” l’amigdala non consente di apprezzare la ricchezza delle connessioni bidirezionali di queste due aree, oltre che delle rispettive connessioni che intercorrono con altre aree coinvolte nella regolazione emotiva e nei processi di estinzione della paura, come l’ippocampo ventrale, il talamo mediodorsale, l’ipotalamo, la corteccia orbitofrontale.

Le implicazioni per la clinica, e in particolare per la terapia cognitiva, di queste conoscenze neuroscientifiche sulle emozioni sono molteplici e complesse, e spaziano dalla sopracitata regolazione emotiva alle strategie di cambiamento degli scopi, dal rapporto tra emozione e coscienza alle modificazioni innescate dai meccanismi di apprendimento e di esposizione. In conclusione, i processi cognitivi, emotivi e motivazionali non sono intercambiabili, e una loro considerazione specifica è utile sia nell’ambito della ricerca che della clinica (credenze, emozioni, scopi). Tuttavia, essi sono inestricabilmente legati, e una comprensione della mente, delle sue basi neurali e del funzionamento patologico richiede l’adozione di una prospettiva integrata, basata sul coordinamento di diverse funzioni sostenute dall’attività coordinata di diverse aree cerebrali, superando dunque intuitive, ma inconcludenti, dicotomie o schematizzazioni neuro-psico-filosofiche.

 

 

Per approfondimenti:

 

Pessoa, L. (2017). A network model of the emotional brain. Trends in Cognitive Sciences, 21(5), 357-371

 

Pessoa, L. (2017). Cognitive-motivational interactions: beyond boxes-and-arrows models of the mind-brain. Motivation Science, 3(3), 287-303

 

Pessoa, L., & Adolphs, R. (2010). Emotion processing and the amygdala: from a “low road” to “many roads” of evaluating biological significance. Nature Reviews Neuroscience, 11(11), 773-783

Perché la noia è interessante?

di Barbara Basile

Poco sopportata e evitata a tutti i costi… La sua intolleranza predispone all’abuso di sostanze e ad assumere comportamenti rischiosi: eppure la noia ha dei risvolti positivi

La noia, temuta e combattuta, risulta essere, dopo la rabbia, l’emozione che più spesso si cerca di sopprimere, con conseguenze a volte drammatiche. Emozioni di noia sono associate all’impulsività e alla ricerca di forti sensazioni e inversamente correlate alla qualità della vita e dei rapporti sociali. Di fatti, le persone che hanno difficoltà a tollerare questa emozione spesso ricorrono a comportamenti dannosi pur di liberarsene.

Da alcune ricerche è emerso che la noia è, assieme ai vissuti ansiosi e depressivi, il più frequente attivante delle abbuffate (binge eating). In un altro studio, tramite un simulatore di guida, è stato misurato il livello di distraibilità al volante. Si è osservato che chi ha una maggiore tendenza alla noia guida più velocemente, ha riflessi meno pronti nel gestire gli imprevisti e guida più spesso al centro della strada. In un’altra indagine si è osservato che oltre il 50% di studenti statunitensi con elevata tendenza alla noia faceva un uso significativamente maggiore di tabacco, droghe e alcol, rispetto ai colleghi meno sensibili  a questa emozione.

La società di oggi è sempre più complessa e articolata, offrendo un numero crescente di stimoli. A livello del Sistema Nervoso Centrale, la stimolazione produce un rilascio di dopamina e più la mente viene stimolata, più diventa dipendente e va alla ricerca di nuovi input. Di conseguenza, la capacità di restare concentrati su un compito per un tempo più lungo diventa sempre più difficile. In un esperimento sorprendente, alcuni ricercatori dell’Ohio hanno mostrato come persone sane a cui veniva chiesto di restare per 20 minuti soli e inoperosi in una stanza, sceglievano spontaneamente di provare dolore pur di interrompere l’esperienza della noia. Il 24% delle donne e il 67% degli uomini hanno scelto, almeno una volta, di auto-somministrarsi uno stimolo elettrico doloroso pur di “sentire qualcosa”.

In Germania un gruppo di studiosi ha identificato cinque diverse forme di noia partendo da una noia “indifferenziata”, più lieve e innocua (attiva per esempio, quando si assiste a lezioni o convegni o quando si è in attesa in fila), a una forma più acuta (definita “epathetic boredom”), a cui corrisponde un abbassamento dell’attivazione fisiologica e che sembra associata alla depressione. Proprio in Italia, un gruppo di psicoterapeuti cognitivisti sta indagando il ruolo di questa emozione nell’ambito della psicopatologia, con particolare focus sui disturbi dell’umore. In occasione del recente Congresso della Società Italiana di Terapia Cognitivo-Comportamentale (SITCC) a Verona, i colleghi toscani hanno presentato i dati di una ricerca in cui la noia è stata misurata in tre gruppi di pazienti affetti da Disturbo Bipolare di Tipo 1 (DB1), Disturbo Bipolare di Tipo 2 (DB2) o da un Disturbo Ciclotimico. I dati preliminari hanno mostrato che, rispetto agli altri, i pazienti con DB1 erano più suscettibili a questa emozione e tendevano a cercarne la causa nell’ambiente esterno. Analogamente, solo nel DB1, la noia era significativamente correlata con alcuni indici di malessere soggettivi, quali l’attivazione psicomotoria, l’umore instabile, l’irritabilità, tendenze suicidarie e uso di sostanze.

Intesa come un momento di stallo in cui gli scopi sono disattivi, la funzione della noia sembrerebbe ingaggiare in nuove attività, ricercando nuovi scopi e obiettivi. Diversi ricercatori sostengono che la noia promuova il mind wondering, il fantasticare, e che questo possa a sua volta facilitare il problem solving e il pensiero creativo. Alcune persone sono riuscite a trasformare l’intolleranza alla noia in qualcosa di positivo, abbracciando serenamente l’incessante bisogno di nuovi stimoli in modo adattivo.

Sei triste, te lo leggo in faccia!

di Angelo Maria Saliani

Le espressioni del viso sono davvero lo specchio dei nostri sentimenti?

Nella cultura occidentale è ben radicata l’idea che gli esseri umani siano universalmente predisposti a provare alcune emozioni di base e che a ciascuna di queste emozioni corrisponda un’inconfondibile espressione del viso. “Sei triste, te lo leggo in faccia!”, “Sei felice, si vede dalla faccia”, “Il tuo sguardo non mente, hai paura!”: sono solo alcuni esempi di come ogni giorno, interagendo con gli altri, usiamo questa teoria delle emozioni. Proviamo in modo rapido e automatico un sentimento, in modo altrettanto rapido e automatico lo esprimiamo con una tipica espressione del viso e chiunque, in qualunque parte del mondo, se invitato a guardarci in faccia e a dire cosa stiamo provando indovina istintivamente la nostra emozione. Questa teoria, da millenni presente nel pensiero occidentale, ha trovato una base scientifica negli anni ’70 del secolo scorso grazie agli studi di Paul Ekman, che nelle sue ricerche ormai classiche sembrò dimostrare che ogni emozione di base (gioia, sorpresa, disgusto, paura, tristezza e rabbia) è riconosciuta da soggetti di diverse parti del mondo e diverse culture come corrispondente a una tipica espressione facciale. Il disegno sperimentale era abbastanza semplice: ai soggetti venivano mostrate foto di espressioni del viso ed era poi chiesto loro di abbinarle a delle emozioni. Il riconoscimento delle emozioni attraverso tipiche espressioni facciali sembrò universale.

Nonostante la grande popolarità e una sua ampia applicazione (persino in importanti programmi governativi per il riconoscimento di potenziali terroristi), questa teoria non ha mai goduto di un pieno consenso scientifico. Alcuni studi recenti sfidano apertamente le tesi di Ekman. Carlos Crivelli ha condotto una ricerca su emozioni ed espressioni facciali in Papua Nuova Guinea. I soggetti cui veniva chiesto cosa vedessero nella foto di una faccia con occhi sgranati e bocca spalancata (tipica espressione di paura per la cultura occidentale) rispondevano di non riconoscere in essa un volto spaventato ma piuttosto un’intenzione malevola, di minaccia e aggressione. O quando veniva mostrata la foto di una faccia sorridente solo una piccola percentuale di soggetti rispondeva che esprimesse gioia. Circa la metà di loro interpretava quell’espressione in termini di azioni, come ad esempio ridere, piuttosto che di stati interni. Sulla base dei dati di questo studio è possibile contestare almeno due punti della teoria classica sulla espressione facciale delle emozioni: primo, forse non è vero che il riconoscimento delle emozioni attraverso le espressioni del viso è universale e dunque indipendente dalle differenze culturali; secondo, forse non è vero che le espressioni facciali riflettono le emozioni degli individui.

Ma se le espressioni del nostro viso non riflettono le nostre emozioni allora cosa segnalano? Una tesi intrigante è che le nostre facce servano a mostrare le nostre intenzioni e le nostre motivazioni sociali, i nostri scopi. La direzione, la piega che desideriamo dare all’interazione in corso.
Per approfondimenti:

Crivelli C. and Fridlund A. J., (2018), Facial Displays Are Tools for Social Influence, Trends in Cognitive Sciences, May 2018, Vol. 22, No. 5

Mindfulness, Controllo esecutivo e regolazione delle emozioni

di Daniele Ferrari
a cura di Mauro Giacomantonio

Nel corso degli ultimi decenni la particolare pratica meditativa chiamata Mindfulness ha stabilmente guadagnato popolarita’ nella cultura occidentale, diventando anche argomento di studi delle scienze psicologiche.
La Mindefulness comprende due sfaccettature: l’attenzione al momento presente e l’accettazione non giudicante di emozioni e pensieri.

I benefici sulla regolazione delle emozioni nel praticare la Mindfulness sono ben documentati, ma il come riesca a migliorare questa capacità non è ancora del tutto chiaro.

Un nuovo collegamento tra la Mindfulness e il miglioramento dell’abilità di regolazione emotiva potrebbe essere rappresentato dal ruolo svolto dal controllo esecutivo (la capacità di attuare un comportamento diretto verso l’obiettivo, mettendo in atto complessi processi mentali e abilità cognitive).

Nello specifico, il suggerimento è che l’attenzione al momento presente e l’accettazione non giudicante, coltivati dalla pratica meditativa, siano cruciali nella promozione del controllo esecutivo perchè icrementano la sensibilita’ ai piccoli segnali emotivi che vengono esperiti (ad es. la ‘fitta’ d’ansia,  rapida e sfuggente, preconscia, che si prova dopo aver commesso un errore). Questa raffinata sintonizzazione e apertura ai sottili cambiamenti favorisce il controllo. In che modo?

Meditare non è un processo di svuotamento della mente, una sospensione dal “sentire”, al contrario, tende a un sentire più chiaro,  l’adozione di una mentalità aperta e non giudicante agisce sulla relazione della persona con le proprie emozioni (considerate ora come eventi mentali transitori piuttosto che riflessi della realtà) e non sulla natura delle emozioni stesse, migliora la capacità di elaborare in modo più adattivo le informazioni emozionali ed a non utilizzare strategie di regolazione emozionale disfunzionali, come l’evitamento, il rimuginio o la soppressione.

La percezione più nitida della discrepanza esistente tra la rappresentazione dello stato attuale e quella dello stato desiderato aiuta a reclutare il controllo esecutivo e, di conseguenza, la capacità di fare aggiustamenti e migliorare la gestione della nostra condotta, attraverso un lavoro di approssimazioni successive tra Attenzione e Accettazione.

Le persone in grado di sentire e accettare l’iniziale “fitta” emotiva saranno anche in grado di mobilitare più rapidamente le risorse di regolazione necessarie, minimizzando le conseguenze negative associate a reazioni emotive irruenti.
Se ad esempio una persona ha come scopo la gestione della propria rabbia, il riconoscimento (chiaro e in anticipo) dello stato fisiologico transitorio (battito cardiaco accelerato), segnala il possibile fallimento dello scopo “gestione rabbia”, innescando il veloce reclutamento delle necessarie risorse regolatorie.

Quali altre conseguenze ipotetiche ci possono essere come conseguenza  di un miglior controllo esecutivo?

Quando i segnali emotivi cessano di essere adattivi diventando reazioni  disadattive ?

La consapevolezza migliora l’esperienza emotiva o consente una maggiore precisione di lettura?

Tra i molteplici effetti della Mindfulness, considerando gli interrogativi che si generano nel tentativo di comprendere i meccanismi che la sottendono, possiamo includere, senza dubbio, lo stimolo alla ricerca scientifica.

 

Per l’ampia bibliografia riferirsi alla pubblicazione originale:

Teper, Segal, & Inzlich, Inside the Mindful Mind, 2013.
http://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/0963721413495869