L’amore (im)perfetto

di Miriam Miraldi

Il disturbo ossessivo-compulsivo nella relazione sentimentale

Il Disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è, per sua natura, la psicopatologia del dubbio: il dubbio di non aver chiuso il gas, di aver lasciato aperta la porta di casa, di essere una persona immorale, di potersi essere contaminato, di poter aver danneggiato qualcuno.
Ma cosa succede quando il dubbio riguarda il proprio partner e il valore della stessa relazione sentimentale?

Accade che talvolta il pensiero ossessivo possa rivolgersi specificatamente a questo tema, portando la persona a interrogarsi e a ruminare per ore, domandandosi se il partner scelto sia davvero la persona giusta per sé, se si prova “il vero amore” o se la relazione sia realmente virtuosa, così “come dovrebbe essere”: parliamo in questo caso di disturbo ossessivo compulsivo da relazione o ROCD (Relationship Obsessive Compulsive Disorder).

Il dubbio sulla perfezione dell’amore spinge a gestire questi pensieri ossessivi con sfinenti richieste di rassicurazione (al partner, ma anche ad altre persone significative) e con controlli o checking di varia natura, che possono riguardare: 

  • il partner, controllando che sia disponibile, amorevole e premuroso, ma anche che sia sempre in ordine, socievole, performante e intelligente (sottoponendolo, per esempio, a verifiche estemporanee, test d’intelligenza, problemi di logica); 
  • sé stessi, valutando la forza dei propri sentimenti, monitorando continuamente se, per esempio, alla vista del partner “si prova ciò che si dovrebbe provare”, se si sentono le farfalle nello stomaco, se ci si emoziona quando si riceve un messaggino al cellulare dal partner o anche verificando – di contro – che non si provino tali emozioni per altre persone; 
  • la relazione, chiedendosi se è davvero profonda e valida, sottoponendola a continui confronti con relazioni di altre coppie conosciute e percepite come soddisfatte e felici, o addirittura paragonandola a un ideale di relazione che deriva da luoghi comuni, affermazioni sentite da altri, letture di romanzi o di riviste.A differenza delle altre forme di disturbo ossessivo compulsivo, che vedono la persona affrontare il problema più con sé stessa (pur richiedendo eccessive rassicurazioni ad altri sui propri dubbi e compromettendo talvolta, per questo, le relazioni), nel DOC da relazione c’è un forte impatto interpersonale diretto perché l’oggetto del dubbio è l’altro e la relazione con l’altro. Il partner può sentirsi sempre chiamato a dare conferme, controllato, giudicato, percependo di non essere all’altezza e sentendo che tutto ciò che fa per l’amato non è mai abbastanza, sperimentando vissuti di frustrazione che minano il buon andamento del rapporto sentimentale. Si attiva, dunque, un circolo vizioso: partendo dal dubbio che la relazione possa non essere “perfetta”, il soggetto può sottoporla a talmente tanti attacchi, test e verifiche, da stressarla e minarne la tenuta. Il dubbio è egodistonico: la persona stessa che lo vive non si sente in sintonia con questo tipo di pensiero; inoltre il soggetto percepisce di continuo autocritica ed emozioni negative, per lo più connesse da un lato alla colpa – sperimentata anche verso il partner, a causa delle continue allusioni di inadeguatezza mosse nei suoi riguardi – e dall’altro alla tristezza e alla delusione, rispetto al fatto che le cose non sono mai “come sarebbero dovute essere”. Il concetto di “bene perduto”, tipico dell’emozione di tristezza, corrisponde qui all’ideale di amore perfetto. Ad esempio Francesco, che già da tempo aveva pensieri ossessivi circa la bontà della sua relazione sentimentale, aveva talmente fantasticato su ciò che aveva sentito dire rispetto a come sarebbe dovuta essere la prima settimana da sposati, sviluppando una serie di credenze assolutistiche in merito, che fu poi profondamente deluso nel constatare che la compagna non gli avesse fatto almeno una sorpresa al giorno, che non gli avesse cucinato i suo i piatti preferiti o che non fossero stati sempre e costantemente in uno stato di totale e immutabile euforia. Questo lo aveva portato a ruminare più del solito sul dubbio che quella relazione non fosse quella giusta, facendolo sentire responsabile della potenziale infelicità propria (colpa verso di sé) e della partner (colpa verso l’altro). Lo psicologo e psicoterapeuta Gabriele Melli e colleghi, in una recente ricerca condotta nel 2018 su 124 soggetti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo da relazione, hanno riscontrato che le convinzioni catastrofiche sull’essere nella relazione sbagliata sono predittori significativi del disturbo ossessivo compulsivo centrato sulla relazione (ROCD relationship-centered) e che, insieme alle preoccupazioni perfezionistiche, favoriscono il mantenimento dei sintomi del disturbo stesso; inoltre, queste persone mostrano una propensione a interpretare gli “errori” comuni che possono verificarsi in una rapporto (ad es. conflitto o incomprensione) come fallimenti, aumentando i dubbi e le preoccupazioni sulla bontà della relazione; per quanto riguarda invece il disturbo ossessivo compulsivo centrato sul partner (ROCD partner-focused), gli autori suggeriscono che le convinzioni più forti a esso associate sono le paure catastrofiche di essere nella relazione sbagliata: da un lato i pazienti descrivono la paura di rimpiangere di aver deciso di stare con il partner sbagliato (nell’idea che forse fuori, nel mondo, c’è un partner migliore in attesa); d’altra parte, temono di pentirsi qualora dovessero lasciare il partner con cui si trovano (nell’idea, cioè, che forse l’attuale partner sia il vero amore della vita).

    I ricercatori israeliani Guy Doron e Danny Derby, in uno dei loro studi sul tema, parlano di “amore contaminato” e per trattare questo disturbo propongono interventi di tipo cognitivo-comportamentale che vanno nella direzione dell’accettazione del “bene perduto”, ovvero accettazione della perdita dell’amore ideale in favore di uno reale, che non deve e non può essere perfetto in senso assoluto ma deve essere soddisfacente per chi lo vive, favorendo la capacità di includere ed accogliere anche elementi di imperfezione.

    Per approfondimenti:

    Melli, G., Bulli, F., Doron, G., & Carraresi, C. (2018). Maladaptive beliefs in relationship obsessive compulsive disorder (ROCD): Replication and extension in a clinical sample. Journal of obsessive-compulsive and related disorders18, 47-53.

    Doron, G., Derby, D. S., & Szepsenwol, O. (2014). Relationship obsessive compulsive disorder (ROCD): A conceptual framework. Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders3(2), 169-180.

    Doron, G., Derby, D. S., Szepsenwol, O., & Talmor, D. (2012). Tainted love: Exploring relationship-centered obsessive compulsive symptoms in two non-clinical cohorts. Journal of Obsessive-Compulsive and Related Disorders1(1), 16-24.

L’arte del perdono

di Emanuela Pidri

Un valido ed efficace strumento terapeutico che riduce ansia e ruminazione

Il perdono non è oblio, non è negazione del torto, non è giustificazione, non è rassegnazione a subire e non significa necessariamente riconciliarsi. Se si considera la parola “perdono”, si nota come sia composta di un prefisso rafforzativo “per”, cioè super, e dalla parola “dono” cioè regalo. Il perdono, dunque, come grande regalo, come atto di magnanimità con cui la vittima rimette il debito a chi lo ha offeso o ingiustamente danneggiato e riconosce al colpevole la sua dignità di essere umano e dunque il suo diritto a non essere escluso e disprezzato.

In psicologia, il perdono rappresenta un complesso fenomeno affettivo, un meccanismo sociale importante in quanto mezzo per recuperare un rapporto che viene compromesso restaurando la fiducia. I modelli psicologici del perdono sono raggruppabili in tre gruppi: 1) i modelli evolutivo-cognitivi evidenziano il passaggio, con la crescita, da un perdono vendicativo a uno compensativo fino a raggiungere forme più alte di perdono basate sull’armonia sociale e sull’amore; 2) i modelli processuali  delineano i percorsi e le dinamiche delle componenti cognitive, emotive e comportamentali che vengono messi in atto durante il perdono; 3) i  modelli psico-sociali inseriscono il perdono all’interno delle dinamiche relazionali il cui scopo è quello di evitare comportamenti distruttivi a favore di azioni in grado di favorire il benessere relazionale. La psicologia pone attenzione al tema del perdono solo dopo aver riscontrato i numerosi benefici raggiunti rispetto al benessere mentale che si riesce a raggiungere quando si arriva a perdonare qualcuno per il torto subito e ad andare avanti senza più rimuginare sul rancore provato. Un ulteriore impulso è stato dato dalla psicofisiologia e dagli studi di neuroimaging che che studiano le basi biologiche sottostanti. Il perdono è stato inoltre impiegato come strumento educativo con buoni risultati e ha anche dimostrato di essere benefico per le vittime di abusi e infedeltà. Il processo del perdono è il risultato di un lungo lavoro psicologico: nel perdonare le emozioni e il giudizio negativo nei confronti di chi ci ha fatto del male vengono alleviati e sostituiti da atteggiamenti di compassione. La ricerca in psicologia ha esplorato e identificato diverse variabili individuali e sociali da cui dipenderebbe la tendenza al perdono: connessione tra aumento dell’età e propensione al perdono (infatti  le persone più anziane sono più inclini a perdonare);  soggetti con tratti più ansiosi, narcisisti, depressi e ostili risultano meno inclini al perdono; intimità, fiducia e empatia favoriscono il perdono che correla positivamente alla percezione di controllo sull’ambiente e alla riparazione di un senso di potere personale. La “Terapia del Perdono” prevede: la riflessione su situazioni del passato in cui il paziente ritiene di essere stato trattato ingiustamente o crudelmente riconoscendo tali ingiustizie; la comprensione che il dolore emotivo è il passo successivo e naturale quando si reagisce alle ingiustizie; la consapevolezza che se non si trova una soluzione al dolore emotivo, il paziente continuerà ad essere arrabbiato per questa situazione e il dolore persisterà, sviluppando quella che viene chiamata “rabbia malsana”, una rabbia profonda capace di influenzare il sonno, i pensieri e i comportamenti ed indurre gravi sintomi depressivi e di ansia. Il modello dello psicologo statunitense Everett Worthington identifica effetti diretti del perdono sulla salute mentale in termini di riduzione dei sentimenti di rivalsa, riduzione di stress e ansia, riduzione della ruminazione e dei pensieri intrusivi che coinvolgono emozioni di risentimento, ostilità, rabbia e paura. È dimostrato, inoltre, un calo della pressione cardiaca, la riduzione di sintomi depressivi e la presenza di sintomi psicosomatici. In psicoterapia, il perdono sembra essere un valido strumento per combattere l’autocritica, la depressione, atti di autolesionismo e differenti forme di dipendenza e per il trattamento di particolari gruppi di soggetti, come donne che hanno abortito, individui vittime di abusi sessuali, familiari di alcolisti o di disabili, coppie in crisi o separate, malati terminali. 

Per approfondimenti: 

Barcaccia B. Mancini F. (2013) Teoria e Clinica del Perdono. Raffaello Cortina Editore
McCullough M.E & Witvliet C., The Psychology of Forgiveness.
McCullough M.E. Forgiveness as human strength: Conceptualization, measurement and links to well-being. J of Soc and Clin Psychology, 19, 43-55.

Ruminazione rabbiosa e disimpegno morale

di Miriam Miraldi

In assenza di standard morali adeguati, capaci di guidare il buon comportamento, l’individuo tende a giustificare i propri comportamenti aggressivi

L’aggressività è un comportamento considerato un rilevante problema sociale e dunque, date le sue evidenti conseguenze negative, è di importanza oltre che teorica anche pratica esplorare quei fattori che possono contribuire a un suo incremento. Oggetto di studio in tal senso è l’emozione di rabbia, la quale viene distinta in letteratura come rabbia “di tratto”, vale a dire una caratteristica personologica stabile nel tempo, e rabbia “di stato”, cioè una condizione emotiva esperita in un momento dato. La rabbia predice i comportamenti aggressivi e alcuni studiosi hanno rilevato come, tra le due, la rabbia di tratto sia più incisiva di quella di stato su questo tipo di condotte. Gli individui che hanno alti livelli di rabbia di tratto hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti aggressivi.

Il concetto di “ruminazione rabbiosa” (AR, Anger Rumination) si riferisce alla tendenza a concentrarsi e a reiterare – anche per un tempo prolungato – stati d’animo, esperienze, ricordi passati legati alla rabbia. Alcuni studi hanno dimostrato che essa abbia un ruolo nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’auto-controllo e della capacità di tolleranza di condizioni spiacevoli, e nella messa in atto di comportamenti aggressivi, sia fisici sia verbali. Le ricerche finora effettuate hanno considerato il rapporto diretto tra rabbia e aggressività, ma è utile anche studiare i meccanismi di mediazione e moderazione: è chiaro che la rabbia di tratto è associata all’aggressività, ma la misura in cui le variabili intervengono mediando questa relazione è meno studiata. Secondo il modello di aggressione generale (GAM) di Craig Anderson e Brad Bushman, le persone agiscono in modo aggressivo sulla base dell’interazione tra vari livelli: fattori personali e situazionali, stati interni ed esiti dei processi di valutazione e decisionali. In particolare, i fattori personali (per esempio tratti di personalità e atteggiamenti) interagiscono con fattori situazionali (per esempio ricevere un insulto) per creare uno stato interno composto da cognizioni (come pensieri ostili), emozioni e attivazione fisiologica. Lo stato interno a sua volta influenza valutazioni e processi decisionali che possono o meno determinare una risposta aggressiva, cioè la rabbia di tratto (come fattore personale) potrebbe influenzare la propensione degli individui all’aggressività attraverso l’innesco di pensieri aggressivi e una crescente attenzione selettiva su eventi provocatori. Alcuni teorici hanno affermato che gli individui con alti livelli di rabbia di tratto hanno una maggiore tendenza alla ruminazione rabbiosa, la quale può contribuire a un aumento dell’aggressività. 

Oltre la ruminazione, un’altra variabile predittiva di comportamenti aggressivi molto studiata, in particolare da Albert Bandura, è il disimpegno morale (MD, Moral Disengagement): esso si riferisce a uno schema psicologico capace di “disconnettere” selettivamente le auto-sanzioni morali apprese, trasformandole in contenuti socialmente accettabili e giustificabili, liberando così l’individuo da sentimenti di autocondanna e colpa. Secondo la teoria del disimpegno morale, la maggior parte delle persone ha sviluppato standard morali personali capaci di guidare il buon comportamento e scoraggiare le condotte aggressive. Pertanto, gli individui di solito si comportano in modo coerente con i loro standard morali interni; tuttavia, questo processo di autoregolazione può essere disattivato in modo selettivo, nel momento in cui viene meno il rispetto delle norme, attraverso il disimpegno morale, che ricostruisce cognitivamente i comportamenti aggressivi in modo tale da renderli poco (o per nulla) sbagliati e dannosi per gli altri.

Partendo dalle conoscenze fin qui acquisite sulla ruminazione rabbiosa e sul disimpegno morale, Xingchao e colleghi hanno condotto uno studio su 646 giovani cinesi, i quali hanno completato questionari che misurano rabbia di tratto, ruminazione rabbiosa, disimpegno morale e aggressività. È emerso che la rabbia di tratto risulta positivamente associata all’aggressività e che la ruminazione rabbiosa media questa relazione. Il disimpegno morale funziona come moderatore sia nella relazione ruminazione rabbiosa/aggressività, sia nella relazione rabbia di tratto/aggressività. È interessante notare che la relazione significativa tra ruminazione e aggressività sembra essere presente solo tra individui con elevato disimpegno morale. Pertanto, il disimpegno morale è un fattore di rischio che rafforza gli effetti negativi della rabbia di tratto e della ruminazione rabbiosa sul comportamento aggressivo. Intervenire per abbassare i livelli di disimpegno morale potrebbe indebolire l’associazione tra rabbia e aggressività, nonché tra ruminazione e aggressività.

In sintesi, lo studio ha portato a due considerazioni importanti: 1) la ruminazione rabbiosa ha un ruolo cardine nella relazione tra rabbia e aggressività e può ulteriormente compromettere le capacità di autoregolazione e di risoluzione della rabbia, a causa della concentrazione prolungata su stati d’animo rabbiosi e su pensieri aggressivi; 2) la relazione tra ruminazione rabbiosa e aggressività non è significativa negli individui con basso disimpegno morale: questo risultato può essere spiegato dalla teoria del disimpegno morale secondo cui gli individui con disimpegno morale alto possono usare molte potenziali spiegazioni per razionalizzare e giustificare i loro comportamenti aggressivi. Al contrario, gli individui con basso disimpegno morale hanno poche probabilità di autoassolversi giustificando i loro comportamenti aggressivi.

A livello di intervento, i programmi che cercano di ridurre la ruminazione rabbiosa andranno particolarmente a beneficio di quelle persone che presentano livelli più alti di disimpegno morale.

Per approfondimenti:

Wang, X., Yang, L., Yang, J., Gao, L., Zhao, F., Xie, X., & Lei, L. (2018). Trait anger and aggression: A moderated mediation model of anger rumination and moral disengagement. Personality and Individual Differences125, 44-49.

Caprara, G. V., Tisak, M. S., Alessandri, G., Fontaine, R. G., Fida, R., & Paciello, M. (2014). The contribution of moral disengagement in mediating individual tendencies toward aggression and violence. Developmental Psychology50(1), 71.

Desistere dagli obiettivi irraggiungibili

di Giovanni Davì
a cura di Mauro Giacomantonio

Quando la ruminazione costituisce un ostacolo

You can’t always get what you want” cantano i Rolling Stone. Non sempre si può ottenere ciò che si vuole. Se la perseveranza e la tenacia sono due virtù molto apprezzate ed enfatizzate dall’odierna società, lo è anche una certa capacità di autoregolazione del proprio comportamento, che permetta di desistere dagli obiettivi che non vale più la pena di perseguire.

In un articolo pubblicato da Van Randenborgh e colleghi nel 2010 viene analizzato uno dei meccanismi che potrebbero ostacolare questa importante capacità di autocontrollo: la ruminazione, un modo di pensare associato al mantenimento di emozioni negative e caratterizzato da pensieri ripetitivi, focalizzati sui propri sintomi e sulle loro conseguenze. I ricercatori hanno dimostrato che le persone inclini a ruminare e che quindi presentano difficoltà a distogliere il proprio pensiero da obiettivi insoddisfatti e fallimenti del passato, mostrano difficoltà anche nel desistere da mete irraggiungibili nel presente. Per fare ciò hanno predisposto due studi. Nel primo i partecipanti hanno tentato di risolvere degli anagrammi, alcuni dei quali senza soluzione, ed è stata valutata la loro predisposizione ad attività di ruminazione. È risultato che i soggetti con una maggiore tendenza a ruminare presentavano al contempo una maggiore difficoltà a tralasciare gli anagrammi irrisolvibili. Il secondo studio prevedeva anch’esso la risoluzione di un set di anagrammi, alcuni dei quali impossibili da risolvere, ma i partecipanti sono stati assegnati a due differenti gruppi: nel primo (gruppo “ruminazione”), i soggetti, precedentemente lo svolgimento del compito, venivano indotti ad attività ruminativa attraverso la lettura di frasi elaborate in modo da dirigere i loro pensieri verso i loro sentimenti e la loro situazione personale (ad esempio, “pensa alle aspettative che la tua famiglia ripone in te”); nel secondo (gruppo “distrazione”), le frasi non avevano alcuna relazione con il sé (“pensa alle parti che compongono un’auto”). È stato riscontrato come i soggetti del primo gruppo abbiano avuto maggiori difficoltà a desistere dal risolvere gli anagrammi irrisolvibili.

I risultati ottenuti consentono, inoltre, di approfondire la comprensione del ruolo della ruminazione nello sviluppo e nel decorso di condizioni psicopatologiche come la depressione. L’attività ruminativa, ostacolando il disimpegno da obiettivi irrealizzabili, impedisce che l’individuo possa impegnarsi su mete più realistiche e magari più gratificanti; il mancato disinvestimento da mete irraggiungibili potrebbe contribuire all’insorgere di una condizione depressiva. Interessante è anche la possibile funzione moderatrice che la ruminazione svolgerebbe tra la depressione e il disimpegno dagli obiettivi non raggiungibili. Per gli individui non inclini a ruminare, la depressione può rivelarsi utile nel disimpegnarsi dalle mete irraggiungibili. Il contrario accade con i soggetti che presentano una forte tendenza alla ruminazione; di conseguenza, non ci sarà un reinvestimento degli sforzi in obiettivi più realistici, impedendo loro di sperimentare un possibile successo ed ostacolando in tal modo una ripresa dalla sintomatologia depressiva.

Ad esempio, a volte ci si innamora non essendo ricambiati. Una condizione che porta a fare l’esperienza del rifiuto, la quale alimenta un sentimento di tristezza (depressione). La tendenza a ruminare porta a farsi costantemente domande del tipo “perché è successo a me?”, “perché nessuno mi vuole?”, “perché questa persona non ricambia i miei sentimenti?”, impedendo di disinvestire da un obiettivo che si rivela irraggiungibile e non concedendo a sé stessi, ad esempio, l’opportunità di conoscere nuove persone che sarebbero in grado di far provare quelle esperienze gratificanti che potrebbero contribuire ad una ripresa dalla condizione depressiva.

Per approfondimenti:

Van Randenborgh A., Hüffmeier J., LeMoult J. e Joormann J. (2010), Letting go of unmet goals: does self-focused rumination impair goal disengagement? Motivation and Emotion 34: 325-332.

Più ti giudichi peggio ti senti

di Emanuela Pidri 

L’effetto paradossale della valutazione negativa dei propri vissuti emotivi

La consapevolezza è uno stato mentale vigile che consente di osservare lo scorrere dell’esperienza interiore momento dopo momento e in modo non giudicante. Essere consapevoli significa orientare la propria attenzione a stimoli esterni e interni, nel “qui e ora”, in modo che nessuno sia sopraffatto dalla veemenza di pensieri, emozioni e sensazioni né sia guidato nelle proprie azioni e scelte dai propri contenuti cognitivi ed emotivi. Le pratiche di consapevolezza, conosciute con il termine “Mindfulness”, sono state applicate nel trattamento di pazienti con differenti quadri clinici, migliorandone la capacità di decentramento. Diversi studi hanno dimostrato che la consapevolezza è significativamente correlata al benessere emotivo; al contrario, avere un atteggiamento critico e giudicante verso i propri pensieri, emozioni, comportamenti è associato a psicopatologia. Le ricerche presenti in letteratura dimostrano come la ruminazione sia predittiva e mantenga il disturbo depressivo mentre la preoccupazione predice e mantiene il disturbo ansioso. Partendo da tali presupposti, si è studiato il ruolo della consapevolezza in correlazione con la ruminazione e la preoccupazione nello sviluppo di depressione o ansia. Uno studio guidato dalla psicoterapeuta Barbara Barcaccia esplora quali sfaccettature della consapevolezza siano implicate nell’associazione con ruminazione e preoccupazione, predicendo e mantenendo depressione e ansia. A 274 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 74 anni sono stati somministrati il Five Facet Mindfulness Questionnaire, il Beck Depression Inventory, lo State-Trait Anxiety Scale, il Penn State Worry Questionnaire, il Ruminative Response Scale. Dall’analisi dei risultati si evince che la ruminazione e la preoccupazione sono strategie di coping disfunzionali coinvolte nell’esacerbazione e nel mantenimento di depressione e ansia. Anche la consapevolezza correla con ruminazione e preoccupazioni poiché il semplice atto di osservare i propri stati interiori può essere associato a un aumento di emozioni negative. Nello specifico, gli individui in grado di osservare i propri stati mentali tendono a preoccuparsi e ruminare in misura maggiore. Si nota una paradossalità: la consapevolezza aiuta le persone a riconoscere e, in seguito, a rompere i cicli ruminativi abituali, impedendo loro di rimanere intrappolati nella sofferenza; tuttavia, una sua componente aumenta la ruminazione e la preoccupazione e la probabilità di sviluppare ansia o depressione. Ciò significa che essere in grado di osservare i propri pensieri e sentimenti non equivale ad accettarli, né è di per sé vantaggioso, a meno che non si abbia un atteggiamento accettante e non giudicante. Individui consapevoli ma con atteggiamenti giudicanti verso le proprie esperienze interiori mostrano livelli più alti di ruminazione e preoccupazione. L’associazione tra autocritica o giudizio negativo verso sé e sviluppo di ansia o depressione è coerente con le teorie cognitive, rispetto le quali l’autocritica gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della psicopatologia, mentre la consapevolezza in termini di riconoscimento, osservazione e accettazione non giudicante della propria vita interiore è legata al benessere. Quando le persone criticano sé stesse e i loro sentimenti, pensieri ed emozioni, sperimentano livelli più alti di sofferenza. Un’implicazione clinica interessante dei risultati dello studio di Barcaccia potrebbe riguardare la possibilità di considerare l’autocritica come un meccanismo transdiagnotico di predittività e cronicizzazione della sofferenza, a cui il clinico deve porre attenzione nel piano di intervento psicoterapeutico. Il trattamento dovrà prevedere una fase di normalizzazione e accettazione non giudicante dei pensieri negativi, immagini mentali, sentimenti ed emozioni, obiettivo che potrebbe essere raggiunto sia dalla ristrutturazione cognitiva classica che da interventi e pratiche Mindfulness.

Per approfondimenti:

Barcaccia B. et al., (2019). The more you judge the worse you feel. A judgemental attitude towards one’s inner experience predicts depression and anxiety. Personality and Individual Differences 138, 33-39.

Scopi e funzioni della ruminazione

di Roberta Trincas, Chiara Schepisi, Estelle Leombruni, Valentina Emilia Di Mauro, Francesco Mancini

Abstract dell’articolo “Goals and functions of rumination: a review”, pubblicato su Clinical Neuropsychiatry

La ruminazione è un processo di pensiero ripetitivo e abituale che riguarda generalmente un tema specifico, ed è implicato nello sviluppo e nel mantenimento di diverse psicopatologie. Considerando che ha un ruolo critico nella psicopatologia, lo studio delle funzioni e degli scopi della ruminazione ha suscitato notevole interesse negli ultimi anni di ricerca nel campo. Le motivazioni che hanno spinto l’interesse verso la conoscenza degli scopi della ruminazione deriva da prove empiriche che dimostrano che il pensiero ripetitivo può essere adattivo e che la ruminazione si osserva comunemente anche in popolazioni non cliniche.

In linea con questa prospettiva, lo scopo di questa revisione è costruire un modello esaustivo della ruminazione coerente con l’idea che tale processo sia guidato da scopi. A tal fine, sono stati analizzati criticamente i modelli teorici più rilevanti e gli studi sulla ruminazione al fine di identificare potenziali indicatori del ruolo della ruminazione all’interno del sistema di scopi individuale.

Sulla base delle evidenze attuali, la ruminazione sembra avere la funzione di riflettere su eventi o situazioni che possono ostacolare il raggiungimento di scopi (o scopi di evitamento) al fine di favorire il perseguimento di scopi rilevanti. In particolare, la ruminazione si associa a obiettivi di livello intermedio nella gerarchia. In altre parole, focalizzandosi ripetutamente su un evento, su sensazioni fisiche o emozioni legate a un obiettivo non raggiunto, l’individuo cercherebbe di superare eventuali ostacoli per raggiungere lo scopo terminale desiderato.

L’analisi presentata nell’articolo  (http://www.clinicalneuropsychiatry.org/pdf/6CN18-6trincasetal..pdf) pubblicato sul numero di dicembre della rivista Clinical Neuropsychiatry (http://www.clinicalneuropsychiatry.org/#) ripercorre le principali teorie sull’argomento (Nolen-Hoeksema, Borkovech, Wells, Davey, Watkins), estrapolando le principali funzioni della ruminazione e delineando un modello scopistico all’interno del quale tale processo avrebbe un ruolo adattivo.

Per approfondimenti:

Clinical Neuropsychiatry – n. 6 December – 2018
http://www.clinicalneuropsychiatry.org/#

Articolo “Goals and functions of rumination: a review”
http://www.clinicalneuropsychiatry.org/pdf/6CN18-6trincasetal..pdf

SITCC 2018 – Ruminazione: caratteristiche, funzioni e trattamento

di Gilda Franceschini

Durante la mattinata del 22 settembre, nell’ambito del XIX congresso nazionale SITCC, svoltosi nella sede del polo universitario Giorgio Zanotto di Verona, si è tenuto il simposio dal titolo “Ruminazione: caratteristiche, funzioni e trattamento”, in cui il tema della ruminazione è stato esplorato nei suoi diversi aspetti: da un inquadramento del fenomeno nell’ambito degli studi presenti in letteratura, ad una focalizzazione sulle sue funzioni, dunque sul suo rapporto con gli scopi dell’individuo, fino agli aspetti legati al trattamento.
Il simposio ha visto nel ruolo di chair e discussant il Professor Gabriele Caselli, psicologo e psicoterapeuta, docente presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva “Studi cognitivi” e presso la Sigmund Freud University, che ha aperto dando la parola alla prima relatrice, la dottoressa Chiara Schepisi, della Scuola di Psicoterapia Cognitiva, sede di Grosseto, la quale ha presentato un’interessante e puntuale review sugli scopi e sulle funzioni della ruminazione. Nel suo intervento particolare rilevanza è stata data alle teorie che illustrano le funzioni della ruminazione e all’analisi di modelli teorici e prove sperimentali con l’obiettivo di individuare il ruolo che tale processo di pensiero svolge all’interno del sistema scopistico dell’individuo. Dalle evidenze scientifiche prese in esame è emerso che la funzione per cui gli individui utilizzerebbero la ruminazione è quella di riflettere su ciò che compromette il raggiungimento di uno scopo rilevante.
Subito dopo è intervenuta la dottoressa Rosanna De Carlo, allieva presso la scuola SPC di Roma, che ha presentato un lavoro di ricerca teso ad indagare l’ipotesi secondo cui ad attivare la ruminazione sarebbe il fallimento in un compito irrilevante che risulta compromettente per uno scopo personale di alto livello. Ha dunque descritto il paradigma sperimentale e gli interessanti risultati circa il potere della rassicurazione nel ridurre parzialmente la ruminazione; ed in particolare il fatto che i soggetti con un’alta tendenza alla ruminazione e alla depressione ruminavano più sul valore di ordine superiore potenzialmente compromesso, che sull’evento di fallimento in sé.
La parola è poi passata alla dottoressa Roberta Trincas, psicoterapeuta e docente presso la scuola SPC di Roma, che ha concentrato il suo intervento sull’aspetto del trattamento. Il protocollo terapeutico descritto è stato quello della Rumination Focused Therapy, che, nel suo porre attenzione ad un’analisi precisa delle diverse funzioni della ruminazione in relazione a differenti contesti, abbraccia una prospettiva in linea con il modello scopistico; ha inoltre discusso un caso clinico trattato secondo i principi della RFCBT.
Infine è intervenuta la dottoressa Olga Ines Luppino, psicoterapeuta e docente presso la scuola SPC di Roma, che ha presentato uno studio pilota finalizzato a valutare l’efficacia della Rumination Focused CBT in un gruppo di 6 pazienti con diagnosi di ansia e depressione, nei quali è stata riscontrata una riduzione dei livelli di ruminazione in seguito all’intervento esplicitatosi in 10 sedute di gruppo a cadenza quindicinale, dato in linea con studi recenti, tra i quali quelli del dr <watkins del 2016, che hanno dimostrato l’efficacia del trattamento della ruminazione nell’ambito dell’esperienza di gruppo.

Al termine delle presentazioni delle relatrici, il professor Caselli ha posto delle domande stimolando un dibattito rispetto ai possibili risvolti clinici della concettualizzazione della ruminazione intesa come connessa agli scopi dell’individuo, e ci si è poi confrontati sull’importanza di affiancare ad interventi comportamentali, ispirati ai principi dell’analisi funzionale, come previsto dal protocollo della RFCBT, un’indagine accurata sui significati personali attribuiti ai trigger di innesco del pensiero ruminativo e sulla natura storica degli scopi rispetto alla compromissione dei quali si attiva la ruminazione.

Ruminatori si diventa?

di Daniela Fagliarone

Il ruolo dei comportamenti genitoriali nello sviluppo della ruminazione

Negli ultimi anni il concetto di ruminazione ha assunto notevole importanza nella ricerca psicologica per il suo contributo nello sviluppo dei disturbi depressivi. È stato dimostrato come la ruminazione predica la depressione negli adulti e negli adolescenti. Vediamo da vicino di cosa si tratta: è una catena di pensieri, quesiti generici e astratti che una persona inizia a porre a se stessa in risposta a uno stato emotivo di tristezza o di umore depresso, sulle sue cause, significati e conseguenze (es. “Perché succede a me”?; “Perché mi sento così triste”?; “Perché reagisco sempre in questo modo”?, ecc.). Lo sviluppo della ruminazione è stato collegato allo stile genitoriale, anche se finora è un ambito di ricerca poco investigato. La studiosa che negli ultimi anni si è più interessata dello sviluppo di questo fenomeno è stata Susan Nolen-Hoeksema, che fu professoressa e ricercatrice dell’Università di Yale. Secondo la sua Response Styles Theory, la ruminazione esacerba l’umore depresso, le ragazze e le donne adulte tendono a ruminare di più rispetto agli uomini e questo può spiegare la differenza di genere nella prevalenza femminile dei disturbi depressivi.
Alcuni comportamenti genitoriali possono favorire lo sviluppo della ruminazione nei figli e nelle figlie in particolare: dato che i figli di madri depresse tendono ad avere difficoltà nel regolare i loro stati affettivi negativi, la tendenza a ruminare può essere trasmessa via modelling (apprendimento indiretto che avviene copiando i comportamenti dei genitori che funzionano da modello) e attraverso frequenti critiche e comportamenti controllanti (perché non spingono il bambino a sviluppare strategie di coping attive, di fronteggiamento degli stati emotivi e degli eventi negativi  e lo portano a prediligere uno stile passivo). Un altro autore interessato a questo argomento, Michael Gate, ricercatore all’Università di Melbourne, ha suggerito che le attività di problem solving attive che non vengono rinforzate positivamente dai genitori, ad esempio attraverso una lode: anche se sono comportamenti adattivi tendono a essere meno ripetuti e a non continuare nel tempo. Di conseguenza, bassi livelli di comportamenti positivi dei genitori verso i figli possono portare a modalità passive di risposta, come la ruminazione. In uno studio recente, Douglas e colleghi hanno esplorato la relazione tra la ruminazione in ragazze adolescenti e la ruminazione materna, con particolare riferimento al “criticismo” e alla “positività”. Se l’ipotesi della trasmissione delle risposte ruminative via modelling è vera, i punteggi relativi alla ruminazione delle madri e delle figlie dovrebbero essere correlati. Similmente, se il criticismo materno è un fattore di rischio per la ruminazione e se la positività è protettiva, ciò dovrebbe analogamente risultare in una relazione significativa tra i punteggi madri-figlie. I risultati indicano un’associazione tra bassa positività materna e alti punteggi di ruminazione nelle figlie mentre non risulta quella tra i punteggi della ruminazione. Non è possibile, però, concludere che la bassa positività materna causa lo sviluppo della ruminazione nelle adolescenti e nemmeno confermare l’ipotesi del modelling di Nolen-Hoeksema, che però in altri studi è stata confermata. Infine, la relazione tra criticismo materno e ruminazione nelle figlie non è stata esplorata a causa dei poco frequenti commenti critici riscontrati nel campione di questa ricerca. Sono necessari ulteriori studi di indagine e approfondimento ma questi risultati rappresentano uno spunto di riflessione importante sulla necessità di identificare le variabili interiori e quelle ambientali che mediano il rischio di sviluppare depressione cosi da creare dei programmi di prevenzione e trattamento sempre più efficaci.

 

Per approfondimenti:

Douglas, J.L., Williams, D. & Reinolds, S. (2017). The relationship between adolescent rumination and maternal rumination, criticism and positivity. Behavioural and Cognitive psychotherapy, 45(3), pp. 300-311.

Gate, M., Watkins, E., Simmons J., Byrne, M., Schwartz, O., Whittle, S., Sheeber, L. & Allen, N. (2013). Maternal parenting behaviors and adolescent depression: the mediating role of rumination. Journal of Clinical Child & Adolescent Psychology, 42(3), pp. 348-357.

Nolen-Hoeksema, S. & Davis, C. (1991). Responses to depression and their effect on the duration of depressive episodes. Journal of Abnormal Psychology, 100, pp. 569-582.

Chi rumina si focalizza meglio su uno scopo

di Roberta Trincas

“L’atto di cercare di raggiungere i propri obiettivi è tanto importante quanto in effetti è il raggiungerli”. Josh Hinds

La ruminazione depressiva si focalizza sulle cause, significati dell’umore depresso. La ruminazione quindi sarebbe caratterizzata da un insieme di pensieri ricorrenti su un tema o uno stato emotivo e dalla difficoltà nel cambiare il tipo di pensieri. Diversi studi hanno osservato che gli individui con alta tendenza alla ruminazione presentano inflessibilità cognitiva, in altre parole hanno difficoltà in compiti che richiedono cambiamento o inibizione di set-mentale.

Una volta che certi pensieri negativi vengono integrati in memoria, difficilmente vengono eliminati, e ciò impedirebbe lo spostamento verso pensieri più positivi o nuovi obiettivi.

Nonostante l’inflessibilità mentale sia spesso svantaggiosa, specialmente in situazioni che richiedono un rapido cambiamento di obiettivi, alle volte può invece risultare vantaggiosa, per esempio quando per ottenere una prestazione di successo è necessario sia mantenere un particolare obiettivo sia ignorare stimoli distraenti o obiettivi conflittuali. In tali circostanze, la capacità dei ruminatori di mantenere l’attenzione su un singolo obiettivo può risultare utile.

Alcuni autori hanno testato questa ipotesi sull’inflessibilità cognitiva. Su un campione di 99 studenti, hanno misurato la tendenza alla ruminazione e alla disforia, e hanno confrontato la prestazione dei soggetti su due compiti che richiedevano controllo esecutivo. In particolare, un compito (letter naming) misura la capacità di cambiare obiettivo, il secondo compito è una versione modificata dello Stroop con il quale è possibile misurare la capacità di mantenere un obiettivo.

Ciò che hanno osservato è che chi tendeva a ruminare di più era meno accurato nel compito che richiedeva un rapido cambiamento di obiettivo. Mentre nel compito che richiedeva di mantenere l’obiettivo, le tendenze a ruminare prediceva un’alta accuratezza di risposta.

Inoltre, ruminazione e disforia sembrano avere effetti diversi sui processi cognitivi. La ruminazione si associa a miglior mantenimento degli obiettivi, mentre la disforia si associa ad una difficoltà maggiore nel mantenerli.

Sulla base di questi risultati, quindi, gli autori assumono che la ruminazione possa essere un processo di pensiero utile nel mantenimento di un obiettivo.

Questo studio porta un’ulteriore prova a favore della funzione adattiva della ruminazione.

Nonostante le spiegazioni teoriche si siano focalizzate sulle conseguenze negative della ruminazione, questo studio dimostra l’importanza di prestare maggiore attenzione ai potenziali benefici del pensiero ripetitivo, dato che la ricerca sui vantaggi di tali processi è ancora scarsa. Questo studio quindi suggerisce che un attivo mantenimento di un obiettivo può essere considerato un vantaggio cognitivo della ruminazione.

Inoltre, la differenza che si osserva tra le tendenze ruminative e i livelli di disforia indica che, sebbene in alcuni casi siano aspetti strettamente connessi, la ruminazione  e la disforia possono influire diversamente sui processi cognitivi. Questa osservazione è in linea con altri risultati che mostrano come la tendenza a ruminare si associ a minori pensieri non legati al compito rispetto a chi ha alti livelli di disforia.

Questa differenza ci aiuta a distinguere gli effetti della ruminazione e della disforia e suggerisce che nel mantenimento di un obiettivo importante la ruminazione può non interferire negativamente così come l’umore depresso.

Questi risultati portano ulteriori prove a favore della prospettiva scopistica, e ci indicano come alcuni processi cognitivi, come la ruminazione, possano essere di fondamentale importanza nel momento in cui facilitano il perseguimento di scopi di vita importanti.

 

Per approfondimenti:

Altamirano, L.J., Miyake, A., Whitmer, A.J. (2010). When mental inflexibility facilitates executive control: beneficial side effects of ruminative tendencies on goals maintenance. Psychological Science, 21, 1377-1382.