Gli esseri umani hanno in comune con altri mammiferi molti aspetti della loro socialità ma c’è qualcosa che fa la differenza: la condivisione di un piano d’azione, un’informazione o uno stato d’animo
Ognuno di noi è consapevole dell’importanza che le relazioni sociali hanno nella nostra vita e forse anche, almeno in parte, della complessità e unicità delle nostre competenze sociali rispetto ad altre specie del regno animale. Sappiamo, per esempio, di avere a disposizione uno strumento potentissimo e unico per comunicare tra di noi: il linguaggio, che solo gli esseri umani possiedono e apprendono senza sforzo nell’infanzia, se inseriti in un contesto d’interazione sociale con altri esseri umani. Sappiamo anche di essere predisposti, già al momento della nascita, al ricercare degli scambi interpersonali e di essere sensibili alla qualità dell’interazione che l’altro ci propone: le sue espressioni facciali, la sua responsività e sintonia emotiva nell’interagire con noi. La capacità di reciprocità e di condivisione è alla base dell’interazione sociale tra gli esseri umani. Alcuni autori hanno suggerito, infatti, che proprio la cooperazione tra individui, la motivazione e il piacere nella condivisione siano le caratteristiche principali che differenziano le abilità sociali umane da quelle di altre specie.
Ma di cosa parliamo quando facciamo riferimento alla condivisione? A seconda dei domini di studio, il termine “condivisione” assume accezioni molto diverse tra loro. Tra queste, “condividere” può voler dire “avere un piano d’azione comune che richiede un comune coordinamento motorio”, come per esempio trasportare insieme un tavolo, della grandezza x attraverso una porta con ampiezza w. La neuropsicologia si è concentrata, negli ultimi anni, proprio su questo aspetto e sui meccanismi neurali che sembrano coinvolti nel coordinamento motorio e nella condivisione di un piano d’azione. Leggi tutto “Umano, tutto umano: saper condividere”
I protocolli di intervento mindfulness aiutano ad affrontare lo stress, insegnano a non reagire agli eventi difficili della vita e si stanno diffondendo anche fra bambini e adolescenti
In psicologia, il termine “resilienza” indica la capacità dell’individuo di superare e trarre forza da eventi stressanti e traumatici. Sono persone resilienti quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. Il concetto di resilienza è mediato dalla scienza dei materiali, per la quale un materiale ad alta resilienza è quello in grado di adattarsi a pesanti sollecitazioni mantenendo la sua forma originaria.
“Le persone che vengono nella nostra clinica – ha detto il biologo statunitense Jon Kabath-Zinn – imparano presto che lo stress è una componente inevitabile della vita […].Lo stress fa parte nella natura umana […] ma questo non significa che dobbiamo soccombere a forze più grandi di noi. Non possiamo fermare le onde, ma imparare a surfarle”.
La promozione della resilienza sta diventando sempre più centrale nei programmi di prevenzione per la salute mentale, anche in età evolutiva. Le pratiche mindfulness, in particolare, insegnano a rimanere in contatto con le difficoltà. Negli ultimi anni, inoltre, si è assistito a un incremento di bambini e adolescenti in età scolare che presentano un’ampia varietà di problemi sociali, emotivi e comportamentali, e la mindfulness si sta rivelando un valido aiuto nella prevenzione di tali disagi. Leggi tutto “La mindfulness aumenta la resilienza nell’età evolutiva”
Agendo sulla rete web, i cyberbulli sono anonimi e invisibili, non hanno limiti di spazio e di tempo e possono avere un impatto devastante sulla vittima
Tragici episodi di cronaca su giovani adolescenti che hanno deciso di porre fine alla propria vita, negli ultimi anni, hanno elevato l’attenzione comune sul cyberbullismo, un fenomeno molto diffuso e in continua espansione, strettamente legato allo sviluppo delle nuove tecnologie e della loro diffusione tra gli adolescenti. Essendo attuato tramite uno strumento elettronico, il cyberbullismo, anche se considerato un’evoluzione del bullismo tradizionale, se ne differenzia in molti aspetti e appare maggiormente insidioso: se i “bulli” sono persone che la vittima conosce e che commettono atti di violenza fisica e psicologica nelle scuole o in altri contesti limitati, i “cyberbulli” sono anonimi, invisibili, e, agendo sulla rete web, non hanno limiti di spazio e di tempo, possono arrivare ovunque ed essere sempre presenti nella vita privata della persona vessata. Proprio l’anonimato, unito alla distanza virtuale tra il cyberbullo e la vittima, fa sì che il “bullo virtuale” raramente provi empatia nei confronti della vittima, riducendo il tutto ad uno scherzo di poca importanza. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istat, poco più del 50% dei ragazzi tra gli 11 e i 17 anni ha subìto almeno un episodio offensivo, non rispettoso o violento da parte di altri ragazzi o ragazze, e il 5,9% denuncia di aver subìto ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o social network. Dai dati Istat emerge, inoltre, che le ragazze sono più di frequente vittime di cyberbullismo (7,1%) rispetto ai ragazzi (4,6%). Leggi tutto “Cyberbullismo, adolescenti in pericolo”
Le esperienze negative legate alle figure di riferimento del bambino sono spesso l’origine di problematiche psicologiche nell’adulto
La “Schema Therapy” (ST) è un approccio di terapia integrato che negli ultimi anni ha ricevuto molta attenzione e consenso non solo negli USA, dove è nata, ma anche nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria, in Svizzera, in Israele, in Turchia e in Australia. Nasce principalmente con lo scopo di coprire i limiti della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) nel trattamento dei disturbi di personalità. In particolare, il suo fondatore, Jeffrey Young, si concentrò sulle problematiche emotive e interpersonali presentate dai pazienti, spesso legate a esperienze negative avvenute in età precoci.
Il dialogo in merito all’etica ed alla moralità è fondamentale per preparare i bambini a partecipare come cittadini informati in una società democratica. Secondo le attuali teorie, l’abilità di assumere prospettive multiple è precorritrice dello sviluppo del ragionamento morale. Beaudoin-Ryan e Goldin-Meadow sostengono che i movimenti che si producono spontaneamente mentre si parla possono facilitare il cambio di prospettiva durante compiti di ragionamento morale in bambini in età scolare, e così aiutarli a compiere il primo passo verso la risoluzione dei problemi morali in modo maturo. Essi hanno condotto uno studio, suddiviso in quattro fasi, su un campione di 42 bambini a cui è stato chiesto di ragionare in merito a tre dilemmi morali tratti dalla Moral Judgment Interview, ogni dilemma giustappone l’obbligo contrattuale all’obbedienza ad un’autorità ed esplora le circostanze in cui una promessa può essere considerata sacrosanta. Leggi tutto “Insegnare il ragionamento morale attraverso i gesti”
È facile fare affermazioni come “tutte le emozioni sono buone” o “tutte le emozioni, anche quelle negative, aiutano a crescere”. In questo momento in cui nelle sale c’è Inside out la legittimità delle emozioni negative è particolarmente in auge, dal momento che il film in modo molto intelligente ed efficace mette in luce i vari modi in cui anche emozioni considerate negative come la tristezza sono da vivere e da esperire in piena consapevolezza perché funzionali al nostro equilibrio. Tradurre questo in pratiche educative, però, è meno facile. Nel libro “Il linguaggio del cuore” di Claudia Perdighe, ci sono esempi presi dalla vita quotidiana di come i genitori “involontariamente”, in mille modi diversi, insegnano a inibire o reprimere le emozioni; molto spesso questo accade perché spaventati sia dalle emozioni dei loro bambini, sia dai possibili effetti su loro stessi. Il primo e forse più chiaro esempio è il contrasto del pianto del bambino, il “non piangere” che per mesi o anni guida tante interazioni genitore-figlio; interrompere il pianto del bambino, infilargli un ciuccio in bocca, cercare mille strategie per farlo smettere, è il primo modo in cui diciamo al bambino “non esprimere ciò che senti”. Il pianto prolungato e apparentemente senza una causa a cui è possibile trovare una soluzione immediata come fame, freddo o sonno, attiva sentimenti di preoccupazione, disagio e timori sulle proprie capacità di genitore…!
Se invece nel “calmare il bambino” ci ricordassimo che “tutti i bambini piangono e non è un problema che necessariamente richiede una soluzione” anche il ruolo dei neo-genitori sarebbe più semplice.
Se il bambino smette di piangere io mi sento meglio, vero! Se però ogni volta che piange rispondo con “non piangere”, rischio inconsapevolmente di insegnargli che deve sempre essere di buon umore o che non deve mostrare il suo disagio.
Il diritto dei bambini di essere tristi, titolo scelto dall’autrice originariamente, sarebbe il giusto titolo del libro, il cui tema sono appunto le emozioni, piacevoli e spiacevoli: quelle dei bambini e quelle dei genitori.
Rachael Bedford e collaboratori (2015) hanno indagato la capacità di predire lo sviluppo di uno stile interpersonale callous-unemotional (CU, letteralmente insensibile-non emotivo) in bambini di due anni e mezzo, partendo dalla loro preferenza (i.e., maggiore attenzione) tra volti umani e oggetti inanimati, in neonati di poche settimane.
Come indicato da Frick (2009), le persone con tratti CU sono caratterizzati da una scarsa propensione a provare senso di colpa o rimorso, da una riduzione delle preoccupazioni per le emozioni altrui, da una espressione superficiale delle emozioni e da una diminuzione delle preoccupazioni relative alle proprie performance. Le caratteristiche cognitive che caratterizzano chi ha tratti CU includono una maggiore resistenza al cambiamento, una scarsa sensibilità ai segnali di punizione (Frick, Kimonis et al., 2003) e la sottostima della probabilità di essere puniti (Pardini et al., 2003). Sul piano comportamentale, questi individui ricorrono frequentemente all’aggressività premeditata e strumentale, finalizzata all’acquisizione di guadagni personali ed alla dominanza sugli altri (Frick, Cornell, et al., 2003). Leggi tutto “Nei neonati, una scarsa preferenza per il viso predice lo sviluppo di tratti anti-sociali a due anni”
Il workshop organizzato dalla SITCC pochi giorni fa a Roma ha consentito al professore Martin Bohus di illustrarci il suo approccio dialettico-comportamentale (DBT) al trattamento dei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità (BPD), vittime di abusi sessuali infantili. L’intervento del professore di Medicina Psicosomatica e Psicoterapia dell’università di Heidelberg (tra le altre, anche Dirigente della Clinic for Psychosomatic Medicine and Psychotherapy di Mannheim, vice-presidente della Società Europea per gli studi sui Disturbi di Personalità, Presidente dell’Associazione tedesca per la DBT e altre ancora!) ha illustrato in modo semplice ed efficace come intervenire con quei pazienti che hanno sviluppato un DBP, in seguito ad un trauma infantile a sfondo sessuale. Il modello integra diversi approcci di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) di terza generazione, tra i quali la DBT, l’Acceptance & Committment Therapy (ACT, Steve Hayes) e la Compassion Focused Therapy (Paul Gilbert), usati come facilitatori e motivatori, con una più classica esposizione al trauma, che avviene in una fase più tardiva del trattamento.
È noto che l’abuso sessuale infantile è fortemente correlato allo sviluppo di disturbi, tra i più frequenti sono quelli del sonno, il DBP, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i tentativi suicidari, aumentando di ben tre volte la probabilità di sviluppare una patologia psichiatrica in età adulta. Molto spesso, inoltre, i sintomi di queste patologie si associano l’uno con l’altro e contribuiscono ad una bassa autostima, allo sviluppo di disturbi di somatizzazione (i.e., obesità, disturbi metabolici o cardiaci) e predispone a gravi sintomi dissociativi.
In seguito ad esperienze abusanti, il senso di auto-protezione/sicurezza del bambino è fortemente minato, innescando emozioni di paura, dolore, disgusto e impotenza, che attivano comportamenti di evitamento o congelamento. Questi meccanismi hanno l’obiettivo di proteggere il bambino nel tentativo di difendersi dall’esperienza traumatica, essendo costretto a restare nel contesto familiare, spesso teatro dell’abuso. In seguito, il paziente sviluppa delle credenze come “nella mia famiglia questo è normale”, “devo aver fatto qualcosa di sbagliato” o “sono sbagliato, sporco e merito di soffrire” che attivano emozioni secondarie, come la colpa e la vergogna. Queste emozioni permettono al paziente di spiegarsi in qualche modo l’esperienza subita e a sopravvivere nell’ambiente sociale, in modo da evitare l’esclusione o il rifiuto da parte degli altri.
Il modello di Bohus, autore di oltre 200 pubblicazioni, alcune delle quali volte a dimostrare l’efficacia dell’intervento, individua nella necessità di sicurezza e nello scopo dell’affiliazione sociale, i bisogni e gli scopi fondamentali del paziente BPD. Nell’età adulta diversi eventi (i.e., un odore, un suono, un ricordo, una sensazione, etc.) possono attivare un’emozione primaria simile a quella esperita durante l’abuso che accende il network del trauma del paziente, attivando, a sua volta, comportamenti di evitamento o di fuga (Figura 1). Per evitare l’attivazione di questo network, e delle emozioni ad esso associate, il paziente impara a sviluppare delle strategie di coping maladattive (i.e., rituali di pulizia, gesti auto-lesivi, uso di sostante, negazione, rimuginio, etc.), che a lungo termine causano ulteriori sintomi disfunzionali.
Figura 1
Lo scopo del trattamento consiste nell’aiutare il paziente a bloccare l’evitamento e a connettersi, invece, con l’emozione primaria associata all’esperienza di abuso, ricollocandola nella realtà in cui il paziente opera, slegandola, quindi, dall’esperienza traumatica passata. È importante sottolineare che le emozioni primarie e le sensazioni esperite dal bambino possono essere anche piacevoli (i.e., sentirsi speciali, eccitamento sessuale, vicinanza) creando una associazione positiva con l’abuso e diventando, anch’esse, trigger dell’esperienza traumatica. L’obiettivo dell’intervento consiste nell’identificare le strategie di evitamento del paziente e nello scollegare le emozioni primarie (paura, disgusto, impotenza) da quelle secondarie (colpa e vergogna), in modo da aiutare il paziente ad elaborare ed accettare le emozioni associate al trauma.
Un aspetto fondamentale da trattare è quello della dissociazione. Lo scopo in terapia è impedire che il paziente si dissoci sia quando si attivano le emozioni primarie associate al trauma, che durante l’esposizione al ricordo traumatico, bilanciando in modo appropriato l’accettazione delle emozioni primarie associate al trauma e la consapevolezza e il contatto con la realtà attuale. La dissociazione può essere attenuata con diverse strategie, quali l’utilizzo di acqua gelida, la stimolazione del sistema vestibolare o il contatto orale con del peperoncino. Un altro aspetto importante è legato alla pratica di comportamentipericolosi, auto-lesivi o suicidari. Questi vanno identificati (ad esempio usando la Severe Behavior Dyscontrol Interview) e limitati attraverso un contratto terapeutico scritto molto articolato e insegnando al paziente a regolare le emozioni particolarmente intense. Un altro aspetto che va regolarizzato riguarda le relazioni interpersonali in corso. È consigliato che i pazienti interrompano per un certo periodo le relazioni con persone che presentano tratti border (per evitare che queste possano innescare comportamenti disregolati), così come andrebbero sospesi i rapporti sessuali con i partner (anche questi potrebbero fungere da trigger dell’abuso).
Operativamente, la struttura del trattamento prevede le fasi di 1) motivazione e pianificazione (in cui vengono usate strategie dell’ACT, come l’identificazione di valori e la defusione), 2) la condivisione del razionale del trattamento e l’apprendimento di abilità relazionali e di regolazione emotiva, 3) l’esposizione al trauma ed, infine, 4) la ri-organizzazione di una vita più funzionale. All’interno del trattamento va anche considerata la psico-educazione e la gestione delle emozioni di colpa, vergogna e disgusto. In seguito all’intervento specifico su queste emozioni, il paziente viene esposto alle esperienze traumatiche (in seduta e tramite homework), favorendo una dissociazione delle emozioni primarie legate al trauma passato, dall’attivazione delle stesse nella vita presente.
Il modello DBT per pazienti con BPD associato a trauma sessuale infantile proposto da Bohus rappresenta una integrazione flessibile ed efficace che accomuna strategie della classica CBT e nuovi approcci psicoterapici. Gli studi di efficacia mostrano un drop-out molto basso e un netto miglioramento sintomatologico (i.e., riduzione dei gesti suicidari e auto-lesivi, gestione dei sintomi dissociativi, diminuzione dell’attivazione del network del trauma, etc.), anche in pazienti con un BPD molto grave.
Tra le caratteristiche diagnostiche del Disturbo dello Spettro Autistico si evidenziano una scarsa capacità nel ricercare una piacevole e spontanea condivisione di emozioni sia positive che negative, la condivisione degli interessi con altre persone ed una difficoltà nell’interagire con reciprocità emotiva. Già Kanner (1943) enfatizzò la presenza di difficoltà emotive, descrivendo questi pazienti come indifferenti e non interessati all’altro, egocentrici, emotivamente freddi, distanti e ritirati. Tutte caratteristiche, che negli anni seguenti, sono stati inclusi in un più ampio e centrale nucleo, quello sociale. L’interesse, particolarmente rivolto al riconoscimento facciale, ha dato vita a numerose ricerche, alcune recenti.
La ricerca che ha stimolato il mio interesse e che descrivo in questo post, è quella di Tell et al. (2014), in cui è stata indagata la direzione dello sguardo e gli effetti dell’intensità dell’espressione emotiva come componenti nel riconoscimento dell’emozione sia in bambini con Diagnosi di Autismo che in quelli con uno sviluppo tipico. Tra gli aspetti che caratterizzato la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni, ci sono lo sguardo e la sua direzione, l’espressione facciale, che suggeriscono il motivo e la base del deficit preso in esame in questo articolo e la conseguente difficoltà nell’interazione sociale per i bambini con Autismo. La capacità di percepire nonché comprendere un’emozione, potrebbe migliorare nel momento in cui la condivisione avvenga attraverso una combinazione tra direzione dello sguardo e l’intento di comunicare la propria espressione emotiva. Da queste ipotesi chiamate dai ricercatori “Shared signal hypotesis” si è sviluppata l’idea secondo cui emozioni come la felicità e la rabbia siano maggiormente identificabili quando si orienta lo sguardo in maniera più diretta e dunque più rapidamente “intercettata” dall’altro, che sia un bambino o adulto con Diagnosi di Autismo o un bambino con uno sviluppo neuro-tipico.
Diversamente accade con le emozioni di tristezza e paura, più rapidamente identificate da adulti neuro-tipici rispetto a quelli con Autismo. Inoltre si evidenzia che, adulti con sviluppo tipico, che osservano espressioni facciali di rabbia con lo sguardo diretto, vengono considerate come “più arrabbiati”. Per bambini o adulti con Diagnosi di Autismo è più difficile, invece, “cogliere” l’emozione, se non vi è uno sguardo diretto, rispetto a coloro che presentano uno sviluppo neuro-tipico. Sono stati considerati altri aspetti che possano determinare o meno un riconoscimento adeguato delle emozioni da parte dei bambini con Autismo (Akechi et al, 2009): potrebbero, infatti, non integrare spontaneamente la direzione dello sguardo con l’intento comunicativo, in particolare nella connessione con l’espressione emotiva o all’interno di specifici contesti sociali. Dagli studi effettuati, emerge che una differenza significativa, nel riconoscimento delle emozioni, tra bambini con Autismo e bambini con uno sviluppo tipico, sia dovuta dal livello di intensità con cui vengono presentate: è più facile riconoscere le emozioni se rappresentate con un’intensità maggiore o più marcate rispetto a quelle rappresentate con minor intensità. Tuttavia i bambini con sviluppo tipico riescono con più facilità nel compito di riconoscimento delle emozioni al variare dell’intensità, anche se sono più accurati a un’intensità maggiore (per esempio 50%) rispetto ad una inferiore (25%).
Wallace e colleghi, dalle loro ricerche dimostrano che adolescenti con Disturbo dello Spettro Autistico hanno bisogno di un’espressione facciale delle emozioni più intensa affinché possano riconoscere in maniera più accurata le emozioni proposte. La ricerca di Tell et al, ha proprio lo scopo di esaminare gli effetti della direzione dello sguardo e dell’intensità dell’espressione emotiva nella capacità di riconoscimento dell’emozione mettendo a confronto due gruppi di bambini (22 per ogni gruppo) con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico, con un’età tra gli 8 e i 12 anni. Ai gruppi di bambini, messi a confronto, sono state mostrate delle foto che raffigurano volti con l’espressione delle emozioni di felicità, rabbia, tristezza e paura, includendo anche una con un’espressione neutrale. Tutte le espressioni emotive, sono state create al pc, con lo sguardo diretto o distolto dal 50% al 100% di livello di intensità. Il test a cui sono stati sottoposti i soggetti della ricerca è stato effettuato individualmente in una classe, silenziosa e l’esperimento consisteva in una sessione di 20 minuti. Sono state mostrate delle foto (volti di attori, 6 maschi e 6 femmine), per ogni emozione l’intensità dell’espressione variava da 0% neutrale, al 50% e 100%), suddivise in due tipi di “volto stimolo”, con lo sguardo diretto e con lo sguardo distolto (sguardo verso destra o sinistra), per un totale di 12 foto per ogni emozione, inclusa quella neutrale. Dai dati emersi bambini con Diagnosi di Autismo e bambini con sviluppo tipico non differiscono tra loro nell’abilità di riconoscere correttamente l’espressione delle emozioni di felicità e rabbia, raffigurate con un’intensità del 100% e del 50% con lo sguardo diretto o con lo sguardo distolto. Di contro, è emerso il dato significativo che, i bambini con Autismo hanno una minor capacità di riconoscere, rispetto ai bambini con sviluppo tipico, l’emozione di paura per ogni livello di intensità (50% e 100%) e con sguardo diretto o distolto. Anche per l’emozione di tristezza, è emersa una maggior abilità, nei bambini con sviluppo tipico rispetto a quelli con Autismo, nel riconoscimento della stessa, se proposta con un’immagine con intensità al 100% e con sguardo diretto. Per i volti neutrali, è emersa una maggior tendenza dei bambini con Autismo ad etichettarli con un’emozione negativa.
I dati di questa ricerca ci lasciano con il quesito sul motivo per cui alcune tipi di emozioni, come la felicità e la rabbia, vengano captate e riconosciute maggiormente dai bambini con Autismo rispetto a quelle di tristezza o paura, nonostante siano state proposte variando livello di intensità e con differente direzione dello sguardo. E’ stata ipotizzata, una differente attività neuronale, ossia una minor attivazione della parte sinistra dell’amigdala e della corteccia orbitofrontale sinistra del cervello negli adulti con DSA rispetto a quelli neuro-tipici. Una differenza nel riconoscimento della paura, sta nel fatto che quest’emozione venga comunicata principalmente con gli occhi e ciò potrebbe essere legato alla minor attenzione che gli individui con Autismo prestano a questa regione del volto.
Ciò che ci suggerisce questa ricerca, è che gli adulti che fanno parte della vita dei bambini con Autismo o comunque ogni figura professionale coinvolta nel trattamento degli stessi, debbano lavorare in modo più incisivo ed importante, anche tramite la costruzione di storie sociali, sull’apprendimento delle emozioni negative di paura e tristezza. Considerando che sia la direzione dello sguardo che l’intensità dell’emozione che viene espressa modula la percezione dell’emozione in tutti i bambini, si potrebbe intensificare un trattamento precoce sulle emozioni nei vari contesti sociali (scuola, casa ecc.), anche tramite immagini come quelle utilizzate nella ricerca, costituendo una base per poi lavorare allo stesso tempo sulla comunicazione tra pari, adulti significativi e terapisti permettendo di enfatizzare in vivo con più facilità l’emozione e soprattutto favorendo l’attenzione dei bambini con Autismo sul proprio sguardo.
Riferimenti Bibliografici
TELL, D., DAVIDSON, D. AND CAMRAS, L.A., Recognition of Emotion from Facial Expressions with Direct or Averted Eye Gaze and Varying Expression Intensities in Children with Autism Disorder and Typically Developing Children, Hindawi Publishing Corporation Autism Reasearch and Treatment, Vol 2014, Article ID 816137, p.11.