Senso di colpa, emozione a due facce

di Estelle Leombruni

Colpa altruistica e colpa deontologica: una tesi dualistica

In un recente articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology, il neuropsichiatra infantile e psicoterapeuta Francesco Mancini e la psicoterapeuta Amelia Gangemi affrontano il tema della colpa, offrendo al lettore le informazioni necessarie per un’approfondita comprensione di questa complessa emozione e delle sue implicazioni sulla sofferenza psichica.

La tesi portata avanti è quella dell’esistenza di due forme distinte di colpa: la “colpa altruistica”, che viene sperimentata quando si assume di aver compromesso uno scopo altruistico, e la “colpa deontologica”, derivante dall’assunzione di aver violato una propria norma morale.

Queste due forme di colpa generalmente coesistono nella vita quotidiana, tuttavia è possibile anche sperimentarle separatamente: sentirsi in colpa per non essersi comportati in maniera altruistica senza però violare una propria regola morale oppure trasgredire una norma morale senza che sia presente una vittima, ovvero in assenza di una persona danneggiata.

Sono numerose le evidenze empiriche che supportano tale distinzione: da un punto di vista comportamentale, per esempio, le ricerche mettono in luce come, inducendo uno dei due tipi di colpa, si ottengono azioni di risposta differenti (azione che tutela uno scopo altruistico o azione per uno scopo morale). Dal punto di vista dei circuiti neurali coinvolti in questi processi, gli studi condotti tramite la risonanza magnetica funzionale mettono in risalto come si attivino network cerebrali diversi a seconda del tipo di colpa sperimentato. La distinzione è evidente anche per quanto riguarda il rapporto che questi due sensi di colpa hanno con altre emozioni: per esempio, la colpa deontologica sembrerebbe che abbia una stretta connessione con il disgusto mentre la forma altruistica con il vissuto di pena.

Questa duplice visione del sentimento di colpa consente una maggiore comprensione di altri fenomeni (come del cosiddetto omission bias ovvero la tendenza sistematica a favorire un atto di omissione rispetto a uno di commissione) e ha importanti implicazioni circa la psicologia clinica, in particolare, nella comprensione del disturbo ossessivo- compulsivo, in cui la colpa deontologica svolge un ruolo cruciale, e di alcune forme di reazione depressiva, per cui sembra essere rilevante la colpa altruistica.

Una comprensione più approfondita dei disturbi consente di sviluppare interventi psicoterapici che mirino specificatamente al tipo di colpa che potrebbe essere alla base delle problematiche presentate, garantendo in questo modo una maggiore possibilità di successo terapeutico, ossia di raggiungimento e mantenimento degli obiettivi prefissati.

L’approfondimento proposto dai due autori consente, quindi, non solo di comprendere meglio le determinanti psicologiche e le implicazioni cliniche dei due sensi di colpa, ma anche di sviluppare interessanti spunti di riflessione sulle implicazioni psicoterapiche e sulle future possibili ricerche.

Per approfondimenti:

https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.651937/full

Aborti ricorrenti e impatto psicologico

di Rossella Cascone

Perdere un bambino è a tutti gli effetti un lutto da elaborare, un evento traumatico che porta con sé uno shock emotivo per entrambi i genitori

Nell’immaginario comune, avere un figlio, crearsi una famiglia, è uno scopo condiviso che porta con sé credenze semplicistiche sulle modalità con cui raggiungere tale scopo: “rimanere incinta è facile”, “la gravidanza è un periodo bellissimo”, “puoi continuare a lavorare e fare tutto quello che facevi prima”. Tali credenze, però, in molti casi, risultano irrealistiche e generano nella donna vissuti di inadeguatezza, rabbia, tristezza, vergogna e colpa.

In realtà, è molto comune che non vi sia una linearità nella fecondità di una coppia: l’incidenza di aborto spontaneo si aggira tra il 15 e il 20% di tutte le gravidanze clinicamente diagnosticate.

Per definizione, si parla di aborto spontaneo quando vi è un’interruzione spontanea di gravidanza entro la ventesima settimana di gestazione.

Di per sé un aborto, verificatosi in qualunque settimana di gestazione, è a tutti gli effetti un lutto da elaborare; un evento traumatico che porta con sé uno shock emotivo per entrambi i genitori.

Nei casi di aborti multipli il ripetersi dell’evento complica inevitabilmente la situazione, aggravando i vissuti emotivi e il processo di elaborazione del lutto. Oltre a portare con sé, in alcuni casi, la diagnosi di infertilità e la conseguente necessità di ricorrere alla fecondazione assistita.

Nello specifico, possiamo distinguere tre tipi di aborto: occasionale, ripetuto e ricorrente.

L’aborto ripetuto si verifica quando, nella storia ostetrica di una donna, vi sono due episodi consecutivi di aborto entro la ventesima settimana di gravidanza; l’aborto ricorrente, invece, si verifica con la presenza di tre o più episodi consecutivi di aborto spontaneo.

Le cause di aborti ricorrenti solitamente sono da collegare a problemi genetici o uterini, trombofilia, malattie endocrine autoimmuni, infezioni e diversi fattori ambientali, ma in molti casi le cause restano sconosciute e generano nella donna la sensazione di essere “difettosa”.

La perdita di una gravidanza desiderata è quindi un evento negativo considerevole che induce un intenso periodo di stress emotivo e può causare notevoli disagi fisici e soprattutto psicologici, come ansia e depressione, disagi nel funzionamento sociale, intolleranza all’incertezza, chiusura in sé stessi. Molto spesso, ad aggravare la situazione vi è la risposta della società che tende a minimizzare o addirittura ignorare la concezione dell’aborto come un lutto. Frasi come “è stato meglio così”, “potete provare ad avere altri bambini”, “il tempo vi aiuterà”, “sarebbe stato peggio se fosse successo più avanti”, rendono sicuramente complicato il processo di elaborazione e di accettazione.

Nel caso di aborti ripetuti la situazione si complica maggiormente. Elena Toffol e collaboratori hanno evidenziato come nelle donne con una storia di aborto spontaneo ci fosse una più alta prevalenza di sintomi depressivi e diagnosi di disturbo depressivo e che, maggiore era il numero di aborti spontanei, peggiore era lo stato dell’umore e più frequente era la diagnosi di depressione.

Questi risultati suggeriscono che un aborto spontaneo, e in particolare il numero di aborti spontanei, contribuisce negativamente e a lungo sulla salute mentale della donna. Da una ricerca del 2015 è infatti emerso che l’8,6% delle donne con aborti ripetuti, contro il 2,2% delle donne che non ne avevano avuti, ha una depressione moderata o grave.

In accordo con gli studi precedenti, Hajar Adib Rad e collaboratori, valutando i problemi psicologici nelle donne con aborto spontaneo ricorrente, hanno sottolineato come l’incidenza di disturbi psicologici sia maggiore in questo campione. Nel loro articolo vengono inoltre racchiusi dati di altre ricerche che mostrano come la perdita di una gravidanza è correlata anche ad ansia e angoscia, specialmente nelle donne che soffrono di aborti ricorrenti, ed è maggiore nelle donne che non riescono a portare a termine gravidanze successive e quindi ricevono diagnosi di infertilità.

Questi risultati indicano come l’aborto ricorrente e l’infertilità possono portare a una notevole quantità di pressione sulle donne e a connessi problemi psicologici che possono persistere anche dopo un anno dall’evento scatenante.

Alla luce di quanto detto, sembra quindi necessario un supporto che miri a ridimensionare il disagio provato, che ristrutturi le credenze irrealistiche e che favorisca il processo di elaborazione e di accettazione, con particolare interesse anche allo sviluppo di una rete sociale di sostegno adeguata.

Per approfondimenti

Adib-Rad H., Basirat Z., Faramarzi M., Mostafazadeh A., Bijani A. (2019); Psychological distress in women with recurrent spontaneous abortion: A case-control study. Turk J Obstet Gynecol, 16(3): 151–157;

Mevorach-Zussman N., Bolotin A., Shalev H., Bilenko N., Mazor M., Bashiri A. (2012);  Anxiety and deterioration of quality of life factors associated with recurrent miscarriage in an observational study. J Perinat Med. 40:495–501;

Tavoli Z., Mohammadi M., Tavoli A., Moini A., Effatpanah M., Khedmat L., Montazeri A.(2018); Quality of life and psychological distress in women with recurrent miscarriage: a comparative study. Health Qual Life Outcomes, 28;16(1):150

Toffol E, Koponen P, Partonen T. (2013);  Miscarriage and mental health: results of two population-based studies. Psychiatry Res.  205:151–58.

Disturbo mentale o normale reazione?

di Emanuela Pidri

La depressione tra condizione esistenziale e malattia

Il Disturbo Depressivo può essere identificato come alterazione della sfera cognitiva, della regolazione delle emozioni e del comportamento oppure come espressione di una disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi. Tale sindrome è connessa alla presenza di disagio o disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti della vita dell’individuo. Tuttavia può essere considerata come una reazione normale e prevedibile o culturalmente accettata di fronte a un fattore stressante poiché i comportamenti socialmente devianti e i conflitti non sono disturbi mentali se non sono l’espressione di una disfunzione.

In base alla specificità dei criteri diagnostici, esistono vari tipi di disturbo dell’umore: disturbo disforico, disturbo depressivo maggiore, disturbo depressivo persistente (distimia), disturbo bipolare, disturbo ciclotimico, disturbo depressivo con altra specificazione (depressione breve ricorrente, episodio depressivo di breve durata, episodio depressivo con sintomatologia insufficiente). Ogni disturbo è identificabile in relazione alle cause, ai sintomi e ai segni, all’evoluzione e al decorso, alla prognosi. Non solo i disturbi depressivi sono frequenti, ma si associano ad aumentata mortalità (suicidio e altre cause) e ad alta disabilità. La letteratura riporta una frequenza maggiore di comportamenti suicidari in anziani e di comportamenti parasuicidari negli adolescenti. Il 90% dei suicidi è correlato a disturbi psichici e il 16% di chi ha tentato il suicidio lo ripete entro l’anno.

Una tappa prioritaria nell’assessment clinico è, quindi, la rilevazione dei comportamenti suicidari. Viene valutato il livello di pianificazione, il grado di conoscenza della letalità del mezzo usato, i livelli di intenzionalità, l’intervento o non intervento casuale di altre persone, l’assunzione di sostanze psicoattive. L’applicabilità dei fattori di rischio varia in base alla persona e alla sua cultura, tuttavia spesso manca la volontà di parlarne per il timore di essere ricoverati e che il ricovero si prolunghi, di deludere e di non essere creduti oppure che venga minimizzato il problema. L’accuratezza dell’assessment e la specificità della diagnosi permettono di attuare un intervento individualizzato e calibrato alla complessità del quadro clinico in atto. I trattamenti efficaci previsti dalle linee guida per i disturbi dell’umore sono trattamenti farmacologici, psicologici e psicosociali (social skills training, psicoeducazione, lavoro supportato, illness management). Rispetto all’intervento farmacologico, è importante sapere che il dosaggio con il quale si ha la risposta, in funzione del numero di episodi di malattia e/o della loro gravità, è lo stesso con il quale proseguire il trattamento.

La Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) persegue l’obiettivo psicoeducativo di fornire informazioni al paziente e ai familiari riconoscendo precocemente i segnali d’allarme e le credenze disfunzionali. Attraverso sedute strutturate, il paziente potrà lavorare sulla visione negativa di sé (io inadeguato e difettoso), sull’interpretazione negativa delle esperienze (lette come sconfitte, privazioni, denigrazioni) e sulla visione negativa del futuro (previsione omogenea alle esperienze), identificando e ristrutturando i bias cognitivi (deduzione arbitraria, astrazione selettiva, ipergeneralizzazione, minimizzazione/ingigantimento, personalizzazione, pensiero dicotomico). Per migliorare a lungo tempo l’esito della terapia e ridurre la probabilità di ricadute, la CBT prevede che il paziente acquisisca abilità di “problem-solving”, vale a dire capacità di regolazione emotiva e strategie adattive di fronteggiamento degli “stressor” psico-sociali.

Una terapia integrata (terapia farmacologia combinata con psicoterapia), quindi, migliora notevolmente la prognosi e permette all’individuo di sperimentare un senso di potere personale che incide sul miglioramento della propria qualità di vita.

Per approfondimenti

Ankarberg P., Falkenstrom F. (2008), “Treatment of depression with antidepressants is primarily a psychological treatment”. Psychoterapy Theory, Research, Practice, Trainig, Vol. 45, 3, September 2008, p. 329-339 (APA Journals)

Arieti S., Bemporad J. (1978), La depressione grave e lieve. L’orientamento psicoterapeutico. Ed. it., Feltrinelli Editore, Milano, 1981

Beck A. (1970), “The core problem in depression: the cognitive triad”. In: Masserman J. (a cura di), Science and Psychoanalysis, vol. 17, Grune & Stratton, New York. Citato in: Arieti S., Bemporad J. (1978), La depressione grave e lieve. L’orientamento psicoterapeutico. Ed. it., Feltrinelli Editore, Milano, 1981

Beck A. (1976), Cognitive Therapy and the Emotional Disorders, International Universities Press, New York. Citato in: Arieti S., Bemporad J. (1978), La depressione grave e lieve. L’orientamento psicoterapeutico. Ed. it., Feltrinelli Editore, Milano, 1981

Malattie intestinali e disagio psicologico

di Sonia Di Munno

Quali sono le cause che possono portare ad ansia e depressione e i trattamenti più efficaci

Le malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI) sono tutte quelle patologie infiammatorie croniche e recidivanti dell’intestino: le più comuni sono il morbo di Chron e la colite ulcerosa. Attualmente hanno origine sconosciuta e risultano dovute a un’interazione tra fattori ambientali, genetici e di microbica intestinale. Sono malattie con alti tassi di recidive o ricadute e lo stress psicologico è un fattore importante che contribuisce alla manifestazione frequente. Chi ne soffre sviluppa sintomi e patologie di ansia e depressione: in una revisione sistematica del 2016 si è visto che il 21% dei pazienti soffriva di una patologia ansiosa conclamata mentre il 35% presentava sintomi ansiosi subclinici; il 15% soffriva di depressione e il 22% dei pazienti riportava sintomi depressivi. Viste le alte percentuali di disagio psicologico, uno studio dello psichiatra statunitense Douglas A. Drossman ha cercato di indagare le macroaree che creano ansia e depressione in questi pazienti, per poter poi intervenire in maniera diretta ed efficace. Ne ha individuate quattro: impatto della malattia, preoccupazioni sul trattamento, intimità, stigma.

Per impatto della malattia si intende il cambiamento che la malattia porta a chi ne soffre. Nel caso specifico delle MICI, un cambiamento importante è nello stile alimentare come scelta del cibo con eliminazione completa di alcune pietanze. Inoltre, seguire a lungo termine dei regimi dietetici ristretti può portare ad atteggiamenti disadattivi, provocando ansia nei confronti del cibo e nel consumare il cibo in contesti conviviali. Alcuni incorrono in un’alimentazione disordinata o in comportamenti alimentari disfunzionali, come abbuffate, restrizioni e digiuno. Oltre ai problemi alimentari, nei pazienti con MICI è stata riscontrata un’alta soglia di stanchezza – diventata clinicamente significativa – presente nel 86% nei pazienti con patologia attiva e nel 22-41% con malattie quiescenti. Questo affaticamento è dovuto sia alla malattia che al disagio psicologico che questa comporta. Spesso i pazienti sviluppano anche insonnia e in alcuni casi possono sviluppare un disturbo postraumatico in cui l’evento traumatico è la diagnosi della malattia di fronte alla quale ci si può sentire spaventati e impotenti. Per lo sviluppo del disturbo da stress post-traumantico vi sono alcuni fattori di rischio predisponenti come: essere di sesso femminile, appartenere a un basso status socio-economico, essere affetti da una malattia più grave, avvertire dolore incontrollato, avere una giovane età al momento della diagnosi, aver subìto un intervento chirurgico, percepire in maniera molto intensa i sintomi e aver avuto almeno una recidiva della malattia.

Anche l’aspetto dell’intimità è di grande importanza nelle MICI: ben 2/3 dei pazienti riferiscono di avere problemi relativi all’immagine corporea e problemi sessuali. L’interesse sessuale ha un sostanziale decremento in molti pazienti, che può essere dovuto sia alla depressione ma anche al dolore che alcune donne riferiscono di avere durante il rapporto (25%) che non è associato al tipo di malattia o all’attività, all’uso di steroidi o alla presenza di malattia perianale ma può essere correlato alla disfunzione del pavimento pelvico.
L’aspetto della maternità risulta essere un tasto dolente per molte donne: il 18-22% riferisce di non voler avere figli per paura di trasmettere la malattia e la paura di portare avanti la gravidanza assumendo dei farmaci. Un altro macro aspetto per cui i pazienti sviluppano ansia e depressione è lo stigma che percepiscono dagli altri e la vergogna che possono provare di fronte a questa malattia che può portare a un maggiore isolamento e ritiro sociale, aumentando così ansia e depressione.

Di fronte a queste malattie croniche e recidive, lo sviluppo di un disagio psicologico è molto frequente e bisogna intervenire tempestivamente ed efficacemente per non incorrere in un sostanziale peggioramento della qualità delle vita. Attualmente le terapie più efficaci sono: la terapia cognitivo comportamentale, la mindfulness e l’ipnosi medica. La terapia cognitivo comportamentale attenua i sintomi psicologici che queste malattie comportano, poiché ai pazienti viene insegnato a comprendere la relazione tra situazioni, pensieri, comportamenti, reazioni fisiche ed emozioni. I pazienti imparano a cambiare pensieri (attraverso la ristrutturazione cognitiva), comportamenti (attraverso cambiamenti programmati o prescritti nell’attività o nelle risposte) e livelli di eccitazione fisiologica (attraverso esercizi di rilassamento) al fine di ridurre il disagio emotivo. Nelle MICI, la CBT non ha dimostrato di alterare gli esiti della malattia, ma è risultata efficace nel migliorare la qualità della vita, le capacità di coping (adattamento efficace di fronte alla difficoltà), l’aderenza medica nonché nel diminuire i sintomi di ansia o depressione.

Per approfondimenti

Yue Sun, Lu Li, Runxiang Xie, Bangmao Wang, Kui Jiang and Hailong Cao (2019), Stress Triggers Flare of Inflammatory Bowel Disease in Children and Adults, Department of Gastroenterology and Hepatology, General Hospital, Tianjin Medical University, Tianjin, China, published: 24 October 2019 doi: 10.3389/fped.2019.00432

Tiffany H. Taft, Sarah Ballou, Alyse Bedell and Devin Lincenberg (2017), Psychological Considerations and Interventions in Inflammatory Bowel Disease Patient Care; Gastroenterol Clin North Am. 2017 December ; 46(4): 847–858. doi:10.1016/j.gtc.2017.08.007

Whitney Duff, Natasha Haskey, Gillian Potter, Jane Alcorn, Paulette Hunter, Sharyle Fowler (2018); Non-pharmacological therapies for inflammatory bowel disease: Recommendations for self-care and physician guidance; World J Gastroenterol 2018 July 28; 24(28): 3055-3070

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Il bambino triste

di Emanuela Pidri

Dall’attaccamento alla strutturazione della personalità

I processi di maturazione hanno il loro fulcro nella costruzione dell’identità e si articolano caratteristicamente nel corso dell’adolescenza, attraverso momenti di fisiologica instabilità che comportano anche bruschi abbassamenti del tono dell’umore (cosiddetta “depressione fisiologica”), espressione di riassetti critici dell’equilibrio interno, in rapporto alle modalità soggettive di assimilare e riferire a sé l’esperienza vissuta. Pertanto, nel corso della preadolescenza e adolescenza, fisiologiche variazioni del tono dell’umore rivestono un ruolo fondamentale nella maturazione e quindi nella strutturazione della personalità. Tali modulazioni del tono dell’umore, più o meno brusche, intense e durature, sebbene costituiscano momenti di “crisi” possono dar luogo a esiti diversi, sia di tipo adattivo e quindi maturativi, sia di tipo disadattivo con oscillazioni che si esprimono attraverso disturbi psicopatologici di vario tipo e gravità.

La Teoria dell’Attaccamento ha dimostrato il ruolo della Sintonizzazione Madre-Bambino come elemento cardine dello sviluppo dell’attaccamento e come fattore predittivo dello sviluppo della personalità, sottolineando il ruolo di alcuni elementi fondamentali: primato dei legami emotivi intimi con le figure di attaccamento, schemi di attaccamento e condizioni dello sviluppo, persistenza degli schemi comportamentali, percorsi dello sviluppo della personalità. Lo sviluppo non viene più visto, seguendo gli studi dello psichiatra statunitense Daniel Stern, nell’ottica di punti di fissazione e di regressione, ma come differenti percorsi di sviluppo, più o meno sani, imboccati dal soggetto in base al suo corredo biologico in continua interazione con l’ambiente.

Attraverso il legame con i genitori, in particolare con la figura di attaccamento, il bimbo comincia a integrare le sue sensazioni emotive, con specifiche azioni, percezioni e ricordi, cominciando così a costruire la propria soggettività, riconoscendosi sempre più come entità differenziata dalle cose e dagli altri. Dagli anni ’80, il lavoro di Vittorio Guidano e Giovanni Liotti, ha evidenziato come il contributo dell’attaccamento rivesta un ruolo centrale nella costruzione del sé e nel mantenimento della coerenza di tale organizzazione intermodale. Nell’adolescente esiste la tristezza, la collera, il sentimento di inutilità, il pessimismo, la colpa, l’umiliazione, l’isolamento.  La presenza di questi aspetti nel corso dei processi normali di sviluppo fanno pensare che non ci sia adolescente senza depressione. Evidentemente si osserva l’esistenza di diversi processi a carattere depressivo: separazione, rottura di legami, perdita; aggressività e sentimenti di colpa; effetto depressivo di base (isolamento, pessimismo, noia, timidezza, tedio, tono affettivo basso) che se non vengono ben gestiti dalla sintonizzazione madre-bambino (attaccamento non sicuro) assumono significati differenti nello sviluppo evolutivo e identitario dell’individuo.

Lo stile affettivo (modalità adulta di stabilire legami, compreso l’amore), essendo una forma matura di affettività, ha come caratteristica di avere maggiori possibilità di astrazione rispetto all’attaccamento infantile e tende nelle situazioni “normali” ad arricchirsi e articolarsi nel corso della vita. C’è una modalità dello sviluppo umano in cui il senso di solitudine sembra acquisire una centralità e una prevalenza legata a specifiche esperienze di vita e di attaccamento. Lo stile depressivo è uno stile affettivo derivante dall’attaccamento evitante in cui, per il bambino, l’accesso alla figura di attaccamento è chiaramente poco o per nulla accessibile. La caratteristica centrale di questo stile è la sensazione di solitudine, di separazione dal resto del gruppo, dovuta all’esperienza di perdita, di abbandono, con il conseguente senso di auto-sufficienza sperimentata fin dall’infanzia, che porta a una posizione, nell’adulto, di evitamento dei rapporti affettivi. Le emozioni prevalentemente attivate sono la disperazione e la rabbia, è intorno a queste due polarità che si costruisce un tema di significato personale.

Per approfondimenti:

 

BARA B. (1990). Scienza cognitiva. Torino, Bollati Boringhieri.

BARA B.G. 2000. Il metodo della scienza cognitiva: un approccio evolutivo allo studio della mente. Bollati Boringhieri, Torino

BRACONNIER A. (2002). Minaccia Depressiva e depressione in adolescenza. In “adolescenza e psicoanalisi”. Anno II- N°3 Settembre.

CUTOLO G. (2012). L’empatia: comprendere gli altri facendoci capire da loro. Neuroni specchio, mentalizzazione, attaccamento” su L’Altro, anno XV, n.1 genn.-apr.2012, pag.12-19

GUIDANO V.F. (1992) “Il sé nel suo divenire” Bollati Boringhieri Torino

LAMBRUSCHI F. (2004). Psicoterapia cognitiva dell’età’ evolutiva. Bollati Boringhieri

LIOTTI G., (2001). Le Opere della Coscienza. Raffaello Cortina, Milano. Mantovani N., L’elefante invisibile, Giunti, Firenze.

NARDI B, (2004). La depressione adolescenziale in Psicoterapia Cognitiva dell’età evolutiva, a cura di F. Lambruschi., Bollati Boringhieri, Torino

REDA AM. E CANESTRI L.  (2012). “All You Need is Love”: La Rilevanza dello Stile Affettivo in Psicoterapia Post-Razionalista. XIII CONVEGNO DI PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA

 

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Genitori non si nasce, si diventa

di Sonia Di Munno

Depressione post partum. Un trattamento efficace per i genitori

Il periodo della gravidanza e quello successivo al parto sono molto particolari e delicati per la famiglia. La madre, in primis, vive un momento che può essere meraviglioso ed entusiasmante ma anche di grande fragilità e vulnerabilità. Il cambio di ruolo, la riorganizzazione familiare, le paure, il senso di inadeguatezza possono portare alcune donne a sviluppare una depressione post partum. Il disturbo generalmente esordisce dalla sesta alla dodicesima settimana dalla nascita del figlio: la madre si sente inadeguata, impotente e triste e molte volte provare questa tristezza può portare a sentimenti di colpa e vergogna che non permettono di chiedere aiuto.

Simile alla depressione post partum è il baby blues, un disturbo dell’umore transitorio (in genere scompare dopo il primo mese), molto comune nelle neomamamme, dovuto principalmente al cambiamento ormonale e caratterizzato da lievi sintomi depressivi.

La depressione post partum comporta una varietà di sintomi: dai disturbi del sonno, dell’appetito e di concentrazione alla sensazione di vuoto, inadeguatezza, dall’assenza di piacere a pensieri di poter far del male al bambino o che la vita sia inutile.

Vi sono dei fattori di rischio che possono portare alla depressione post partum, come avere una depressione prenatale, ansia prenatale, mancanza di supporto sociale, stress finanziario o coniugale ed eventi avversi nella vita, aver avuto in passato una precedente storia di depressione o aver sofferto di baby blues dopo la nascita. Anche la giovane età della madre può essere un fattore di rischio (è molto più frequente nelle madri adolescenti). Inoltre, come per molti altri disturbi, aver subito dei traumi (abusi sessuali sia nell’infanzia sia nell’età adulta) o aver sperimentano degli eventi stressanti prima e durante la gravidanza può portare a sviluppare questa patologia.

Di solito i trattamenti per questo disturbo comprendono l’uso dei farmaci antidepressivi e di psicoterapia; tuttavia durante la gravidanza e l’allattamento, devono essere molto ben valutati e limitati perché possono comportare rischi sia per il feto sia per la madre, aumentando la suscettibilità a disturbi come l’ipertensione. Per questo motivo sono stati studiati e convalidati nuovi trattamenti per il benessere della mamma e del bambino, con dei protocolli molto efficaci che si basano sui mindfulness-based programs (MBP) e sulla compassione.

I programmi basati sulla mindfulness (consapevolezza) sono corsi educativi mente-corpo, che hanno lo scopo specifico di allenare la mente, attraverso la pratica della meditazione, ad adottare una consapevolezza non giudicante focalizzata sul momento presente. Per “compassione”, si intende un particolare orientamento della mente che riconosce l’universalità della sofferenza nell’esperienza umana e coltiva la capacità di affrontare quella sofferenza con gentilezza, empatia e pazienza. Crescono le prove che la compassione sia un meccanismo importante negli MBP e alcuni ricercatori sostengono l’importanza di un’esercitazione pratica alla compassione all’interno del percorso. Questi trattamenti hanno dimostrato di essere efficaci sia per i sintomi di depressione sia per altri disturbi mentali.

Gli MBP producono un  miglioramento della salute e del benessere mentale e fisico,  riducono significativamente i sintomi della depressione e prevengono le recidiva alla stessa, oltre a essere un valido aiuto per la gestione e la riduzione dello stress. Nel caso specifico del periodo peri/post natale hanno aiutato anche a gestire il dolori e i fastidi della gravidanza (compreso quello del parto), diventando un valido aiuto per i genitori in attesa; queste pratiche hanno permesso anche di  aumentare la disponibilità e le attenzioni dei genitori alla cura del bambino una volta nato.

Genitori non si nasce ma si diventa, e questo momento di passaggio e di cambiamento nella vita di un genitore porta con sé anche tante paure e difficoltà, insite nella natura umana. Come diceva Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto”, sono un essere umano, niente che sia umano mi è estraneo.

Per approfondimenti

Jennifer L. Payne, Jamie Maguire (2019), Pathophysiological Mechanisms Implicated in Postpartum Depression, Neuroendocrinol. 52: 165–180. doi:10.1016/j.yfrne.2018.12.001.

Ministero della salute (2017), La nostra salute, Enciclopedia Salute, Disturbi psichici, Depressione post partum

Olga Sacristan-Martin, Miguel A. Santed, Javier Garcia-Campayo, Larissa G. Duncan, Nancy Bardacke, Carmen Fernandez-Alonso, Gloria Garcia-Sacristan, Diana Garcia-Sacristan, Alberto Barcelo-Soler  and Jesus Montero-Marin (2019); A mindfulness and compassion-based program applied to pregnant women and their partners to decrease depression symptoms during pregnancy and postpartum: study protocol for a randomized controlled trial. Sacristan-Martin et al. Trials, 20:654 https://doi.org/10.1186/s13063-019-3739-z

Desistere dagli obiettivi irraggiungibili

di Giovanni Davì
a cura di Mauro Giacomantonio

Quando la ruminazione costituisce un ostacolo

You can’t always get what you want” cantano i Rolling Stone. Non sempre si può ottenere ciò che si vuole. Se la perseveranza e la tenacia sono due virtù molto apprezzate ed enfatizzate dall’odierna società, lo è anche una certa capacità di autoregolazione del proprio comportamento, che permetta di desistere dagli obiettivi che non vale più la pena di perseguire.

In un articolo pubblicato da Van Randenborgh e colleghi nel 2010 viene analizzato uno dei meccanismi che potrebbero ostacolare questa importante capacità di autocontrollo: la ruminazione, un modo di pensare associato al mantenimento di emozioni negative e caratterizzato da pensieri ripetitivi, focalizzati sui propri sintomi e sulle loro conseguenze. I ricercatori hanno dimostrato che le persone inclini a ruminare e che quindi presentano difficoltà a distogliere il proprio pensiero da obiettivi insoddisfatti e fallimenti del passato, mostrano difficoltà anche nel desistere da mete irraggiungibili nel presente. Per fare ciò hanno predisposto due studi. Nel primo i partecipanti hanno tentato di risolvere degli anagrammi, alcuni dei quali senza soluzione, ed è stata valutata la loro predisposizione ad attività di ruminazione. È risultato che i soggetti con una maggiore tendenza a ruminare presentavano al contempo una maggiore difficoltà a tralasciare gli anagrammi irrisolvibili. Il secondo studio prevedeva anch’esso la risoluzione di un set di anagrammi, alcuni dei quali impossibili da risolvere, ma i partecipanti sono stati assegnati a due differenti gruppi: nel primo (gruppo “ruminazione”), i soggetti, precedentemente lo svolgimento del compito, venivano indotti ad attività ruminativa attraverso la lettura di frasi elaborate in modo da dirigere i loro pensieri verso i loro sentimenti e la loro situazione personale (ad esempio, “pensa alle aspettative che la tua famiglia ripone in te”); nel secondo (gruppo “distrazione”), le frasi non avevano alcuna relazione con il sé (“pensa alle parti che compongono un’auto”). È stato riscontrato come i soggetti del primo gruppo abbiano avuto maggiori difficoltà a desistere dal risolvere gli anagrammi irrisolvibili.

I risultati ottenuti consentono, inoltre, di approfondire la comprensione del ruolo della ruminazione nello sviluppo e nel decorso di condizioni psicopatologiche come la depressione. L’attività ruminativa, ostacolando il disimpegno da obiettivi irrealizzabili, impedisce che l’individuo possa impegnarsi su mete più realistiche e magari più gratificanti; il mancato disinvestimento da mete irraggiungibili potrebbe contribuire all’insorgere di una condizione depressiva. Interessante è anche la possibile funzione moderatrice che la ruminazione svolgerebbe tra la depressione e il disimpegno dagli obiettivi non raggiungibili. Per gli individui non inclini a ruminare, la depressione può rivelarsi utile nel disimpegnarsi dalle mete irraggiungibili. Il contrario accade con i soggetti che presentano una forte tendenza alla ruminazione; di conseguenza, non ci sarà un reinvestimento degli sforzi in obiettivi più realistici, impedendo loro di sperimentare un possibile successo ed ostacolando in tal modo una ripresa dalla sintomatologia depressiva.

Ad esempio, a volte ci si innamora non essendo ricambiati. Una condizione che porta a fare l’esperienza del rifiuto, la quale alimenta un sentimento di tristezza (depressione). La tendenza a ruminare porta a farsi costantemente domande del tipo “perché è successo a me?”, “perché nessuno mi vuole?”, “perché questa persona non ricambia i miei sentimenti?”, impedendo di disinvestire da un obiettivo che si rivela irraggiungibile e non concedendo a sé stessi, ad esempio, l’opportunità di conoscere nuove persone che sarebbero in grado di far provare quelle esperienze gratificanti che potrebbero contribuire ad una ripresa dalla condizione depressiva.

Per approfondimenti:

Van Randenborgh A., Hüffmeier J., LeMoult J. e Joormann J. (2010), Letting go of unmet goals: does self-focused rumination impair goal disengagement? Motivation and Emotion 34: 325-332.

Profilassi nella depressione ricorrente

di Francesca Palladini
a cura di Alberto Chiesa

MBCT valida alternativa agli antidepressivi di mantenimento

Il Disturbo depressivo maggiore, è un Disturbo dell’umore che coinvolge la persona in maniera multidimensionale, interferendo sul benessere complessivo della stessa: qualità della vita, funzionamento psicosociale e lavorativo. Dopo aver vissuto un episodio depressivo maggiore, la persona cerca di riprendere il controllo della propria vita, ma è spesso ostacolata dalla persistenza di ruminazioni negative, che facilitano la riattivazione dei pattern di pensiero negativo, causando la ricaduta nella spirale discendente.

Zindel V. Segal et al. hanno condotto uno studio, all’interno del trattamento per la profilassi delle recidive depressive, ponendosi l’obiettivo di confrontare l’efficacia della Monoterapia antidepressiva con la Farmacoterapia sequenziale e della Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza o placebo. Lo studio approfondito del Centro di tossicologia e di salute mentale di Toronto, ha visto coinvolti 478 pazienti di età compresa tra 18 e 65 anni, che soddisfacevano i criteri del DSM-IV, per il Disturbo depressivo maggiore. Ha previsto due fasi: durante la fase acuta tutti i pazienti hanno ricevuto la Farmacoterapia antidepressiva ed in seguito solo i pazienti, che hanno soddisfatto i criteri di remissione, sono entrati nella fase di mantenimento ed assegnati in modo casuale ad una delle tre condizioni di studio:
– Terapia antiepressiva di mantenimento;
– riduzione dei farmaci più Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza;
– riduzione dei farmaci più placebo.
Gli psichiatri hanno studiato le fasi del trattamento, con una frequenza di incontri identica per tutte e tre le condizioni, constatando che con la Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza, il tasso di recidiva nel Disturbo depressivo maggiore si riduceva di circa la metà, risultando quindi una valida alternativa alla Farmacoterapia antidepressiva di mantenimento. La MBCT, nello studio sopra citato, è stata attuata secondo il protocollo descritto da Segal et al. che ha previsto otto settimane di trattamento in gruppi di due ore, un giorno di ritiro tra le sessioni sei e sette e durante la fase di mantenimento è stata offerta una classe di meditazione facoltativa, di un’ora al mese. Gli incontri avevano l’obiettivo di aiutare i pazienti a coltivare la propria consapevolezza e ad evitare il ripristino di forme automatiche di pensiero e dolore, caratteristiche dello stato depressivo, come la ruminazione e l’evitamento.

In definitiva, la pratica della Terapia cognitiva basata sulla consapevolezza, quale risorsa per imparare un nuovo modo di relazionarsi con le esperienze difficili, rappresenta, per la prevenzione contro le recidive depressive, un approccio promettente.

Più ti giudichi peggio ti senti

di Emanuela Pidri 

L’effetto paradossale della valutazione negativa dei propri vissuti emotivi

La consapevolezza è uno stato mentale vigile che consente di osservare lo scorrere dell’esperienza interiore momento dopo momento e in modo non giudicante. Essere consapevoli significa orientare la propria attenzione a stimoli esterni e interni, nel “qui e ora”, in modo che nessuno sia sopraffatto dalla veemenza di pensieri, emozioni e sensazioni né sia guidato nelle proprie azioni e scelte dai propri contenuti cognitivi ed emotivi. Le pratiche di consapevolezza, conosciute con il termine “Mindfulness”, sono state applicate nel trattamento di pazienti con differenti quadri clinici, migliorandone la capacità di decentramento. Diversi studi hanno dimostrato che la consapevolezza è significativamente correlata al benessere emotivo; al contrario, avere un atteggiamento critico e giudicante verso i propri pensieri, emozioni, comportamenti è associato a psicopatologia. Le ricerche presenti in letteratura dimostrano come la ruminazione sia predittiva e mantenga il disturbo depressivo mentre la preoccupazione predice e mantiene il disturbo ansioso. Partendo da tali presupposti, si è studiato il ruolo della consapevolezza in correlazione con la ruminazione e la preoccupazione nello sviluppo di depressione o ansia. Uno studio guidato dalla psicoterapeuta Barbara Barcaccia esplora quali sfaccettature della consapevolezza siano implicate nell’associazione con ruminazione e preoccupazione, predicendo e mantenendo depressione e ansia. A 274 partecipanti di età compresa tra i 18 e i 74 anni sono stati somministrati il Five Facet Mindfulness Questionnaire, il Beck Depression Inventory, lo State-Trait Anxiety Scale, il Penn State Worry Questionnaire, il Ruminative Response Scale. Dall’analisi dei risultati si evince che la ruminazione e la preoccupazione sono strategie di coping disfunzionali coinvolte nell’esacerbazione e nel mantenimento di depressione e ansia. Anche la consapevolezza correla con ruminazione e preoccupazioni poiché il semplice atto di osservare i propri stati interiori può essere associato a un aumento di emozioni negative. Nello specifico, gli individui in grado di osservare i propri stati mentali tendono a preoccuparsi e ruminare in misura maggiore. Si nota una paradossalità: la consapevolezza aiuta le persone a riconoscere e, in seguito, a rompere i cicli ruminativi abituali, impedendo loro di rimanere intrappolati nella sofferenza; tuttavia, una sua componente aumenta la ruminazione e la preoccupazione e la probabilità di sviluppare ansia o depressione. Ciò significa che essere in grado di osservare i propri pensieri e sentimenti non equivale ad accettarli, né è di per sé vantaggioso, a meno che non si abbia un atteggiamento accettante e non giudicante. Individui consapevoli ma con atteggiamenti giudicanti verso le proprie esperienze interiori mostrano livelli più alti di ruminazione e preoccupazione. L’associazione tra autocritica o giudizio negativo verso sé e sviluppo di ansia o depressione è coerente con le teorie cognitive, rispetto le quali l’autocritica gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della psicopatologia, mentre la consapevolezza in termini di riconoscimento, osservazione e accettazione non giudicante della propria vita interiore è legata al benessere. Quando le persone criticano sé stesse e i loro sentimenti, pensieri ed emozioni, sperimentano livelli più alti di sofferenza. Un’implicazione clinica interessante dei risultati dello studio di Barcaccia potrebbe riguardare la possibilità di considerare l’autocritica come un meccanismo transdiagnotico di predittività e cronicizzazione della sofferenza, a cui il clinico deve porre attenzione nel piano di intervento psicoterapeutico. Il trattamento dovrà prevedere una fase di normalizzazione e accettazione non giudicante dei pensieri negativi, immagini mentali, sentimenti ed emozioni, obiettivo che potrebbe essere raggiunto sia dalla ristrutturazione cognitiva classica che da interventi e pratiche Mindfulness.

Per approfondimenti:

Barcaccia B. et al., (2019). The more you judge the worse you feel. A judgemental attitude towards one’s inner experience predicts depression and anxiety. Personality and Individual Differences 138, 33-39.